Se prestiamo orecchio al sommo
sacerdote della piena libertà dei mercati, mister von Hayek, il compimento di
una federazioni di Stati e la tutela dei principi democratici rappresentano un
gioco a somma zero ove, alla stregua di una clessidra, più si predilige l’uno e
più si penalizza l’altra. Sconforto e sbigottimento si mescolano nella lettura
di quanto questo prestigioso economista concludeva nel 1939 sul funzionamento
di «comunità» di nazioni sovrane: partendo dal presupposto che non esiste
«alcun esempio storico di paesi con una politica estera e della difesa comune,
senza un sistema economico comunitario», privo di conseguenza di dazi interni e
vincoli nella circolazione di capitali, si arriva alla logica conclusione che
la possibilità d’intervento economico sull’economia da parte dei singoli
governi delle varie nazioni ne risulta straordinariamente ridotta («per il
singolo stato sarà difficile realizzare perfino limitazioni normative sul
lavoro minorile o sulla regolamentazione dell’orario di lavoro», si afferma) al
punto tale che viene considerato sì «difficile immaginare che gli inglesi o i
francesi affidino la difesa della loro vita, della loro libertà e della loro
proprietà- in breve, le funzioni di uno stato liberale- a un’organizzazione
sovranazionale», ma al contempo «non sembra né probabile né auspicabile che
essi siano disposti a consegnare a un governo federale il potere di regolare la
loro vita economica, di decidere che cosa debbano produrre o consumare. Eppure,
allo stesso tempo, in una federazione nessuna di queste competenze potrebbe
rimanere a carico degli stati nazionali. Ne risulta che entrare a far parte di
una federazione significa accettare che né il governo della federazione, né il
governo dei singoli stati avrà il diritto di pianificare la vita economica in
senso socialista».
Come si è già avuto modo
d’intravedere, non è la realizzazione di un (comunque utopico) programma
socialista ad essere incompatibile con un’unione federale. Hayek afferma
infatti che a livello generale in una tale comunità ogni controllo democratico
sull’attività economica privata sia da considerarsi bandito, lacerando
profondamente di conseguenza la sostanza dei processi democratici. Una
consapevolezza che viene rivendicata senza troppi fronzoli: «Se dovesse
risultare che la democrazia in ambito internazionale è possibile solo se le
funzioni attribuite al governo internazionale si limitano a un programma di
tipo liberista, ciò non farebbe altro che confermare l’esperienza sin qui acquisita
su scala nazionale, da cui appare ogni giorno più evidente che la democrazia
funziona solo se non la sovraccarichiamo, e se le maggioranze evitano di
abusare del proprio potere interferendo con la libertà individuale». La frase
successiva è di sbalorditiva chiarezza e preveggenza: «Se il prezzo che
dobbiamo pagare per un governo democratico internazionale è la restrizione del
suo potere e del suo raggio d’azione, non è affatto un prezzo troppo alto» (Friedrich
von Hayek, dal saggio «The Economic Conditions of Interstate Federalism»,
pubblicato nel settembre 1939 sulla rivista «New Commonwealth Quarterly»).
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L’attuale Primo Ministro greco
potrà sollevare opinioni contrastanti, ma il merito che gli va riconosciuto è
quello di aver mostrato con ineguagliabile chiarezza la reale condizione che
tiene in vita l’attuale agglomerato che ci ostiniamo a chiamare «Unione (sic) Europea»,
ossia il tassativo divieto di una gestione degli Stati all’insegna della
democrazia e della giustizia sociale. Non sussistevano molti dubbi su chi,
complice la globalizzazione e la progressiva concentrazione della ricchezza,
dirigeva fattivamente le sorti del mondo esaudendo molto banalmente
l’accrescimento dei propri profitti; ma nel mentre fino ad oggi in molti si
erano illusi che la politica in questo processo fosse stata violentemente
emarginata per lasciare campo libero ad una burocrazia asservita a precisi
interessi finanziari globali, in questi giorni si è chiarito che la politica è
presente, consapevole e scandalosamente condiscendente con un assetto di potere
fondato paradossalmente sulla sua soppressione. Un suicidio ampiamente
meditato, potremmo definirlo.
