Rendere la pressione fiscale più
leggera per le categorie più abbienti (tramite sgravi o pesanti riduzioni delle
imposte sulle società) non ha nulla di fresco, a dispetto del volto giovane ed
esuberante degli imberbi ministri che decantano le loro gesta spacciandole per
spolverate d’innovazione. Al contrario, emana uno sgradevole fetore di stantio,
di già visto, di talmente vetusto da risultare putrescente dinnanzi alla
pesantezza di una crisi economica che di certi dogmi ne rappresenta la più
sonora tra le smentite.
Proseguire con l’ideologia
secondo cui le disuguaglianze vanno incentivate perché nella perfezione del
mercato globale il ricco prospera perché pieno di meriti, il povero soccombe perché
se l’è andata cercando e chi si è ritrovato senza lavoro ovviamente «non ha
voglia di lavorare» (così si esprime il guru Oscar Farinetti nel corso di un’intervista di Carlo Tecce pubblicata sul «Fatto Quotidiano» del 21/12/2013, pag.6). La
tassazione ovviamente deve agire di conseguenza, non solo premiando il merito
di chi possiede un’invidiabile quota di capitale ma lasciando che sia la sua
discrezione (secondo la bislacca teoria del «trickle-down») a garantire una
vita decente a chi il capitale non lo possiede.
In questo studiato meccanismo ove
ogni ingranaggio vede la concentrazione di ricchezza come obiettivo primario il
carico fiscale ricopre un ruolo di primaria importanza, come dimostra quanto
affermato dall’International Labour Organization («World of Work Report 2008: Income In-equalities in the Age of Financial Globalization», Genève 2008, pagg.IX-XII):
«La tassazione è diventata meno
progressiva nella gran maggioranza dei Paesi e quindi meno capace di
redistribuire i guadagni dello sviluppo economico. Ciò riflette un taglio delle
imposte a carico degli alti redditi […] Tra il 1993 e il 2007, l’aliquota media
dell’imposta sulle imprese è stata tagliata (in tutti i Paesi per cui esistono
i dati) di 10 punti percentuali. Nel caso dell’aliquota massima sui redditi
personali, nello stesso periodo essa venne ridotta di 3 punti».
Nello specifico del nostro Paese,
tralasciando la solerzia nel proteggere un’evasione fiscale dai
contorni
sbalorditivi (si pensi solo all’assortita sequela di condoni) e rimanendo nell’alveo
del dettame legislativo, l’aliquota minima (quella applicata su un reddito
inferiore a 15mila euro) è fissata al 23% contro l’aliquota unica applicabile
sulle rendite da capitale, generose concessioni nei confronti di una porzione
di denaro ottenuto senza lavorare, rimasta ferma per lungo tempo ad un misero
12,5%. Una percentuale che fa impallidire persino un’Europa di certo non
affetta da pulsioni socialdemocratiche, se si considera che la media ha sempre
veleggiato attorno al 20%.
«Tuttavia», asserisce il
sociologo Luciano Gallino, «siamo pur sempre dinanzi al paradosso: un
lavoratore con un imponibile di 28mila euro- quota entro la quale rientra la
maggior parte dei lavoratori dipendenti- deve versare 6960 euro di imposte (sia
pure al lordo di modeste detrazioni), a fronte di 1500 ore annue di lavoro
pagate meno di venti euro l’una, mentre su un introito della stessa entità un
redditiere da capitale ne paga soltanto 5600, senza dover lavorare neppure un’ora.
E la medesima aliquota pagherà anche se quella rendita si moltiplica per mille».
Le imposte sulle società (tralasciando
le elusioni, il business dei paradisi fiscali e gli accordi ad aziendam di cui
un campione indiscusso è l’attuale dominus della Commissione Europea
Jean-Claude Juncker) hanno seguito un analogo andamento discendente: la società
di servizi finanziari Kpmg ha
pubblicato nel 2010 uno studio condotto su
ottanta paesi rivelando come il tasso medio d’imposizione fiscale sia stato
generosamente ridotto in quindici anni (si parla del periodo 1995-2010) dal 38
al 25%. Tra tutti si distinguono paradossalmente sia la Germania che la Grecia;
sebbene, manco a dirlo, la prima si sia dimostrata più docile dando una
sforbiciata di ben ventidue punti percentuali a questa aliquota (dal 51,6 al
29,4%) contro un taglio del 16% dei compari ellenici (dal 40 al 24%).
