Ora che abbiamo capito che la
gran parte dei malumori verso la riforma costituzionale nasconde in realtà
malumori più profondi riguardo la legge elettorale, sorprende come uno dei temi
più scottanti che hanno accompagnato la discussione parlamentare sull’Italicum,
ossia il tema della parità di genere tra i componenti dell’Aula, sia relegato e
snobbato da tutti, compresi i più accaniti contestatori della riforma. I
paladini dei diritti civili si sono ammutoliti, i pasdaran delle pari opportunità
probabilmente si stanno godendo le ferie, una buona fetta degli oppositori
delle riforme trova più chic proferire dogmi di sicuro impatto mediatico (il
golpe, la svolta autoritaria etc.) piuttosto che dedicarsi a un tema come la
parità di genere che potrebbe addirittura risultare troppo «renziano» per
meritare la giusta attenzione. Nemmeno la cosiddetta «sinistra Pd», che
dovrebbe fare dell’eguaglianza sociale il suo caposaldo d’azione, è troppo
appassionata al tema. Qualche eccezione c’è: prendiamo il caso di Rosy Bindi,
la quale nei giorni caldi del dibattito sul tema è arrivata a dichiarare: «La
parità di genere sta nella Costituzione e nel Dna del Pd»; una presa di
posizione ammirevole ma misteriosamente tardiva, dato che tale parità non è
stata raggiunta nei gruppi parlamentari del Pd forgiati all’epoca in cui lei
stessa era ai vertici del partito: attualmente le deputate dem sono il 37,5%,
mentre le senatrici sono il 40,7%. Percentuali importanti, ma non ancora
confacenti al principio della parità di genere; anzi, al Senato il MoVimento 5
Stelle è riuscito a fare di meglio, raggiungendo la quota del 47,8% di presenza
femminile.
Il perché non si voglia rendere
obbligatoria la quota minima del 50% è un mistero irrisolvibile: si denuncia la
possibilità che una parlamentare venga scelta solo in base al sesso e non in
base al merito, un problema in realtà inesistente visto che in tutti i paesi
dell’Ue le persone laureate (o con un titolo di analogo spessore) sono in
maggioranza donne. Scrive lo statistical editor Danilo Taino: «Eurostat prende
il numero di uomini tra i 30 e i 34 anni che hanno un’istruzione terziaria e ne
sottrae il numero di donne con le stesse caratteristiche: in ogni Paese, il
risultato è negativo, cioè ci sono più donne laureate. Si va da meno 1,2 in Austria e meno 1,8 in Germania a meno 21,8 in Estonia e meno 24,8 in Lettonia. L’Italia,
attorno a meno 10, è vicina alla media Ue (meno 8,4)». Maggiori competenze che
in campo lavorativo si traducono in maggiore responsabilità: quasi tutti gli
studi sull’argomento sono concordi nel ritenere che la presenza di donne permetta
il conseguimento di migliori risultati aziendali. Tanto per fare un esempio,
nel settore delle aziende familiari il Roe (l’indicatore della performance
aziendale) è superiore del 5% rispetto alla media quando il cda è misto e
l’optimum si raggiunge nelle realtà dove «le donne raggiungono una massa
critica», ovvero siano almeno 3 (Arub 2013). Non solo, alcuni studi Istat
rivelano che «i cittadini, sia maschi che femmine, vedono positivamente una
maggior presenza delle donne nei luoghi decisionali. Le deputate interpretano
un sentimento generale».
Nonostante tutto questo, le donne
in Italia sono ancora soggette a una palese quanto inammissibile
discriminazione, frutto malato della nostra storia: mentre i paesi scandinavi
ebbero la loro prima regina già alla fine del XIV secolo, l’Inghilterra la ebbe
nel 1553 e l’Olanda nel 1890, l’Italia conobbe solo sovrani maschi. Fu solo con
la fine della monarchia che l’Italia approvò il voto alle donne, con un
vergognoso ritardo di 29 anni rispetto alla Russia, di 40 anni rispetto alla
Finlandia, di 53 rispetto alla Nuova Zelanda. E mentre nel mondo la prima donna
ministro comparve nel 1924, nel nostro Paese bisognerà aspettare il 1976 prima
di vedere una signora (Tina Anselmi) far parte di una squadra di governo e
bisognerà attendere il 1979 per vedere Nilde Iotti ricoprire una carica
istituzionale. Per non parlare di donne primo ministro: la prima a livello
mondiale ci fu nel 1960, negli anni Novanta furono quattordici, tra il 2000 e
il 2010 furono trentacinque. Da noi il nulla. Dei 125 governi che ci hanno
accompagnati dall’Unità d’Italia nessuna donna ha mai ricoperto la carica di
premier, figurarsi di Presidente della Repubblica: «Quando proposi di mandarne
una al Quirinale, mi dissero: “Bravo, una intelligente provocazione”», rammenta
Giuliano Amato, «manco se avessi proposto un coleottero!».
