giovedì 25 giugno 2015

L'identità non esiste



Il richiamo all’identità è diventato il nuovo tambur battente che annuncia la carica: al suo eco s’iniziano arringhe sulle trite e ritrite «radici del nostro popolo», s’iniziano a piantare chiodi sui muri pubblici al fine di appendere (in ossequio ad un provvedimento fascista) crocifissi da brandire a mo’ di marcatore del territorio, si mobilitano legioni di cittadini inermi al fine di alzare metaforici ponti levatoi oppure di erigere nuovi muri (in questo caso non sempre metaforici). Difficile trovare vocabolo così inebriante e al contempo talmente fumoso da poter essere considerato tranquillamente un’insensatezza. Da dove provenga questa «identità dei popoli» non si capisce di preciso; traballando pericolosamente sul sottile filo che separa dal razzismo biologico di stampo hitleriano, pare che ogni essere umano debba rimanere avvinghiato ad una determinata cultura la quale sarebbe arrivata in dono sulla base del suolo che si calpesta al momento della nascita e da cui, questo il ferreo quanto farneticante imperativo, non ci si può in alcun modo divincolare.
Il filosofo Tvetan Todorov («La paura dei barbari», Garzanti 2009, pag.90) dichiara: «Occorre superare la sterile opposizione fra queste due concezioni: da un lato l’individuo disincarnato e astratto, che esiste fuori dalla cultura; dall’altro l’individuo imprigionato a vita nella propria comunità culturale d’origine»? Tutte corbellerie!
Voltaire («Annales de l’empire», in «Oeuvres complètes», 1877-1885, t.XIII) conclude: «Ogni uomo nasce con il diritto naturale di scegliersi una patria»? Eresia pura!
Il sociologo Ernest Gellner (1997) arriva addirittura a disquisire attorno al fatto che è stato il nazionalismo a creare le nazioni e non viceversa? Affermazioni squinternate e senza possibilità di appello! L’identità è qualcosa di palese, indiscutibile ma, soprattutto, da difendere finanche con le unghie pur di non vederla inquinata dai flussi migratori in arrivo. Caso eclatante, quello della Cristianità. Il mantra (assolutamente bipartisan) è: noi italiani non possiamo non dirci Cristiani, del Cristianesimo è impregnata tutta la storia nazionale e, di conseguenza, dobbiamo preservare questa fede da qualsiasi interferenza.
Eppure sarebbe sufficiente girare per le vie di qualsiasi città per notare come i precetti Cristiani più visibili ad uno sguardo fuggevole vengano tranquillamente violati: dal consumo di alcolici alla frequentazione dei locali più ameni, dal vestiario succinto alla baldoria fino a tarda notte per giunta in giornate adibite alla meditazione qualunque Cristiano premuroso dovrebbe sobbalzare dalla costernazione.  Basta questa semplice contraddizione per comprendere le goffe insensatezze a cui va incontro l’ossessivo proclama dell’identità. Da un lato, la banale considerazione che la cultura di un popolo è perennemente soggetta a variazioni e manipolazioni al fine non solo di renderla consona alle società in evoluzione ma soprattutto di farla sopravvivere. Dall’altro, la consapevolezza che aderire o no ad una cultura è una scelta dell’individuo stesso, il quale ovviamente può essere indirizzato nell’aderire a questa o a quella tradizione (comunque si tratta di una scelta compiuta dalla famiglia o dalle istituzioni quali la scuola) ma di cui il suggello finale dell’appartenenza, almeno in una società libera, spetta solo all’individuo in prima persona.
Quest’ultimo aspetto vede nella Cristianità il caso più emblematico, visto e considerato che il decrescere dell’influenza delle parrocchie nella formazione dei ragazzi ha concorso in maniera straordinaria alla progressiva perdita della cultura Cristiana nel nostro Paese al punto tale che al giorno attuale sfido a trovare una porzione consistente di giovani in grado d’indicare la durata di una Quaresima oppure il significato di parole come «ostensione», giusto per fare due semplici esempi. Può davvero definirsi «dall’identità Cristiana» un Paese in maggioranza privo di queste basi conoscitive? Se la risposta è sottintesa, meno sottintesa è la conclusione che a influire sul corso di una cultura collettiva non sono i richiami di una tradizione considerata erroneamente indelebile. Sono le consapevolezze degli individui a fare la differenza, senza alcun bisogno d’inchiodare simboli religiosi nei luoghi pubblici (esigenza, fra l’altro, che non viene sentita negli altri Paesi tradizionalmente Cristiani a noi più vicini).
