La vulgata anti-partitica
inghiotte nella sua voragine strutture e organizzazioni, solidarietà e riti
collettivi giustificandosi – quando non da uno sbraitare scomposto – tramite
l’appello ad una presunta «modernità» traducibile concretamente, citando Hobbes,
in un’esistenza misera, brutale e breve
per la maggioranza schiacciante dei cittadini.
Avendo assistito a non esaltanti venticinque anni di Seconda
Repubblica caratterizzati dalla quasi unanime damnatio memoriae nei riguardi delle organizzazioni partitiche è
alquanto naturale giungere
alla conclusione che forse una valutazione così
impietosa verso le «polverose» organizzazioni di massa (il discorso si potrebbe
infatti ampliare anche ai sindacati) non solo era ingenerosa, ma dettata più che altro da precisi interessi a cui
eventi peraltro positivi come il crollo del muro di Berlino e il repulisti
effettuato dalle procure nazionali hanno finito per fornire un’affrettata galvanizzazione a tutto scapito del lavoro e
dell’assetto democratico.
Il cappio sventolato dalla Lega Nord durante Tangentopoli inneggiava alla fine dei partiti |
Difficile rimanere inermi o
trincerarsi dietro la rassicurazione omologante che «destra e sinistra non
esistono più» quando ci si ritrova davanti alla sfacciata pubblicazione di un
documento della JP Morgan in cui ci si vanta con malcelata euforia che
«I margini di profitto hanno raggiunto livelli che non si vedevano da
decenni […] Sono le riduzioni dei salari e delle prestazioni sociali che spiegano
la maggior parte dell’incremento netto degli utili. Questa tendenza continua da tempo: come abbiamo mostrato diverse
volte negli ultimi due anni, la
retribuzione dei lavoratori americani si colloca al punto più basso da
cinquant’anni a questa parte in rapporto sia alle vendite delle società che
al Pil degli Usa» (da JP Morgan, «Portfolios, US Corporate Profits and the Twilight of Gods», in «Eye on the Market», 11/07/2011, pag.1)
Poco ma sicuro che un grande partito di massa dotato di un
solido radicamento e di una robusta rappresentanza parlamentare non avrebbe mai
concesso che nei Paesi Ocse la quota dei salari sul Pil – tra cui va
annoverata anche la stima del reddito da lavoro autonomo – subisse uno sbalorditivo
tracollo di mediamente dieci punti percentuali tra il 1976 e il 2006, passando dal 67 al 57% (sorte particolarmente
feroce per l’Italia, passata dal 68 al 53% con la caduta di un notevole 15%)
garantendo un flusso miliardario nel
versante delle rendite finanziarie, dei profitti e delle rendite immobiliari
(da Ocse, «Croissance et inégalités», Paris 2008, pag.38, riq.1.2).
La quota dei salari sul Pil nel corso degli anni |
Comprimere ogni organo di consolidata rappresentanza dei cittadini
ha rappresentato il passaggio chiave non solo per sradicare ogni barlume di opposizione organizzata all’opera di
redistribuzione della ricchezza dai cittadini alle oligarchie finanziarie, ma
per consegnare definitivamente ai padroni dell’apparato mediatico l’essenziale
compito della formazione politica tanto per la massa quanto soprattutto per una
classe dirigente (soprattutto burocratica) attivamente disposta ad esaudire i
desiderata più consolidati.
Nella censura dell’«esautorazione del popolo ad opera dei
partiti, visti soltanto come gruppi oligarchici di potere» e nel disprezzo
dell’«organizzazione autonoma della
cittadinanza attiva nello spazio politico» (il partito, appunto) un
giurista come Gerhard Leibholz intravedeva «un
nuovo romanticismo politico estremamente
pericoloso» (da G. Leibholz, «La rappresentazione nella democrazia», Milano, 1989, pag.334 et passim) definito magistralmente da Kelsen
«attacco, ideologicamente mascherato, contro l’attuazione della democrazia» (da H. Kelsen, «La democrazia», Bologna, 1981, pag.57).
Con la fine della Prima Repubblica sono state soppresse tutte le organizzazioni di partito |
Non furono immuni alla
travolgente orda anti-partitica riviste di prestigio come «Il Mulino», bramoso
nella spasmodica attesa che «i partiti
attuali passino attraverso la
ghigliottina» dell’auspicato
referendum del ’92 sul maggioritario e sul
finanziamento pubblico ai partiti, consultazione da definirsi gioiosamente «mazzata che scrolli via i partiti» (più
feroce ancora il pur notevole Edmondo Berselli, non esitante nell’abbandonarsi all’invocazione di «distruggere», «scomporre» e «disarticolare i partiti»).
Anche la sinistra finì per essere monopolizzata dai dogmi antipolitici |
Come non mancò Confindustria di esprimere il suo beneplacito alle mozioni
referendarie, i quotidiani nazionali inneggiarono in coro alla rivolta
popolare contro i partiti, chi facendo leva sui suoi costi («Corriere della
Sera»), chi sulla riscossa di una mitica «società civile» («La Repubblica»),
chi scagliandosi contro «il tiranno senza
volto» della partitocrazia («La Stampa») in un’assillante operazione mediatica ben riassunta dalle definizioni di
un altro studioso ammirevole, Giovanni Sartori, all’epoca anch’esso assorto
nella battaglia contro i «partiti piovra»
e la «partitocrazia parassitaria».
Nasce nelle campagne, non nelle fabbriche, la nozione di partito |
Vinta in maniera sbalorditiva
questa battaglia e terremotato alla
radice ogni residuo di tradizionale rappresentanza, la Seconda Repubblica
poté iniziare la sua ingloriosa epopea
elargendo finora soltanto ampie manciate di carisma personali, leggi
ad-personam, speculazioni, incapacità amministrative e deleghe in bianco al leader di turno a cui una frastornata sinistra non fu in grado di porsi come reale alternativa oscillando tra lo scimmiottamento della leadership berlusconiana, l’invocazione
antipolitica di deleghe alla magistratura (o a qualche figura dello spettacolo),
iniziative nebulose all’insegna di «girotondi» e prove traballanti di democrazia
diretta poi in larga parte sfociate nel grillismo.
Acuita dagli sconvolgimenti
globali, la scomparsa dei partiti è tornata finalmente al centro del dibattito
pubblico portando parecchi studiosi alla
conclusione che il partito sia da definirsi sorpassato dalla fine dell’assetto
fordista imperniato attorno alla fabbrica. Una constatazione storicamente discutibile – il partito
prende origine nel contesto agricolo, non operaio - a cui Lipset ha già fornito una concisa risposta, affermando
che
«I partiti politici devono essere considerati come le più importanti istituzioni di mediazione tra cittadini e Stato.
Ed un elemento fondamentale per una democrazia stabile è l’esistenza di grandi
partiti con una significativa base di sostegno» (da S. M. Lipset, «Istituzioni, partiti, società civile», Bologna, 2009, pag.344)
La prima cosa di cui abbiamo
bisogno è un partito.