Sono contento che ha vinto Syriza
perché una forza politica che fino a qualche mese fa pareva essere l’ennesimo
inconsistente progetto antipolitico si è trasformato in una poderosa corazzata
pregna di valori, contenuti e progetti.
Sono contento che ha vinto Syriza
perché finalmente una quota importante di cittadini si è rifiutata di credere
alle menzogne inculcate dai media e dai governi sulle origini della crisi. Ci
hanno provato in ogni modo a far passare lo spregevole messaggio che la
recessione fosse causata da un’eccessiva generosità della spesa sociale. A
titolo d’esempio, uno tra i più autorevoli periodici europei, «Die Zeit»,
scriveva nel 2011: «Di certo l’epoca dei debiti ha creato in Occidente un
benessere di massa storicamente unico, anche se la forbice tra alto e basso ha
continuato ad allargarsi. Più benessere, più assistenza sociale e pensioni
migliori hanno sopraffatto lo stato sociale, quello che fu un tempo il fastoso
apparato della civiltà occidentale. In Europa l’assistenza statale a fronte di
una popolazione che invecchia con una speranza di vita crescente ed elevate
garanzie pensionistiche sta diventando lentamente impagabile; in America, con
la sua minore tradizione statalista, giganti industriali sono messi in
ginocchio a causa delle pensioni aziendali garantite» (J. Krönig, «Die Zeit des
Massenwohlstandts ist vorbei», «Zeit Online», 14/12/2011, pag.3). Nulla di più
falso: rimanendo nella nostra Italia, la spesa per la protezione sociale non
solo è finanziata per più del 50% dai contributi versati da lavoratori e
imprese, ma da un ventennio a questa parte è rimasta pressoché costante e
perfettamente nella media europea. Andando nel dettaglio, i dati Istat ci
informano che nel 1999 questo tipo di spesa costituiva il 23,9% del Pil, nel
2008 il 24,4% e nel 2012 il 26,5% (non ci si faccia illusioni sull’aumento: in
gran parte esso è dovuto alla vertiginosa caduta del Pil verificatasi in questi
ultimi anni). Nessun collegamento, quindi, né con l’aumento della spesa
pubblica, né con l’aumento del debito, ambedue dovuti quasi esclusivamente all’incessante
accrescersi degli interessi da pagare sui titoli di Stato. Se depuriamo la
quota d’interessi (circa il 5% del Pil) dal resto della spesa, scopriremmo che
la spesa pubblica del nostro Paese è (stando ai dati del 2012) la più bassa
d’Europa: il 45,2% del Pil, contro una media dell’Eurozona del 46,8%.
Sono contento che ha vinto Syriza
perché in molti hanno compreso che la vera causa della grande crisi globale va
ricercata nei mercati finanziari, divenuti abnormi, onnipresenti, onnipotenti
(in Europa, tramite qualche tocco di tastiera, le banche sono in grado di
creare denaro a profusione sotto forma di titoli e derivati di ogni genere,
un’azione che non è concessa nemmeno alla Bce) e intoccabili non grazie ad una
semplice deregulation: al contrario, da una lunga, curata, mirata e incessante
azione legislativa finalizzata esclusivamente ad accrescere la libertà della
finanza. Nella sola Germania, un rapporto della Rosa-Luxemburg-Stiftung
annovera la bellezza di 95 atti legislativi varati dal Bundestag tra il 1990 e
il 2009 che procedono speditamente in questa direzione: tra questi quattro
leggi sulla promozione dei mercati finanziari, due leggi atte ad allargare il
campo di attività degli istituti di credito, una legge che promuove acquisizioni
d’imprese e fusioni, una per la modernizzazione degli investimenti (con
particolare riguardo per quelli finanziari). Non si tratta d’indolenza o di una
semplice resa incondizionata nei confronti dell’economia più spietata. Parliamo
di una scelta ponderata dai governi, tant’è vero che tutti i trattati e, nel
caso italiano, addirittura le modifiche costituzionali che pongono severi
vincoli alle politiche pubbliche sono stati stilati e approvati dai parlamenti
nazionali senza alcuna costrizione. Lo ha spiegato con una disarmante
schiettezza la Cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte al Parlamento del
suo paese (erano i primi di settembre del 2011): «Noi viviamo certo in una
democrazia, una democrazia parlamentare; perciò la legge di bilancio è un
diritto centrale del Parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro
esistente della collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante essa
sia conforme al mercato».
