Trasformare l’individuo umano in
un’insensibile macchina calcolatrice la cui unica funzione sociale è quella di
massimizzare il proprio profitto rappresenta il punto più alto e sofisticato
del disegno perseguito dai teorici neoliberali. Sradicare ogni pulsione
sociale, ogni bisogno ed ogni istanza morale dal modus operandi della massa dei
cittadini è indubbiamente un obbiettivo prioritario per gli oligarchi globali
che intendono accumulare sempre più ricchezza senza incontrare noiosi ostacoli.
«Detto altrimenti», spiega la docente di Scienze politiche Wendy Brown,
«tramite discorsi e politiche che promulgano i suoi criteri, il neoliberalismo
produce attori razionali e impone la ratio del mercato per la presa di
decisione in tutte le sfere» (da W. Brown, «Critical Essays on Knowledge and
Politics», University Press, Princeton 2005, cap.III, pag.40).
La formazione di questo robotico
«Homo oeconomicus» privo di palpiti che non siano l’efficienza e le esigenze
della contabilità ha trovato nel corso degli ultimi anni un riscontro tangibile
nelle azioni legislative condotte dai governi nazionali. A titolo di esempio nelle riforme Hartz,
quelle sul mercato del lavoro adottate in Germania dal 2003 e contemplate con
commovente ammirazione da parte delle forze politiche nostrane, si osservano con frequenza concetti come «io-impresa» (Ich-Gesellschaft) o addirittura
«famiglia-società per azioni» (Aktien-Gesellschaft Familie) ove il lavoratore
finisce per essere considerato nulla più che un’unità di «capitale umano» la
cui unica direzione (in ogni scelta della propria esistenza) consiste nel
maggior ritorno economico a seguito di un investimento iniziale.
In base a questo dogma, è da
considerarsi non solo positivo ma addirittura indispensabile che tutti i gangli
che costellano la vita pubblica dei cittadini seguano esclusivamente criteri di
competitività economica come un’impresa qualsiasi oppure, ancora meglio, che
questi gangli finiscano per essere direttamente privatizzati. Del resto, se la
vita dell’individuo funziona solo in base a criteri aziendali, cosa c’è di
meglio se non affidare gli organi di formazione e regolazione pubblica alle
aziende stesse?
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La scuola, come s’intuisce,
diventa a questo punto uno snodo cruciale sia in quanto responsabile della formazione
dell’«homo oeconomicus» del domani, sia in quanto organo finora affidato in
gran parte alla gestione pubblica dello Stato e di conseguenza passibile di future privatizzazioni. «Impresa,
internet e inglese» (copyright dell’ex-ministro Gelmini) era ed è tacitamente
anche tuttora la parola d’ordine per tradurre nell’ambito scolastico
l’esigenza, per l’appunto, di trasformare l’individuo in un mero imprenditore
di se stesso in base alle richieste delle grosse imprese.
Praticamente, la conseguenza di
questa scellerata impostazione consiste da un lato nell’affidare in maniera via
via crescente la gestione delle scuole alle imprese private, dall’altro, finché
le scuole rimangono nelle mani dello Stato, predisporre i programmi e la
formazione degli studenti in un’ottica esclusivamente proiettata verso
un’occupazione aziendale. Plasmare individui consapevoli della propria funzione
sociale, autonomi nello svolgimento di un pensiero critico e di conseguenza in
grado di elaborare una coscienza individuale in particolar modo nell’approccio
delle più rilevanti questioni sociali non è più un obbiettivo da affidare alle
scuole. Anzi, e lo si vede chiaramente nel continuo discredito a cui si trovano
sottoposte le discipline umanistiche, questo obbiettivo viene considerato
desueto e inutile: una vera e propria perdita di tempo che svia da quello che è
il nuovo scopo dell’istruzione dettato da precisi interessi privati.
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Il disegno di legge governativo
cosiddetto «la buona scuola» è soltanto l’ultimo provvedimento in ordine di
tempo finalizzato al pedissequo perseguimento di questa logica. In questo testo
l’istituzione pubblica rinuncia sfacciatamente ad ogni programma di ridisegno
delle funzioni e dei programmi didattici tramite una selezione ed una
formazione ritenuta idonea del corpo docente: si limita al contrario, ed è
questo il nocciolo del ddl, ad iniettare ciecamente nelle scuole pubbliche una
caterva, i cui numeri precisi sono ancora ignoti, d’insegnanti costretti da
lungo tempo ad una condizione d’inaccettabile precariato. Lascia un amaro
sorriso leggere quanto scriveva l’attuale premier Matteo Renzi nel saggio
«Fuori» (correva l’anno 2011): «La scuola è importante per quello che i bambini
imparano, non per il numero delle persone che riusciamo a cacciarvi dentro,
magari senza controllarle dopo. L’educazione delle nuove generazioni non può
essere condizionata al numero di assunzioni da fare, considerandole come
ammortizzatore sociale». Invece, se si vuole dare una sommaria descrizione dei
principali punti della «buona scuola», le parole scandalizzate del Renzi
di qualche anno fa sono le più calzanti. È al costo di questo piano straordinario di
assunzioni che alludono i rappresentanti governativi quando si pavoneggiano di
essere tornati ad investire nella scuola, omettendo incidentalmente di rivelare
quanto trapela dalle leggi di bilancio di questo stesso governo, tema che verrà
affrontato a breve.