Tagliare le tasse sul profitto è tra le priorità di un governo sedicente "progressista" e "rottamatore" |
La nostra penisola si è data anch’essa
da fare con discreti risultati apportando una riduzione di dieci punti (dal
41,3 al 31,4%) a cui però, a onor del vero, andrebbero aggiunti altri favori
generosamente elargiti come la peculiarità quasi unica di essere sprovvisti di
un’imposizione sul capitale ereditato o la caotica normativa delle detrazioni
fiscali secondo cui (come scrive Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 22/07/2015) «le cedolari secche sulle locazioni, le erogazioni ai partiti politici
e la deducibilità dell’assegno al coniuge, sottolinea l’Ufficio di Bilancio,
hanno un effetto negativo sulla redistribuzione».
La prova del nove, comunque, la
fornisce la distribuzione del prelievo Irpef: se alla fine degli anni Ottanta
le entrate Irpef da lavoro dipendente ammontavano al 40% delle entrate totali
derivanti da questa imposta, oggi queste sono arrivate al 60%. Processo inverso
per la quota Irpef pagata da lavoro non dipendente, progressivamente ridotta da
un indicativo 38% ad un insostenibile 10%.
A questa già difficile situazione
si va ad aggiungere il nodo discusso in questi giorni: sotto l’albero di
Natale
della legge di Stabilità 2016 pare infatti in dirittura d’arrivo un altro demagogico pacchetto regalo d’iniquità fiscale sotto forma di abolizione definitiva di
qualunque tassazione sugli immobili principali, uno dei pochi baluardi d’imposta
sufficientemente progressiva, tutto sommato contenuta se paragonata alle
nazioni dirimpettaie e ardua da evadere (tralasciando le disfunzioni di un
catasto la cui riforma viene testardamente rimandata). Affrontando la sola
decurtazione della Tasi (quella pagata su tutte le case con l’eccezione delle
abitazioni di lusso) la Cgil aveva condotto una stima (si veda Rita Querzè sul «Corriere della Sera» del 02/08/2015, pag.4) secondo cui
Il Primo ministro interviene a Rimini in occasione del meeting annuale di Cl |
«gli otto milioni di contribuenti
delle fasce di reddito più basse risparmieranno 55 euro procapite mentre per il
milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà di 827 euro».
L’intervento del premier sul
palco del meeting di Comunione e Liberazione è riuscito a sorprendere ancor di
più, aggiungendo al profluvio di parole e allo spargimento a piene mani di
narrazioni fiabesche un riferimento all’abolizione dell’Imu sulla prima casa,
rendendo ancor più semplice la vita a chi si ritrova in disponibilità di
manieri, castelli e ville da sogno.
I fautori dell’intervento non
mancano comprensibilmente di addurre nobili motivazioni alla manovra, prima fra
tutti l’accusa che la tassazione sulla casa firmata dal governo Monti abbia
costituito il colpo di grazia sia per il mercato degli immobili che per il
comparto dell’edilizia. Uno studio di recente pubblicazione ad opera di Paolo
Surico e Riccardo Trezzi («Consumer Spending and Property Taxes») basato su
rilevazioni di Bankitalia dimostra come le difficoltà di ambedue i comparti
siano da imputare principalmente al periodo recessivo cominciato nel 2008, come
testimoniato peraltro anche dal grafico qui sotto (dal «Corriere della Sera»
del 27/07/2015, pag.13).