Sono contento che ha vinto Syriza
perché finalmente sono stati compresi i risultati di questo sbalorditivo e
pluridecennale scatenamento finanziario: gli effetti diretti si sono visti
quando sei milioni di famiglie sparpagliate tra Stati Uniti, Regno Unito,
Irlanda e Spagna si sono ritrovate improvvisamente senza casa (perché incapaci
di sostenere un mutuo truffaldino e frutto di chissà quale contorto trucco
bancario), quando altrettanti cittadini onesti si sono ritrovati privati dei
loro fondi pensioni, delle loro assicurazioni sanitarie e dei loro risparmi
dopo il crollo dei titoli per lo più inconsistenti su cui avevano investito e
quando in tutto il pianeta circa 60 trilioni di dollari (di titoli e immobili,
qualcosa come il Pil del mondo) sono evaporati nei soli primi due-tre anni
della crisi. Una sorte amarissima che ha scalfito in misura minima i grandi
patrimoni i quali, anzi, in questi anni si sono rinvigoriti al punto tale che
secondo uno studio dell’Istituto di ricerca del Crédit Suisse (Global Wealth Report
2012, Crédit Suisse Research Institute, Zürich 2012, pag.18, fig.1), nel 2012
lo 0,6% della popolazione mondiale adulta del mondo deteneva una ricchezza di
circa 88.000 miliardi, quasi il 40% della ricchezza globale. Suscita autentico
disgusto pensare che ciascun membro di questa ristretta élite possieda una
ricchezza superiore di 1315 volte rispetto a quella di ogni componente del 69%
della popolazione mondiale più povera, la quale complessivamente arriva a
detenere non più del 3,3% della ricchezza globale. Nello studio di queste
disuguaglianze, «uno sviluppo chiave», spiega l’International Labour
Organization («World of Work Report 2008: Incombe In-equalities in the Age of
Financial Globalization», Genève 2008), «è stato l’uso dei cosiddetti “sistemi di
compenso basati sulla prestazione” degli alti dirigenti e direttori. Il
risultato è stato un rapido aumento della loro paga. Negli Stati Uniti, ad
esempio, tra il 2003 e il 2007 la paga dei top manager crebbe in termini reali
del 45 per cento […] a paragone di meno del 3 per cento del lavoratore medio.
Per cui nel 2007 l’alto dirigente delle maggiori 15 società guadagnava più di
500 volte il dipendente medio, contro le 300 volte del 2003. […] Nell’insieme,
l’evidenza suggerisce che gli sviluppi del compenso dei dirigenti potrebbe
essere stato tanto un fattore di aumento della disuguaglianza quanto
inefficiente sotto il profilo economico». E ancora: «La tassazione è diventata
meno progressiva nella gran maggioranza dei Paesi e quindi meno capace di
ridistribuire i guadagni dello sviluppo economico. Ciò riflette un taglio delle
imposte a carico degli alti redditi. […] Tra il 1993 e il 2007, l’aliquota
media dell’imposta sulle imprese è stata tagliata (in tutti i Paesi per cui
esistono dati) di 10 punti percentuali. Nel caso dell’aliquota massima sui
redditi personali, nello stesso periodo essa viene ridotta di 3 punti». Una
sorte assai diversa rispetto a quella dei salari. Nei quindici Paesi Ocse
(Ocse, Croissance et inégalités, Paris 2008, pag.38, riq.12), la quota dei
salari sul Pil (compresi quelli dei lavoratori autonomi) è diminuita mediamente
di dieci punti tra il 1976 e il 2006, calando all’incirca dal 67 al 57%
(l’Italia ha subito una sorte addirittura peggiore: è passata dal 68 al 53%).
Sono contento che ha vinto Syriza
perché una massa di cittadini indignati ha capito che l’austerità dell’Europa
procede a senso unico: mentre le istituzioni rimangono indifferenti (imponendo,
al contrario, ancora più tagli alla spesa sociale, ancora meno vincoli ai mercati
e ancora meno protezione per i lavoratori) di fronte ad un esercito di 26
milioni di disoccupati, ad una compagine di lavoratori sfruttati e a 120
milioni di persone a rischio povertà che si aggirano per il continente, la
generosità nei confronti degli istituti finanziari responsabili di questa
tragedia collettiva pare non conoscere limiti: secondo T.J. Doleys («Managing
State Aid in Times of Crisis: The Role of The European Commission», paper
presentato alla V Conferenza paneuropea sulla politica della Ue, Università di
Oporto, giugno 2010, pag.1) tra l’ottobre del 2008 e l’aprile del 2010 i
governi europei hanno concesso 4,13 trilioni di euro (4.130 milioni) come
sostegno ai gruppi finanziari colpiti dalla crisi. Sostegni, questi, che hanno
contribuito in maniera non indifferente all’incremento dei debiti pubblici, la
cui riduzione è stata fatta pagare esclusivamente alle categorie meno abbienti.
Sono contento che ha vinto Syriza
perché insieme a lei ha trionfato anche la democrazia, intesa come gestione
collettiva del benessere pubblico fuori da ogni principio di avido (e arido)
mercantilismo e come primato dei bisogni del cittadino su ogni logica di
competitività produttivistica. Un primato che in questi anni è stato
esclusivamente riservato ai capricci di pochissimi. Queste, ad esempio, le
parole pronunciate dal governatore della Bce Mario Draghi nel febbraio del
2013: «Quel che i mercati sanno, e per questo sono meno impressionati di voi
giornalisti, è che le misure di aggiustamento finanziario sono già attive in
Italia. E continueranno a operare con il pilota automatico». Di quale «pilota
automatico» si va cianciando? In una nazione democratica gli unici piloti sono
i cittadini in carne ed ossa, la cui volontà viene prima di ogni altra
considerazione.
Sono contento che ha vinto Syriza
perché l’Europa tra i suoi valori fondanti ha anche (forse soprattutto) uno
stato sociale unico al mondo, in grado di proteggere qualificatamente ogni
cittadino in qualsiasi frangente drammatico della propria esistenza (malattia,
disoccupazione, vecchiaia e incidenti di vario tipo). Una preziosa peculiarità
che, oggi grazie a Syriza e domani speriamo grazie ad altre forze analoghe, dobbiamo
proteggere dagli attacchi indiscriminati di una finanza ingorda e rapace.