Attenendosi scrupolosamente alla
vulgata espressa dagli apparati mediatici, pareva che il mondo del lavoro
nell’èra di Facebook dovesse essere definitivamente riassunto in un
galvanizzante corollario di vocaboli d’oltremanica. La fine del fordismo, l’estinzione
delle tute imbrattate e la definitiva archiviazione dei contesti magistralmente
rappresentati in «Tempi Moderni» di Chaplin dovrebbero secondo una cospicua
pubblicistica consegnarci una situazione caratterizzata da lavoro «smart»,
ricco di stimoli, legato indissolubilmente alla conoscenza, dove il «merito» inteso come possibilità di far emergere le proprie sbalorditive capacità
cognitive (e tecnologiche) fosse l’unico fattore in grado di sancire non solo
il successo personale, ma anche le stesse possibilità di trovare un impiego.
Il mondo schernito da Chaplin è definitivamente concluso o si è soltanto evoluto? |
Avvinghiati dai poster di Steve
Jobs e ammaliati dalle slide di Bill Gates non pochi studiosi, politici ed
economisti hanno provato a venderci l’immagine di un mercato ove l’elevatissimo
grado di
Altro che prodigio tecnologico: il «New York Times» del 02/05/2014 affermò che «se Steve Jobs fosse ancora vivo,oggi dovrebbe stare in carcere». |
tecnologia in cui ci troviamo immersi fosse l’unico cardine possibile su
cui imperniare la carriera, trasformando la creatività – e la competenza
tecnica - nell’arma più affilata a disposizione, rendendo la fatica fisica un
desueto ricordo da cartolina in bianco e nero, spacciando la «flessibilità» (di
orario, di mansioni, di organizzazione) come una stimolante sfida giocata
all’insegna di algoritmi da congegnare.
Il progresso tecnologico avrebbe debellato le mansioni defatiganti - asserivano dal pulpito dei loro civettuoli «think-tanks» (ennesimo anglicismo) -, di conseguenza l’unico obiettivo perseguito dall’impresa sarebbe stato quello di ottenere personale il più possibile «smart», decisamente arricchito di «know-how», propenso al «problem solving» e chissà a quale altra peculiarità cognitiva. Dinnanzi a cotanta specializzazione, si è cercata di divulgare con una dose non irrilevante di malafede la concezione che un meccanismo così perfettamente congegnato non andasse caricato di polverosi vincoli. Se il «merito» dato dalla preparazione tecnologica è assurto al ruolo di protagonista del mercato, qualunque intralcio s’inserisca in questo contesto (in particolare quei ferrivecchi chiamati democrazie, Costituzioni, Statuti, contrattazioni collettive) va invariabilmente bollato come anacronistico sussulto anti-meritocratico. Del resto, questa la conclusione, se qualcuno non riesce ad inserirsi nel mercato vuol dire che il suo impegno è insufficiente. Il licenziamento finisce per essere considerato indubitabilmente una prova schiacciante dell’indolenza del lavoratore. La disoccupazione etichettata come tipica condizione dello scansafatiche.
L’impianto ideologico alla base
dei contratti «a tutele crescenti» sostanzialmente ruota intorno a
A infrangere la narrazione,
capitano però tra capo e collo quelle piantagrane di rilevazioni statistiche.
L’ultimo rapporto Inps, in particolare, ci mette al corrente della sbalorditiva diffusione dei
voucher. D’improvviso quei numeri ci fanno catapultare in un mondo dove dietro
lo sfavillante marketing della «net-economy» si celano magazzini automatizzati
dediti allo smistamento degli ordinativi. Un pianeta in cui l’utilissima e
iper-tecnologica piattaforma web fornita delle aziende è possibile solo grazie
a frenetici lavori di aggiornamento talmente costanti da non dover per nulla
invidiare le scene di Chaplin. Ma andando oltre le oniriche elucubrazioni sulla
tecnologia quello spaventoso numero di buoni lavoro descrive più di ogni altra
cosa un contesto in cui il progresso tecnologico, se esiste, non è ancora
economicamente preferibile rispetto all’assunzione di lavoratori a bassa
qualificazione.
Il voucher, ultima e apprezzata frontiera della precarietà. |
Mansioni tuttora vive e vegete
non solo nei tradizionali comparti del primario (raccoglitori, conducenti di
macchinari, addetti agli allevamenti) e dell’industria (edilizia, automobile,
costruzioni stradali, elettrodomestici e via discorrendo), ma soprattutto dei
servizi: dal call center alla ristorazione, dalla ricezione alberghiera alle
pulizie, dalla sorveglianza alla caffetteria, dal commercio all’assistenza alla
persona, dai servizi ospedalieri al turismo.
Secondo i dati forniti da
Excelsior-Unioncamere riferiti all’anno 2010 questo tipo di mansioni riguardava
la bellezza di 5,2 milioni di lavoratori, quasi un terzo dei dipendenti.
Oltretutto, lungi dal rappresentare una specie in via d’estinzione, il numero
di tali lavoratori è destinato ad una crescita irresistibile, sicuramente non
inferiore a quella delle mansioni ad alta qualificazione. Lo stesso studio
prevedeva addirittura che nel giro di cinque anni le professioni con qualifiche
medio-basse sarebbero aumentate di 400mila unità, registrando al contempo un
incremento di soli 100mila posti per le mansioni ad alta competenza.
Già nel 2007, del resto, un
rapporto Censis aveva spiegato con notevole puntualità la forma praticamente a
clessidra che andava ad assumere il lavoro italiano (ma anche europeo): si
spiegava infatti come nei cinque anni precedenti la dinamica occupazionale abbia
«inciso profondamente sulla struttura professionale del mercato del lavoro,
determinando un consolidamento di tutto quell’alone di professioni a basso
livello di qualificazione che rappresenta ancora la base portante dell’occupazione
italiana; in aperta contraddizione con le ambizioni d’un sistema che tende a
fare dell’innalzamento delle competenze e dei livelli formativi di base un
requisito sempre più necessario dell’accesso al lavoro».
La tabella Inps (si veda pag.36 di questo link) sull'esplosione dell'utilizzo dei voucher |
Il mercato, attualmente, offre
quindi non un scintillante brulichio di cervelli iper-connessi, quanto
piuttosto un’estrema polarizzazione in cui le mansioni ove il «merito» è ben
poco rilevante risultano quelle più in crescita.
Arginare questi effetti è
comunque possibile, non inseguendo mondi onirici ma rimanendo coi piedi ben
piantati al suolo. Di conseguenza, non proseguendo nel mantra di affidare alla
totale discrezionalità (spesso inaccettabile, come dimostra la diffusione dei
voucher) del mercato la gestione del lavoratore ottenendo come solo risultato
l’incremento dei profitti speculativi a danno della condizione economica e sociale
del salariato; ma spingendo affinché le istituzioni pubbliche agiscano in prima
persona favorendo e incoraggiando progetti industriali di lungo periodo
improntati sull’innovazione tecnologica. Offrendo ampi investimenti in ricerca
e sviluppo. Garantendo una quota di laureati quantomeno conforme alla media
europea. Congegnando delle vere e proprie politiche industriali.
In poche parole, invertendo
drasticamente la rotta intrapresa dai governi negli ultimi venticinque anni.
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