Se Matteo Salvini se ne esce
affermando che i profughi vengono alloggiati in hotel di lusso e si ritrovano
vezzeggiati come rampolli di famiglie reali la reazione va dalla risata di
commiserazione al disgusto verso chi alimenta senza scrupoli le ingenue paure
di certe fasce sociali per incrementare applausi e consensi. Quando invece lo
stesso impasto di razzismo, pregiudizio e ignoranza viene scaricato sui
cittadini greci la reazione pare essere meno accorta.
Eppure gli slogan infarciti sono
composti dai medesimi ingredienti, lo sfogo verso un branco disumanizzato di presunti
nullafacenti mantenuti a spese del Nord operoso riprende anche a livello
lessicale gli stessi refrain che sgorgano dai raduni di Pontida, con la
differenza di un’inaudita acclamazione da parte di buona fetta degli apparati
mediatico, politico e culturale i quali, lo si può affermare con quasi
certezza, con la vicenda greca iniziano l’opera di raschiamento di un fondo del
barile che sembrava già essere stato toccato da tempo.
Nell’autentica opera di diffamazione
a cui viene sottoposto il popolo greco emergono con particolare fragore vari
elementi che caratterizzano il dissesto di un certo modo di fare politica e di
fare opinione che non possono soltanto essere racchiusi nel servilismo, pur
presente, verso determinate linee editoriali o interessi da salvaguardare per
mantenere il proprio spicchio di ribalta.
Riguarda la demagogia, specie da
parte di certi «intellettuali» e opinion makers, che pur proseguendo a condizionare
le classi politiche hanno definitivamente abdicato al loro ruolo di guide
autorevoli e informate dei cittadini per trasformarsi, passando all’estremo opposto,
in schiavi del sentire comune, in traduttori su carta e su schermo delle
pulsioni di pancia, in accreditanti delle voci uscite dai bar domenicali. Una
deriva intuibile in un Paese in cui lo sfaldamento di tutte le strutture di
partecipazione e tradizione hanno lasciato totale campo aperto alle regole di mercato:
che si tratti dei leader politici o dei sedicenti uomini di cultura, l’inseguimento
di un «cliente» peraltro sempre più restio a pratiche di lettura e informazione
si svolge senza esclusione di colpi. Ogni mezzo è lecito se, per esempio, dalla
sola vendita di copie dipende la propria sopravvivenza economica. E se l’obiettivo
è raggiungere un successo di massa è fortemente controproducente esprimersi con
serietà (ormai tra i giornalisti, specie nell’attività sui social network, seminare
spiritosaggine è divenuto lo scopo primario) e con completezza su argomenti di
particolare tortuosità come le speculazioni della finanza globale nella vita di
tutti i giorni.
Molto più facile riempire pagine
per affermare che il debito pubblico è causato da pingui dipendenti pubblici
che passato le mattinate a bivaccare piuttosto che spiegare i contorti
meccanismi di una finanza che presta una montagna di denaro fittizio a nazioni
democraticamente deboli al fine di condurre astruse speculazioni
impacchettando, spacchettando, vendendo e ricomprando su chissà quale «piazza»
il debito stesso contratto dagli Stati, nel frattempo costringendo questi
ultimi ad un pesante salasso (che a sua volta non casualmente produce altro
debito) causato dall’esosità dei tassi d’interesse applicati arbitrariamente
sui titoli (attualmente il bilancio di Grecia e Italia, senza questi interessi,
avrebbe il segno più; ma non diciamolo troppo forte).
Molto più facile inventare di
sana pianta numeri sull’età media pensionabile dei greci (cinquant’anni,
cinquantatre, cinquantasette; ogni giorno da questa ripugnante tombola della
menzogna sbuca un nuovo numero), in totale spregio degli studi Eurostat secondo
cui attualmente non solo il paese mediterraneo si colloca su questo versante
nella media europea, ma proporzionalmente la Germania spende di pensioni quattro
volte tanto.
Molto facile dimenticare di
affrontare quanto pesanti, ingiuste e antidemocratiche siano state le
vessazioni della cosiddetta Trojka sul popolo greco negli ultimi cinque anni e
per converso risulta di gran lunga più semplice scaricare le colpe su un
ministro col vizio di girare in motorino (con casco o senza casco? Il livello
delle disquisizioni macroeconomiche di certi giornali si ferma qui).
Molto più facile indicare come
via d’uscita dalla recessione una formula magica di pronto effetto: «riforme».
