sabato 19 luglio 2014

Quando la magistratura si fa politica





La sentenza d’Appello che ha assolto completamente Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione minorile ha sconquassato i tradizionali rapporti tra le varie forze politiche e il potere giudiziario: la destra che da sempre millanta congiure giudiziarie per liquidare il suo leader ora invoca il rispetto per il lavoro dei giudici, mentre la sinistra e i 5 Stelle che da sempre ritengono la magistratura un dogma da non mettere in discussione ora si lasciano scappare qualche borbottio sul modus operandi dei giudici che hanno assolto Berlusconi. Tutti si domandano come sia possibile che l’imputato, da spregevole pedofilo che sfrutta il suo potere per soddisfare i suoi interessi personali (come lasciava intendere la condanna di primo grado) sia diventato nel giro di qualche mese un impeccabile uomo di governo talmente apprensivo da aver gentilmente e amabilmente richiesto alla questura di liberare quella che a suo parere era la nipote (maggiorenne) di un capo di stato.
Un ribaltamento talmente vistoso da lasciare un sospetto più fondato del solito: è possibile che una delle due sentenze sia scaturita tenendo in conto precisi fattori politici? Un interrogativo senza dubbio molto pesante, ma considerando la lunga storia del rapporto tra il mondo giudiziario e il mondo politico appare ragionevole, pur nel rispetto di ambedue le sentenze. Lo scopo dell’articolo non è quello di decidere quale delle due sentenze sia stata emessa con motivi politici, ma mettere soltanto una pulce nell’orecchio per seminare il sospetto che, sì, la magistratura politicizzata è una realtà con cui dover fare i conti, senza scadere nelle assurdità e nei pregiudizi della destra berlusconiana. D’altronde soltanto pochi mesi fa una figura come Sergio Romano denunciava sulle colonne del «Corriere della Sera» che alcuni gruppi della magistratura hanno «programmi ideologici che lasciano trapelare una pericolosa contiguità con alcuni partiti politici». Una realtà difficilmente smentibile leggendo lo statuto di Magistratura Democratica, statuto nel quale si descrivono nel seguente modo i motivi della nascita di tale corrente: «All’inizio di quel decennio caratterizzato da tanti fermenti di rinnovamento inizia l’esperienza politica del centrosinistra, con il suo carico di speranze. E per quanto riguarda la giustizia è sicuramente Magistratura Democratica che si fa interprete dell’esigenza di un suo radicale cambiamento». Un passaggio della relazione dell’assemblea di Md del 1971 è ancora più chiaro: «La nostra fedeltà alla Costituzione impone una giurisprudenza alternativa da attuare attraverso l’utilizzazione di tutte le contraddizioni del sistema democratico-borghese, non per mediarle, al fine di una razionalizzazione del sistema, ma per valorizzarne gli elementi democratico-egualitari che possono portare al superamento del sistema stesso». Una relazione scritta nei giorni in cui tre magistrati propongono un documento dal titolo che non lascia spazio ai dubbi: «Per una strategia politica di Magistratura Democratica» il cui contenuto è un invito affinché Md diventi «componente del movimento di classe» con il compito di condurre una «giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle estreme conseguenze i principi eversivi dell’apparato normativo borghese» applicando un’«interpretazione evolutiva del diritto». E in cosa consiste questa «interpretazione evolutiva» lo ha spiegato l’avvocato Mauro Mellini: «Dal punto di vista normativo-culturale, il concetto di “interpretazione evolutiva” per i magistrati rappresenta un modo indiretto per travalicare l’alveo della propria funzione giurisdizionale e per occupare uno spazio proprio della lotta politica e del potere legislativo. E sotto molti punti di vista, l’interpretazione evolutiva esprime una precisa tendenza del pm: quella di voler esercitare, in più circostanze, la propria attività di “supplenza”. E in questo senso, credo sia utile ricordare il passaggio di una risoluzione approvata dall’Assemblea Nazionale di Magistratura democratica il 4 aprile 1973. Quella in cui l’assemblea “osserva che le lotte e le conquiste popolari costituiscono sul piano della prassi giudiziaria e dell’interpretazione delle leggi le fonti di una nuova legalità” e indica le seguenti linee operative: necessità che Md costruisca un rapporto costante e articolato con le forze politiche e sindacali della Sinistra che consenta di ricercare obiettivi politici in un quadro strategico unitario inteso a battere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista».
È da queste premesse che una fetta di magistrati decide di intervenire attivamente nelle questioni politiche, provocando un danno collaterale di difficile rimedio: alcune forze politiche, private nel corso degli anni dei loro connotati ideologici, decidono di conferire all’azione del potere giudiziario il ruolo di collante del proprio elettorato. Insomma, non solo il giudice sfrutta il suo ruolo per combattere una battaglia politica, ma taluni partiti finiscono per far diventare il magistrato un vero e proprio supereroe. Lo ha spiegato bene l’ex magistrato Francesco Misiani: «La verità è che il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo è andato a crescere nel tempo grazie anche all’appoggio della sinistra e del Pci in primo luogo: che su noi magistrati o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione».
Ne esce quindi un rapporto di mutua assistenza tra una parte della politica e una parte della magistratura, un cordone ombelicale dimostrato dal fatto che nel corso degli anni una lunga sequela di magistrati sia addirittura entrata direttamente nel mondo della politica: basti pensare a Luciano Violante, Pietro Grasso, Giuseppe Ayala, Antonio Ingroia, Cesare Terranova, Massimo Russo, Giuseppe Di Lello, Giuseppe Lumia, Leoluca Orlando, Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Anna Finocchiaro, Michele Emiliano, Luigi De Magistris, Felice Casson, Gianrico Carofiglio, Alberto Maritati, Doris Lo Moro, Donatella Ferranti, Nicola Trifuoggi, Lanfranco Tenaglia, Gherardo Colombo e altri ancora.
Il requisito principale che dovrebbe appartenere a un magistrato, ossia la terzietà, non esiste più da tempo, e non è soltanto Berlusconi a dirlo. Si legga quanto dichiarava qualche anno fa un magistrato come Gherardo Colombo: «Una serie di motivi contingenti rende del tutto impraticabile e comunque soltanto apparente una prospettiva immediata di “ritorno alla terzietà”». Un’opzione addirittura da scartare, in quanto «il giudice si trasformerebbe in una specie di funzionario burocrate». Un’autentica noia, quella di rispettare rigorosamente la divisione dei poteri sulla quale si fonda una democrazia.
Alla luce di tutto ciò, sospettare che dietro una delle due sentenze del «caso Ruby» sia intervenuto un ragionamento di stampo politico appare sempre più concreto e preoccupante.

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