Ma torniamo ad un concetto già precedentemente abbozzato, ossia alla precisazione che le culture, per rimanere integre, devono necessariamente evolversi. Un processo evolutivo che si snoda lungo i millenni trascorsi e che proseguirà il suo affascinante cammino anche nei secoli a venire, facendo venir meno in questo modo l’assurdo paragone molto in voga delle «radici da preservare». Discettare attorno alla metafora della «radice» è assolutamente fuorviante alla luce del fatto storicamente incontrovertibile che le singole culture non germinano mai da un unico seme spuntato magicamente dal nulla. Non possiamo parlare di «radici Ebraiche», ad esempio, visto che anche gli ebrei stessi non sarebbero mai divenuti tali senza l’essenziale contatto con la cultura egiziana (a sua volta frutto dell’incontro di altre tradizioni preesistenti). Diviene assurdo parlare di «radici greche» se non consideriamo l’apporto che le popolazioni del Mediterraneo hanno fornito a questa peculiare cultura. E sebbene, rimanendo nell’affascinante arcipelago, la tradizione tramandata dalla mitologia ateniese vuole che gli abitanti del luogo fossero stati partoriti dalla terra dell’Attica, già gli antichi romani ammettevano non solo con disinvoltura ma anche con grande orgoglio la promiscuità da cui erano stati generati. Tito Livio («Ab urbe condita», 1, 8, pag.55) scriveva: «Dalle popolazioni vicine confluì una turba indiscriminata- non importava se fossero liberi o schiavi- gente bramosa di novità: questo fu l’inizio e il nerbo della futura grandezza». L’incontro delle tradizioni come embrione e premessa insostituibile di una cultura talmente grandiosa da essere stata oggetto di venerazione, non sempre fortunata, nel corso dei secoli a venire. Ad affermare oggi una cosa del genere ti pigliano per pazzo.
La vicenda assume connotati sempre più intriganti se si considera che l’impero, all’apice del suo fulgore, si sentì pesantemente minacciato da un culto mediorientale (a sua volta debitore di varie tradizioni pregresse e contemporanee) considerato estremista, intollerante e incompatibile con i valori romani al punto tale che parecchie menti sopraffine iniziarono a preoccuparsi seriamente di fronte alla prospettiva di una «grande sostituzione» di popoli. Gli adepti di quel culto esotico si facevano chiamare con un nome bizzarro: «Cristiani».
Solo grazie a continui mutamenti le culture sono arrivate ai giorni nostri; anche pratiche a primo acchito fortemente legate ad un’immutabile tradizione (come il Palio di Siena) sono sovente soggette a modifiche ed adeguamenti. Persino la democrazia, di cui si osservano costantemente le origini ateniesi, quasi nulla ha a che fare con le regole in vigore ai tempi di Pericle (epoca in cui la partecipazione era esclusa alle donne, agli schiavi, ai ragazzi, ai meteci e addirittura a chi aveva anche un solo ramo della famiglia estraneo alla polis).
Mutamenti, si badi il lato quasi ironico della vicenda, spesso figli d’interpretazioni assolutamente discutibili (la sanguinosa diatriba attorno al ruolo di Gerusalemme ne rappresenta il caso più lampante) o addirittura risultato di azioni arbitrarie prive a prima vista di qualsiasi valenza: sono rimaste nella memoria collettiva le atroci immagini del conflitto «identitario» intercorso in Ruanda tra le varie etnie. Non tutti sono a conoscenza del fatto che l’attuale ripartizione etnica deriva dall’esigenza dei coloni belgi, siamo nel 1930, di fornire un documento d’identità agli abitanti del luogo. Dovendo indicare l’etnia di appartenenza e non sapendo che parametro utilizzare, si applicò il possesso di un certo numero di capi di bovini come fattore al di sopra del quale divenivi a tutti gli effetti membro dei Tutsi. Gli odii che scaturiranno nei decenni successivi vedranno tra le basi fondanti questo banale atto amministrativo.
Per riassumere i concetti espressi, non resta che rievocare un gustoso racconto di Cicerone («De legibus», 2, 16, 40).
Trovandosi nell’insolvibile dilemma su cosa preservare delle generazioni passate, gli ateniesi decisero di spedire due rappresentanti della polis all’oracolo di Delfi al fine di farsi suggerire dagli dèi la risoluzione dell’enigma. L’oracolo decretò che andavano preservati i riti «conformi al costume degli antenati». Gli ateniesi appresero la risposta ma, dopo aver riflettuto ancora un po’, decisero di andare nuovamente a scomodare le divinità. Fu così che «vennero una seconda volta, e, affermando che il costume degli antenati era mutato molte volte, chiesero a quale costume dovessero specificamente attenersi fra i molti e diversi. L’oracolo rispose: “Al migliore”».
Questo semplice scambio riassume quanto gli antichi avevano già assimilato: le culture sono un oggetto in continua evoluzione e sta a noi scegliere quale sia la «migliore». Una particolarità che, sempre per rimanere nell’ambito della mitologia, si confà particolarmente all’Europa, continente che prende il nome da una fanciulla rapita da Zeus che partendo dall’Asia corre verso le coste dell’Occidente. Una metafora sublime e un perfetto riassunto di un continente caratterizzato dal continuo movimento e dall’inestricabile confronto delle tradizioni più disparate.
Al diavolo le radici. Al diavolo le identità.

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