La sentenza d’Appello che ha
assolto completamente Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione
minorile ha sconquassato i tradizionali rapporti tra le varie forze politiche e
il potere giudiziario: la destra che da sempre millanta congiure giudiziarie
per liquidare il suo leader ora invoca il rispetto per il lavoro dei giudici,
mentre la sinistra e i 5 Stelle che da sempre ritengono la magistratura un
dogma da non mettere in discussione ora si lasciano scappare qualche borbottio
sul modus operandi dei giudici che hanno assolto Berlusconi. Tutti si domandano
come sia possibile che l’imputato, da spregevole pedofilo che sfrutta il suo
potere per soddisfare i suoi interessi personali (come lasciava intendere la condanna
di primo grado) sia diventato nel giro di qualche mese un impeccabile uomo di
governo talmente apprensivo da aver gentilmente e amabilmente richiesto alla
questura di liberare quella che a suo parere era la nipote (maggiorenne) di un
capo di stato.
Un ribaltamento talmente vistoso
da lasciare un sospetto più fondato del solito: è possibile che una delle due
sentenze sia scaturita tenendo in conto precisi fattori politici? Un
interrogativo senza dubbio molto pesante, ma considerando la lunga storia del
rapporto tra il mondo giudiziario e il mondo politico appare ragionevole, pur
nel rispetto di ambedue le sentenze. Lo scopo dell’articolo non è quello di
decidere quale delle due sentenze sia stata emessa con motivi politici, ma
mettere soltanto una pulce nell’orecchio per seminare il sospetto che, sì, la
magistratura politicizzata è una realtà con cui dover fare i conti, senza
scadere nelle assurdità e nei pregiudizi della destra berlusconiana. D’altronde
soltanto pochi mesi fa una figura come Sergio Romano denunciava sulle colonne
del «Corriere della Sera» che alcuni gruppi della magistratura hanno «programmi
ideologici che lasciano trapelare una pericolosa contiguità con alcuni partiti
politici». Una realtà difficilmente smentibile leggendo lo statuto di
Magistratura Democratica, statuto nel quale si descrivono nel seguente modo i
motivi della nascita di tale corrente: «All’inizio di quel decennio
caratterizzato da tanti fermenti di rinnovamento inizia l’esperienza politica
del centrosinistra, con il suo carico di speranze. E per quanto riguarda la
giustizia è sicuramente Magistratura Democratica che si fa interprete
dell’esigenza di un suo radicale cambiamento». Un passaggio della relazione
dell’assemblea di Md del 1971 è ancora più chiaro: «La nostra fedeltà alla
Costituzione impone una giurisprudenza alternativa da attuare attraverso
l’utilizzazione di tutte le contraddizioni del sistema democratico-borghese,
non per mediarle, al fine di una razionalizzazione del sistema, ma per
valorizzarne gli elementi democratico-egualitari che possono portare al
superamento del sistema stesso». Una relazione scritta nei giorni in cui tre
magistrati propongono un documento dal titolo che non lascia spazio ai dubbi:
«Per una strategia politica di Magistratura Democratica» il cui contenuto è un
invito affinché Md diventi «componente del movimento di classe» con il compito
di condurre una «giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino
alle estreme conseguenze i principi eversivi dell’apparato normativo borghese»
applicando un’«interpretazione evolutiva del diritto». E in cosa consiste
questa «interpretazione evolutiva» lo ha spiegato l’avvocato Mauro Mellini:
«Dal punto di vista normativo-culturale, il concetto di “interpretazione
evolutiva” per i magistrati rappresenta un modo indiretto per travalicare
l’alveo della propria funzione giurisdizionale e per occupare uno spazio
proprio della lotta politica e del potere legislativo. E sotto molti punti di
vista, l’interpretazione evolutiva esprime una precisa tendenza del pm: quella
di voler esercitare, in più circostanze, la propria attività di “supplenza”. E
in questo senso, credo sia utile ricordare il passaggio di una risoluzione
approvata dall’Assemblea Nazionale di Magistratura democratica il 4 aprile 1973.
Quella in cui l’assemblea “osserva che le lotte e le conquiste popolari
costituiscono sul piano della prassi giudiziaria e dell’interpretazione delle
leggi le fonti di una nuova legalità” e indica le seguenti linee operative:
necessità che Md costruisca un rapporto costante e articolato con le forze
politiche e sindacali della Sinistra che consenta di ricercare obiettivi
politici in un quadro strategico unitario inteso a battere il disegno
reazionario e di ristrutturazione neocapitalista».
È da queste premesse che una
fetta di magistrati decide di intervenire attivamente nelle questioni politiche,
provocando un danno collaterale di difficile rimedio: alcune forze politiche,
private nel corso degli anni dei loro connotati ideologici, decidono di
conferire all’azione del potere giudiziario il ruolo di collante del proprio
elettorato. Insomma, non solo il giudice sfrutta il suo ruolo per combattere
una battaglia politica, ma taluni partiti finiscono per far diventare il
magistrato un vero e proprio supereroe. Lo ha spiegato bene l’ex magistrato
Francesco Misiani: «La verità è che il nostro potere di supplenza rispetto
all’esecutivo è andato a crescere nel tempo grazie anche all’appoggio della
sinistra e del Pci in primo luogo: che su noi magistrati o, almeno, su una
parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione».
Ne esce quindi un rapporto di
mutua assistenza tra una parte della politica e una parte della magistratura,
un cordone ombelicale dimostrato dal fatto che nel corso degli anni una lunga
sequela di magistrati sia addirittura entrata direttamente nel mondo della
politica: basti pensare a Luciano Violante, Pietro Grasso, Giuseppe Ayala,
Antonio Ingroia, Cesare Terranova, Massimo Russo, Giuseppe Di Lello, Giuseppe
Lumia, Leoluca Orlando, Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Anna
Finocchiaro, Michele Emiliano, Luigi De Magistris, Felice Casson, Gianrico
Carofiglio, Alberto Maritati, Doris Lo Moro, Donatella Ferranti, Nicola
Trifuoggi, Lanfranco Tenaglia, Gherardo Colombo e altri ancora.
Il requisito principale che
dovrebbe appartenere a un magistrato, ossia la terzietà, non esiste più da
tempo, e non è soltanto Berlusconi a dirlo. Si legga quanto dichiarava qualche
anno fa un magistrato come Gherardo Colombo: «Una serie di motivi contingenti
rende del tutto impraticabile e comunque soltanto apparente una prospettiva
immediata di “ritorno alla terzietà”». Un’opzione addirittura da scartare, in
quanto «il giudice si trasformerebbe in una specie di funzionario burocrate».
Un’autentica noia, quella di rispettare rigorosamente la divisione dei poteri
sulla quale si fonda una democrazia.
Alla luce di tutto ciò,
sospettare che dietro una delle due sentenze del «caso Ruby» sia intervenuto un
ragionamento di stampo politico appare sempre più concreto e preoccupante.
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