L’unica vera innovazione portata
dall’esecutivo nelle funzioni didattiche della scuola pubblica consiste nell’ennesimo
diktat che vede nella dimensione aziendale l’unico punto di riferimento per la
formazione dell’individuo: s’impone una poderosa implementazione
dell’Alternanza scuola-lavoro, che deve tassativamente cominciare fin dal terzo
anno degli Istituti Tenici e prevede un anno in più per gli Istituti
Professionali. Ma nemmeno i Licei restano immuni da questa smania stakanovista
se è vero che il Ministero comunica che «percorsi di didattica in realtà
lavorativa saranno resi sistemici per gli studenti di tutte le scuole
secondarie di secondo grado» invitando inoltre sia le aziende che soprattutto
le scuole ad uniformarsi in una prospettiva che vede scuole e aziende sempre
più legate da un’indistinguibile connubio. Progetto, quello dell’Alternanza,
che deve tassativamente coinvolgere almeno (almeno!) duecento ore all’anno per
studente. Ciò significa che almeno un quinto delle ore scolastiche dev’essere
impiegato ad apprendere una professione all’interno di un contesto aziendale
(il tutto senza considerare la riluttanza dimostrata molto spesso dalle piccole
imprese).
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Di azioni dirette lo Stato non
intende proporne altre. Anzi, il governo ammette chiaro e tondo che le finanze
pubbliche da sole non sono in grado di sopperire alle esigenze economiche
basilari della scuola pubblica (e questo nonostante sia il torrente di fondi pubblici
che continua ad affluire verso le scuole private, sia il dettame costituzionale, sia quanto affermato da un
rapporto Ocse del 2011, il quale stima che l’Italia spenda per la scuola pubblica
non più del 4,7% del Pil contro una media dei Paesi monitorati corrispondente al
6,1%). Visto che l’unica soluzione adottabile è quella di affidare le chiavi
della formazione scolastica ai privati, assistiamo oltretutto alla prosecuzione
dei tagli spietati. Da parte di questo governo, l’avvisaglia è costituita da un
accordo del 7 agosto 2014 che prevede una riduzione di 267,83 milioni del Fondo
dell’istituzione scolastica a partire dal 2015, a cui si aggiunge un decreto di
ottobre che fa ammontare i fondi per l’anno scolastico alle porte a 11 milioni
di euro, circa la metà rispetto all’anno precedente.
Ma è la Legge di Stabilità
autunnale a sferrare i colpi più pesanti: riduzione a partire dal 2015 di 30
milioni delle «spese e interventi correttivi del Ministero dell’istruzione» (90
milioni nel triennio in vista), sottrazione di 10 milioni di somme non
utilizzate dalle scuole, abolizione degli esoneri dall’insegnamento per i
collaboratori del preside (si prevede un risparmio di supplenti per 103 milioni),
abolizione del coordinatore periferico del servizio di educazione fisica (circa
un milione di risparmi per il 2015 e tre milioni di risparmi per il biennio
successivo), risparmio stimato in 50 milioni sui distaccati in altri uffici o
in altre associazioni, divieto di supplenze brevi sia per i docenti che per il
personale ATA (si stimano 200 milioni di risparmio), riduzione di 2020 posti
dell’organico del personale ATA (50,700 milioni di risparmio a partire dal
2015), decurtazione di 200mila euro di finanziamento alla scuola europea di
Parma e, dulcis in fundo, nuovi tagli alla ricerca universitaria e nuovo blocco
del contratto.
Perché è chiaro che d’ora in
avanti la scuola deve assolutamente diventare un oggetto ad uso e consumo delle
imprese private: il documento originario della «buona scuola» promette vantaggi
nel momento della trasformazione delle scuole in Fondazioni (per la cui
costituzione si necessita di un consistente fondo di dotazione di cui si omette
la provenienza) assolutamente idonee per l’instaurazione di rapporti societari;
e accenna inoltre in maniera sospettosamente vaga di metodi di finanziamento
privato quali lo School Bonus (uno strumento per il quale il ddl prevede una
detrazione del 65% per il 2015-2016), lo School Guarantee (garanzie per i
finanziatori) e il Crowdfunding (finanziamento collettivo). Una slide
presentata successivamente dal governo arriva addirittura a promuovere la fine
del Contributo volontario delle famiglie da sostituire semmai con il 5x1000
nella prospettiva sempre più concreta di una scuola pubblica soggetta
esclusivamente alla discrezione di finanziatori privati, soprattutto grandi
imprese, sui cui favori pretesi in cambio ci sarà molto di che preoccuparsi.