Eppure è proprio la Grecia a dimostrare come il Paese che ha fatto più «riforme»
tra quelli della zona euro (lo dice l’Ocse) non solo non ha visto l’economia
ripartire ma ha visto un brusco innalzamento del debito.
Troppo complicato spiegare che se
attualmente la stabilità economica della Grecia dipende dagli altri Stati
europei ciò lo si deve ad una vera e propria partita di giro tale per cui le
banche, specie tedesche e francesi, per non fallire hanno scaricato sui
contribuenti europei il frutto malato della propria spietata speculazione
(privatizza gli utili e socializza le perdite è un mantra che trova nel
contesto greco un inoppugnabile conferma).
Ma, soprattutto, l’operazione più
semplice è raccontare la favoletta secondo cui dobbiamo tutti aver paura di
questo pericoloso sovversivo ateniese. Dobbiamo terrorizzarci e unirci
saldamente alle forze di governo di fronte all’incubo di forze politiche
estranee agli assetti politici attuali (del resto Le Pen e Tsipras più o meno
sono la stessa cosa, come ha affermato il mese scorso Enrico Letta in un’intervista
a «Der Spiegel»).
Perché Tsipras è un Belzebù
ambulante su cui è legittimo sfogare accuse di ogni tipo. Da Sergio Rizzo che
sull’editoriale del «Corriere» del 9 luglio pare accusarlo di tutti i guai del
continente (dopo una sequela di colpe europee, dallo sbattere «la porta in
faccia a un migliaio di rifugiati» a soffocare i cittadini di «regole che
rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile» a «un rigore dei conti
pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso.
Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto», la
domanda retorica a cui segue questo elenco è: «Tsipras ci pensa?») ad un
improbabile scrittore greco, tale Doxiadis, che sulle colonne dello stesso
quotidiano tiene una specie di diario ove si dichiara pronto a tutto pur di
cacciare il tirannico governo in difesa della democraticissima Trojka («Da
studente ho lottato contro la giunta dei Colonnelli, e sono pronto a scendere
in piazza ancora una volta, da padre di famiglia di mezza età, per combattere
un nuovo golpe, se sarà necessario», scrive sull’edizione del 4 luglio). Un’accusa,
quella di antidemocraticità, che ritorna spesso anche a dispetto dei palesi
dati di fatto non solo di un referendum ma anche della totale assenza di
legittimazione popolare delle misure oppressive imposte dalle istituzioni
europee.
Ci prova il comico-leader di To
Potami, piccola formazione greca, che in un’intervista al «Corriere» dell’8
luglio blatera sul «tipo di democrazia controllata» che «piace moltissimo» agli
uomini del governo greco, aggiungendo inoltre come essi siano «autocratici» e
di credere, udite udite!, «di dover applicare le loro idee a forza». E prima di
lui ci aveva pensato il tal economista Baverez secondo cui, in un colloquio
pubblicato sul «Corriere della Sera» del primo luglio, «Atene si è allontanata
dalla ragione, cioè da Pericle, per andare verso la follia della demagogia e la
fine della democrazia, cioè Alcibiade».
Sarebbe troppo complesso
analizzare le ricadute sugli assetti democratici dei dogmi ideologici che
professano la totale concentrazione di ricchezza nelle mani di un manipolo d’istituti
finanziari senza scrupoli; basti dire che gli studiosi più accorti e
indipendenti non esitano a parlare di «Colpo di Stato di banche e governi»
(questo il titolo di un recente volume del sociologo Luciano Gallino), di «Deux
traités pour un coup d’État européen» (Raoul Marc Jennar su «Le Monde
diplomatique» del giugno 2012), di «Financial Coup d’État in Europe. Government
by the Banks for the Banks» (reperibile qui)
oppure, più indirettamente, di «Crisi rinviata del capitalismo democratico»
(ottimo libro di Wolfgang Streeck stampato nel 2013).
E difatti i veri antidemocratici
populisti non sono Tsipras e la sua coraggiosa squadra. Ad abbandonarsi alla più
squallida propaganda contro la democrazia stuzzicando la pancia dell’elettorato
sono stati i circuiti mediatici, di cui un pezzo apparso sullo «Spiegel on line»
a firma di Roland Nelles ne rappresenta l’apice in termini di chiarezza: «Se
qualcuno aveva ancora bisogno di una prova di quanto siano pericolosi i
pronunciamenti popolari è servito. La Grecia mostra una volta di più che i
referendum, ossia la registrazione contingente della volontà popolare, non
producono automaticamente i migliori risultati».
Questo è il vero populismo che
incombe.
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