L’altro cardine per giustificare
la scelta renziana (o berlusconiana, ma gli aggettivi sono ormai sinonimi)
consiste nel sostenere che prelevare meno tasse significa lasciare più soldi
nelle tasche dei cittadini, i quali di conseguenza li spenderanno contribuendo
a far ripartire il motore dell’economia. Lo studio di Surico e Trezzi non
lascia trapelare questa convinzione. Anzi, nell’articolo cofirmato da Lucrezia
Reichlin e dallo stesso Paolo Surico a presentazione dello studio (sul «Corriere della Sera» del 27/07/2015, pag.13) si afferma:
«Mentre l’imposta sulla prima
abitazione ha avuto un effetto fortemente negativo sul consumo di
beni durevoli
(come ad esempio l’auto) per le famiglie che pagano un mutuo, l’effetto è
pressoché nullo sia sul consumo delle famiglie che non hanno debiti- la grande
maggioranza- che sul consumo delle famiglie soggette all’Imu sulla seconda
abitazione. Per questa ultima categoria è interessante notare che, nonostante l’onere
fiscale sulla seconda casa sia mediamente tre volte più alto che l’onere sulla
prima, il consumo si rivela insensibile all’imposta, la quale è interamente
finanziata dai risparmi. […] Come evidenziato da Surico e Trezzi, l’imposta
sull’abitazione ha fortemente cambiato le abitudini di consumo solamente per
una piccola parte di proprietari (coloro con mutuo) e come tale eliminarla
oppure ridurla per questo gruppo di cittadini avrebbe un effetto di stimolo sui
consumi senza ridurre significativamente le entrate dello Stato. Al contrario,
eliminarla per tutte le prime abitazioni non stimolerebbe i consumi in modo
molto più rilevante di quello 0,11% del Pil stimato da Surico e Trezzi per i
proprietari con mutuo ma peserebbe sulle casse dello Stato con una riduzione
delle entrate pari allo 0,9% del Pil».
Nel 2013 l'attuale ministro delle Finanze reputava sbagliato puntare sul taglio delle imposte immobiliari, da "Il Foglio" |
A ciò si deve aggiungere un altro
tassello, probabilmente il più drammatico: per la grande maggioranza dei
cittadini non solo l’effetto sui consumi risulta nullo, ma in termini di debito
pubblico, di erogazioni statali e di protezioni sociali il rischio di un
pesante peggioramento è quasi una certezza. Meno soldi incassati dallo Stato
non significano meno sprechi (quelli si è ben restii dal porvi mano) bensì
innanzitutto un consistente strangolamento degli spazi pubblici (pensiamo alla
scuola, pensiamo alla sanità, pensiamo alle università e alle pensioni) che per
ora rappresentano il più delle volte l’ultimo baluardo di servizio garantito a
tutti e resistente all’incessante ondata di privatizzazioni. Oppure si passa
alla scorciatoia di trovare altre fonti da tassare, o meglio ancora di tagliare
consistentemente le elargizioni agli enti locali, con conseguente impennata
delle imposte regionali e comunali (più 22% nel solo periodo 2011-2014, secondo la Corte dei Conti) o alienazioni di patrimonio statale.
Stando alle promesse, il taglio d'imposte sulla casa varrà anche per gli immobili di lusso |
Gli unici ad ottenere un sicuro
guadagno saranno le categorie più abbienti, il cui vantaggio si tradurrà (alla
faccia del «trickle-down») in investimenti nell’unico settore che garantisce
ampi margini di profitto: quello finanziario. Un aumento delle disuguaglianze
le cui ripercussioni non mancheranno di farsi sentire anche nella vita
quotidiana. Concludo con un intervento di Luciano Gallino a tal riguardo:
«Succede che, data l’enorme
possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via
via cresciuta negli anni grazie ad attività speculative e alla benevolenza del
fisco, molti beni e servizi aumentano a tal punto di prezzo che le classi
lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono più
permetterseli, o possono accedervi con molta maggiore fatica.
Si pensi a quella sorta di tassa
sulla vita quotidiana che è la pendolarità abitazione-lavoro. In molte
città
dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, le colossali rendite finanziarie
tassate con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo degli immobili
ovvero gli affitti nel centro delle grandi città siano diventati talmente
elevati da espellere quasi tutta la popolazione che tradizionalmente vi
risiedeva. Si tratta di figure professionali preziose per la vita di una città,
che però in città non hanno più la possibilità di abitare. Per cui sulle loro
esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si
tratta, quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più
ricchi. Il punto della questione a cui badare è un altro: il vantaggio fiscale
produce direttamente un peggioramento generale della qualità della vita delle
classi lavoratrici e delle classi medie».
Fino a qualche tempo fa la corrente renziana mostrava ostilità verso l'abolizione di tasse sul patrimonio |