L’estenuante trattativa
Grecia-creditori, specie nelle ultime settimane, ha testimoniato l’unico vero
scopo delle controparti europee: voler umiliare con ogni mezzo a disposizione
qualsiasi barlume di speranza autenticamente democratica nell’eurozona, non
limitandosi a seguire i diktat e le pressioni provenienti dal grande capitale
finanziario ma agendo in prima persona per rivendicare che i dogmi della
concentrazione di ricchezza sono semplicemente intangibili, anche a costo di
creare temporanei malumori nelle Borse, più volte euforiche (e altrettante
volte deluse) quando sembrava di essere ad un passo dall’accordo e quel passo
non veniva mai compiuto. Il motivo lo si comprende in queste ore: l’unica
possibilità presa in considerazione dai creditori era la resa incondizionata, e
a forza di pressioni di ogni genere (tra queste va segnalata l’interruzione
dell’erogazione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea)
l’obbiettivo è stato pienamente raggiunto. «L’obbedienza nei confronti delle
disposizioni del mercato viene ricompensata, la disobbedienza punita», scriveva
qualche tempo fa l’alfiere del liberismo Wilhelm Röpke («Die
Gesellschaftskrises der Gegenwart», Rentsch Erlenbach-Zürich 1942, pag.146). E
punizione fu.
Balza subito agli occhi la
deliberata, ben lontana dall’insensibilità tecnocratica imputata alle
istituzioni comunitarie da varie parti, disparità di trattamento di una Bce da
un lato testardamente refrattaria a concedere una decina di miliardi alla
minuscola e annaspante economia greca e dall’altro lato la commovente
generosità dimostrata quando si tratta di iniettare ogni mese sessanta miliardi
di euro per rafforzare il sistema bancario dell’Unione.
Queste sono scelte meramente
politiche, aggravate dalla pesantissima responsabilità di non essere sottoposte
ad un controllo democratico, anzi di volerlo sopprimere sempre di più al fine
di ottenere in misura crescente linfa vitale e disinvoltura d’azione.
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Se alla situazione di organi
dello Stato (anche legittimati democraticamente, come solitamente i governi
europei) che responsabilmente approfittano del potere concessogli per
perseguire con crudele ossessività gli interessi economici dei grandi apparati
finanziari abbiniamo la definizione che emerge in una pubblicazione a cura di
Ch. Boutin e F. Rouvillois
(«Le coup d’État. Recours à la force ou dernier mot du politique?»,
F.-X. de Guibert, Paris 2007) secondo cui «la presa del potere nel colpo di
Stato è per definizione l’atto di persone che al momento della sua esecuzione
sono titolari di funzioni in seno all’apparato dello Stato» si giunge con
grande facilità a concludere che quello in corso in Europa ha tutti i crismi
per essere definito un golpe. Che ora vede nell’oppressione della piccola
penisola ellenica la sua evidenza più sbalorditiva, ma con metodi truffaldini e
di più lungo periodo perseguita con costanza in tutta l’eurozona.
Se si vuole mettere un anno come
inizio di questo processo questi potrebbe essere il 1992, precisamente il
giorno in cui viene siglata la prima versione del Trattato consolidato
dell’Unione Europea ove i governi europei firmano e controfirmano una sequela
di disposizioni tra cui spicca l’articolo 123 (comma primo): «Sono vietati la
concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione
creditizia, da parte della Banca Centrale Europea o da parte delle Banche
Centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche Centrali
Nazionali”), a istituzioni, organi o organismi dell’Unione, alle
amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad
altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri,
così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della
Banca Centrale Europea o delle Banche Centrali Nazionali».
Con tale disposizione mai
sottoposta al vaglio dei cittadini la Bce viene resa non solo l’unica Banca
Centrale al mondo priva del potere di creare denaro per sostenere l’economia
reale e assestare il bilancio dello Stato, ma si elargisce piena attuazione
alla possibilità da parte di questa di donare a tassi irrisori una quantità
potenzialmente infinita di quattrini alle banche commerciali.
Le conseguenze sono vividamente
osservabili: il fondamentale potere di creare denaro finisce a totale
discrezione delle banche private, innescando in tal modo la grave distorsione
dovuta al fatto che una nazione alla disperata ricerca di denaro ha tra le mani
l’unica possibilità di rivolgersi ad un ente privato dotato a questo punto di
un incredibile potere ricattatorio sulla nazione debitrice.
