Il richiamo all’identità è
diventato il nuovo tambur battente che annuncia la carica: al suo eco
s’iniziano arringhe sulle trite e ritrite «radici del nostro popolo»,
s’iniziano a piantare chiodi sui muri pubblici al fine di appendere (in ossequio
ad un provvedimento fascista) crocifissi da brandire a mo’ di marcatore del
territorio, si mobilitano legioni di cittadini inermi al fine di alzare
metaforici ponti levatoi oppure di erigere nuovi muri (in questo caso non
sempre metaforici). Difficile trovare vocabolo così inebriante e al contempo
talmente fumoso da poter essere considerato tranquillamente un’insensatezza. Da
dove provenga questa «identità dei popoli» non si capisce di preciso;
traballando pericolosamente sul sottile filo che separa dal razzismo biologico
di stampo hitleriano, pare che ogni essere umano debba rimanere avvinghiato ad
una determinata cultura la quale sarebbe arrivata in dono sulla base del suolo
che si calpesta al momento della nascita e da cui, questo il ferreo quanto
farneticante imperativo, non ci si può in alcun modo divincolare.
Il filosofo Tvetan Todorov («La
paura dei barbari», Garzanti 2009, pag.90) dichiara: «Occorre superare la
sterile opposizione fra queste due concezioni: da un lato l’individuo
disincarnato e astratto, che esiste fuori dalla cultura; dall’altro l’individuo
imprigionato a vita nella propria comunità culturale d’origine»? Tutte
corbellerie!
Voltaire («Annales de l’empire»,
in «Oeuvres complètes», 1877-1885, t.XIII) conclude: «Ogni uomo nasce con il
diritto naturale di scegliersi una patria»? Eresia pura!
Il sociologo Ernest Gellner
(1997) arriva addirittura a disquisire attorno al fatto che è stato il
nazionalismo a creare le nazioni e non viceversa? Affermazioni squinternate e
senza possibilità di appello! L’identità è qualcosa di palese, indiscutibile
ma, soprattutto, da difendere finanche con le unghie pur di non vederla
inquinata dai flussi migratori in arrivo. Caso eclatante, quello della
Cristianità. Il mantra (assolutamente bipartisan) è: noi italiani non possiamo
non dirci Cristiani, del Cristianesimo è impregnata tutta la storia nazionale
e, di conseguenza, dobbiamo preservare questa fede da qualsiasi interferenza.
Eppure sarebbe sufficiente girare
per le vie di qualsiasi città per notare come i precetti Cristiani più visibili
ad uno sguardo fuggevole vengano tranquillamente violati: dal consumo di
alcolici alla frequentazione dei locali più ameni, dal vestiario succinto alla
baldoria fino a tarda notte per giunta in giornate adibite alla meditazione
qualunque Cristiano premuroso dovrebbe sobbalzare dalla costernazione. Basta questa semplice contraddizione per
comprendere le goffe insensatezze a cui va incontro l’ossessivo proclama
dell’identità. Da un lato, la banale considerazione che la cultura di un popolo
è perennemente soggetta a variazioni e manipolazioni al fine non solo di
renderla consona alle società in evoluzione ma soprattutto di farla
sopravvivere. Dall’altro, la consapevolezza che aderire o no ad una cultura è
una scelta dell’individuo stesso, il quale ovviamente può essere indirizzato
nell’aderire a questa o a quella tradizione (comunque si tratta di una scelta
compiuta dalla famiglia o dalle istituzioni quali la scuola) ma di cui il
suggello finale dell’appartenenza, almeno in una società libera, spetta solo
all’individuo in prima persona.
Quest’ultimo aspetto vede nella
Cristianità il caso più emblematico, visto e considerato che il decrescere
dell’influenza delle parrocchie nella formazione dei ragazzi ha concorso in
maniera straordinaria alla progressiva perdita della cultura Cristiana nel
nostro Paese al punto tale che al giorno attuale sfido a trovare una porzione
consistente di giovani in grado d’indicare la durata di una Quaresima oppure il
significato di parole come «ostensione», giusto per fare due semplici esempi.
Può davvero definirsi «dall’identità Cristiana» un Paese in maggioranza privo
di queste basi conoscitive? Se la risposta è sottintesa, meno sottintesa è la
conclusione che a influire sul corso di una cultura collettiva non sono i
richiami di una tradizione considerata erroneamente indelebile. Sono le
consapevolezze degli individui a fare la differenza, senza alcun bisogno d’inchiodare
simboli religiosi nei luoghi pubblici (esigenza, fra l’altro, che non viene
sentita negli altri Paesi tradizionalmente Cristiani a noi più vicini).