È vero che l’attuale governo è
composto per metà di donne, è vero che in Parlamento le donne sono il 30,8%
rispetto al 20,2% della scorsa legislatura, è vero che nei vertici delle
aziende pubbliche qualche passo in avanti è stato compiuto, è vero che la
parità di genere non è un tema esclusivamente italiano, ma la strada da fare è
ancora molta. Anzi, moltissima.
L’occupazione femminile media in
Europa è al 64%, in Italia siamo al 46% (terz’ultimi nel continente) e le
ultime regioni europee per percentuale di donne occupate sono italiane: in
Puglia le donne lavoratrici sono il 35,3%, in Calabria il 35,1%, in Sicilia il
34,7%, in Campania il 31,1%. Ciò significa che mediamente nel Mezzogiorno sette
donne su dieci non lavorano; la situazione è migliore al Nord, ma il confronto
con analoghe regioni europee come il Baden Württemberg tedesco o il Rodano-Alpi
francese (regioni dove la percentuale veleggia intorno al 70%) è comunque
impietoso. E così, mentre negli ultimi anni il resto dell’Europa (compresa
quella mediterranea) si è data un gran daffare per risolvere la discriminazione
tra i sessi, l’Italia ha solo peggiorato la sua quota di partecipazione
femminile nel mondo del lavoro: nel 2013 le donne lavoratrici sono state
130mila in meno e il divario con la
Germania è passato dal 16% del 2002 al 20% dei giorni
attuali. Le donne che riescono a lavorare, inoltre, si ritrovano in situazione
di cronico svantaggio rispetto agli uomini. Prosegue Taino: «Nonostante siano
più istruite, le donne guadagnano molto meno. La statistica è interessante
perché prende in considerazione il salario orario, il numero di ore lavorate e
il tasso di occupazione della fascia di età 15-64 anni. Poi li mette assieme e
calcola il gap salariale complessivo, cioè quanto portano a casa tutti gli
uomini di un Paese e quanto tutte le donne. Il risultato è scioccante: in
media, nella Ue, la differenza è del 37,1% a favore degli uomini. (…) In
Italia, i maschi guadagnano nel complesso delle remunerazioni il 43,5% in più
delle femmine: il salario orario non è troppo diverso, 14,82 euro contro 14,04
(il che spiega il 9% del gap del monte salari); più significativa la differenza
del numero di ore pagate lavorate al mese, 166,7 contro 146,2 (il 23% del gap
del totale delle remunerazioni)».
Questa situazione non è dovuta,
come spesso si crede, alla mancanza di volontà delle donne (secondo alcuni
sondaggi il 40% delle donne disoccupate sogna un lavoro), quanto a una chiusura
mentale degli uomini e a una mancanza di welfare e agevolazioni da parte dello
Stato. Se il primo aspetto necessita di decenni di educazione, per realizzare
il secondo basterebbe molto poco e i risultati si vedrebbero subito: secondo
alcune stime, se l’occupazione femminile raggiungesse la media europea il Pil
aumenterebbe anche di sette punti e secondo la Goldman Sachs la parità di
genere comporterebbe un incremento del Prodotto interno addirittura del 22%.
Cosa aspettano la politica e
l’opinione pubblica a mobilitarsi per fare in modo che sia il Parlamento a dare
l’esempio? Di cosa hanno timore? A cosa è dovuta questa timidezza? La paura
della discriminazione può essere superata anche grazie a un paragone storico,
ossia ricordando le battaglie per la «proporzionale etnica» condotte in
Trentino da Silvius Magnano. La vicenda è così descritta dal cronista Gian
Antonio Stella: «Dopo decenni di italianizzazione spinta della provincia, il
gruppo tedesco aveva nel 1972, pur rappresentando i due terzi della
popolazione, solo una fetta del 9% degli impieghi pubblici o para-pubblici
nelle ferrovie o in comune o all’Enel e del 5% delle case popolari edificate
dopo il 1935. Una sproporzione prepotente. Inaccettabile. E in quel contesto,
come ogni italiano in buona fede deve ammettere, la pretesa di riequilibrare
gradualmente le cose fu giusta. Giustissima». Orbene, l’attuale situazione
delle donne in Italia non è analogamente inaccettabile da
meritare un riequilibrio?