Ove però la forza di rendere
succubi gli Stati formalmente democratici non riesce a giungere pienamente a
destinazione, nel corso degli anni si è succeduta una lunga serie di Trattati,
vincoli, minacce di ritorsioni, coercizioni (si pensi alla lettera spedita
dalla Bce al governo italiano nell’estate 2011) e impegni al fine di rendere
pienamente operativa (e soprattutto legittima) l’azione di spostamento della
ricchezza agli oligarchi della finanza. Si legga, a titolo d’esempio, il Patto
Euro Plus (da «Patto Euro Plus. Coordinamento più stretto delle politiche
economiche per la competitività e la convergenza», allegato al Def approvato
dal Consiglio dei Ministri il 13/04/2011, pag.XIII): «Gli Stati membri
partecipanti s’impegnano ad adottare tutte le misure necessarie per realizzare
gli obiettivi seguenti: stimolare la competitività; stimolare l’occupazione;
concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; rafforzare
la stabilità finanziaria». Se queste affermazioni apparentemente oggettive non
suscitano grande scalpore, andando nel dettaglio si scovano impegni a
«esaminare gli accordi salariali e […] il grado di accentramento degli stessi»,
s’inneggia alla «flessicurezza» e, col pretesto della stabilità finanziaria,
s’impone amorevolmente di puntare l’occhio (e le forbici) su previdenza e
sanità.
Nel mentre i vari Six-Pack,
Fiscal Compact e via dicendo si premurano di strappare dal controllo
democratico l’importante potere di regolare le entrate e le uscite economiche
di una nazione, in talune economie entrano in vigore persino dei Memorandum
ancor più vessatori e ancor più stringenti. Nel caso del Memorandum imposto
alla Grecia nel febbraio 2012 le misure imposte in maniera assolutamente
unilaterale arrivano a lambire addirittura temi di secondaria importanza, quali
ad esempio la rimozione delle «norme che vietano ai dettaglianti di vendere
categorie di prodotto sottoposte a restrizione quali gli alimenti per bambini»
(«Memorandum of Understanding on Specific Economic Policy Conditionality»,
pag.30). E se andiamo a leggere l’ultimo «accordo» accettato dal riluttante
governo greco l’insofferenza verso la partecipazione dei cittadini si fa disgustosamente
sfacciata: tra le clausole figurano infatti l’impegno a «consultarsi e
accordarsi con le istituzioni europee su tutti i disegni di legge nelle aree
sensibili, con il giusto anticipo prima che queste vengano sottoposte
all’attenzione pubblica o al Parlamento», l’impegno a vietare qualsiasi
referendum e in conclusione arriva addirittura la promessa (sarebbe meglio
definirla minaccia) che le misure elencate «sono solo prerequisiti per
cominciare i negoziati con le autorità greche».
Se lo storico economista
(anch’esso tra i più prestigiosi del pensiero liberista) Milton Friedman
asserisce che «soltanto una crisi, reale o percepita, produce un vero
mutamento» (da «Preface, Capitalism and Freedom», University Press, Chicago
1962, pag.IX), lo sbocco a cui questa crisi sta conducendo è quello spiegato
con preoccupante tranquillità dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel in un
discorso al Bundestag svolto nel settembre 2011: «Noi viviamo certo in una democrazia,
una democrazia parlamentare; perciò la legge di bilancio è un diritto centrale
del Parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro esistente della
collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante essa sia conforme al
mercato». Una democrazia piegata il più possibile nell’esaudire le esigenze del
«mercato» anche a costo di comprometterne seriamente le funzioni rappresenta
l’obbiettivo politico perseguito con crescente vigore dalle istituzioni
comunitarie (non legittimate democraticamente, quali la Bce e la Commissione)
grazie all’inaudito placet convinto e irremovibile dei governi nazionali. Forse
Hayek non aveva tutti i torti ad affermare che questo esito sia l’unico
immaginabile.
Se davvero questo postulato
risultasse immodificabile (e le vicende greche portano consistenti prove di
questa situazione) l’abbandono dell’eurozona rappresenta una possibilità da
studiare con maggiore attenzione per qualsiasi persona premurosa dello sviluppo
democratico dei Paesi.