Ma torniamo ad un concetto già
precedentemente abbozzato, ossia alla precisazione che le culture, per rimanere
integre, devono necessariamente evolversi. Un processo evolutivo che si snoda
lungo i millenni trascorsi e che proseguirà il suo affascinante cammino anche
nei secoli a venire, facendo venir meno in questo modo l’assurdo paragone molto
in voga delle «radici da preservare». Discettare attorno alla metafora della
«radice» è assolutamente fuorviante alla luce del fatto storicamente
incontrovertibile che le singole culture non germinano mai da un unico seme
spuntato magicamente dal nulla. Non possiamo parlare di «radici Ebraiche», ad
esempio, visto che anche gli ebrei stessi non sarebbero mai divenuti tali senza
l’essenziale contatto con la cultura egiziana (a sua volta frutto dell’incontro
di altre tradizioni preesistenti). Diviene assurdo parlare di «radici greche»
se non consideriamo l’apporto che le popolazioni del Mediterraneo hanno fornito
a questa peculiare cultura. E sebbene, rimanendo nell’affascinante arcipelago,
la tradizione tramandata dalla mitologia ateniese vuole che gli abitanti del
luogo fossero stati partoriti dalla terra dell’Attica, già gli antichi romani
ammettevano non solo con disinvoltura ma anche con grande orgoglio la
promiscuità da cui erano stati generati. Tito Livio («Ab urbe condita», 1, 8,
pag.55) scriveva: «Dalle popolazioni vicine confluì una turba indiscriminata-
non importava se fossero liberi o schiavi- gente bramosa di novità: questo fu
l’inizio e il nerbo della futura grandezza». L’incontro delle tradizioni come
embrione e premessa insostituibile di una cultura talmente grandiosa da essere
stata oggetto di venerazione, non sempre fortunata, nel corso dei secoli a
venire. Ad affermare oggi una cosa del genere ti pigliano per pazzo.
La vicenda assume connotati
sempre più intriganti se si considera che l’impero, all’apice del suo fulgore,
si sentì pesantemente minacciato da un culto mediorientale (a sua volta
debitore di varie tradizioni pregresse e contemporanee) considerato estremista,
intollerante e incompatibile con i valori romani al punto tale che parecchie
menti sopraffine iniziarono a preoccuparsi seriamente di fronte alla
prospettiva di una «grande sostituzione» di popoli. Gli adepti di quel culto
esotico si facevano chiamare con un nome bizzarro: «Cristiani».
Solo grazie a continui mutamenti
le culture sono arrivate ai giorni nostri; anche pratiche a primo acchito
fortemente legate ad un’immutabile tradizione (come il Palio di Siena) sono
sovente soggette a modifiche ed adeguamenti. Persino la democrazia, di cui si
osservano costantemente le origini ateniesi, quasi nulla ha a che fare con le
regole in vigore ai tempi di Pericle (epoca in cui la partecipazione era
esclusa alle donne, agli schiavi, ai ragazzi, ai meteci e addirittura a chi
aveva anche un solo ramo della famiglia estraneo alla polis).
Mutamenti, si badi il lato quasi
ironico della vicenda, spesso figli d’interpretazioni assolutamente discutibili
(la sanguinosa diatriba attorno al ruolo di Gerusalemme ne rappresenta il caso
più lampante) o addirittura risultato di azioni arbitrarie prive a prima vista
di qualsiasi valenza: sono rimaste nella memoria collettiva le atroci immagini
del conflitto «identitario» intercorso in Ruanda tra le varie etnie. Non tutti
sono a conoscenza del fatto che l’attuale ripartizione etnica deriva
dall’esigenza dei coloni belgi, siamo nel 1930, di fornire un documento
d’identità agli abitanti del luogo. Dovendo indicare l’etnia di appartenenza e
non sapendo che parametro utilizzare, si applicò il possesso di un certo numero
di capi di bovini come fattore al di sopra del quale divenivi a tutti gli
effetti membro dei Tutsi. Gli odii che scaturiranno nei decenni successivi
vedranno tra le basi fondanti questo banale atto amministrativo.
Per riassumere i concetti
espressi, non resta che rievocare un gustoso racconto di Cicerone («De
legibus», 2, 16, 40).
Trovandosi nell’insolvibile
dilemma su cosa preservare delle generazioni passate, gli ateniesi decisero di
spedire due rappresentanti della polis all’oracolo di Delfi al fine di farsi
suggerire dagli dèi la risoluzione dell’enigma. L’oracolo decretò che andavano
preservati i riti «conformi al costume degli antenati». Gli ateniesi appresero
la risposta ma, dopo aver riflettuto ancora un po’, decisero di andare
nuovamente a scomodare le divinità. Fu così che «vennero una seconda volta, e,
affermando che il costume degli antenati era mutato molte volte, chiesero a
quale costume dovessero specificamente attenersi fra i molti e diversi.
L’oracolo rispose: “Al migliore”».
Questo semplice scambio riassume
quanto gli antichi avevano già assimilato: le culture sono un oggetto in
continua evoluzione e sta a noi scegliere quale sia la «migliore». Una
particolarità che, sempre per rimanere nell’ambito della mitologia, si confà
particolarmente all’Europa, continente che prende il nome da una fanciulla
rapita da Zeus che partendo dall’Asia corre verso le coste dell’Occidente. Una
metafora sublime e un perfetto riassunto di un continente caratterizzato dal
continuo movimento e dall’inestricabile confronto delle tradizioni più
disparate.
Al diavolo le radici. Al diavolo le identità.
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