Il MoVimento 5 Stelle è una
specie di armata Brancaleone in cui – sotto le insegne del più sguaiato «vaffa»
- trovano conforto tutte le tradizionali polemiche anti-politiche rivisitate
sotto una redditizia chiave apocalittica seguendo le collaudate regole
dell’acchiappa-click più spietato.
Esempio lampante di articolo acchiappa-click fornito dalle piattaforme della Casaleggio Associati |
L’anti-politica (ormai dominante
su ogni versante parlamentare) rappresenta una peculiare forma di potere che
permette la più ampia libertà da vincoli, opportunità politiche e spesso anche
regole del più basilare bon-ton istituzionale: sfoggiando con orgoglio la
propria distanza da qualsiasi prassi di controllo politico, di responsabilità
democratica e di rispetto di una struttura dirigente (interna o esterna alla
formazione) temi come ad esempio la contaminazione continua e quasi
inscindibile tra interesse aziendale della Casaleggio Associati Spa. e scelte
politiche del MoVimento risultano non solo quisquilie di poco conto ma
addirittura contesti di cui farsi vanto. Trovare rifugio negli uffici milanesi
di Casaleggio rappresenta infatti una valida giustificazione per affermare la
totale inutilità di strumenti quali il finanziamento pubblico. Il risparmio per
i cittadini è assicurato, e se questo comporta degli indubbi cedimenti nei riguardi
delle pressioni dell’azienda (a questo punto depositaria del potere di vita o
di morte sul MoVimento) non vi è motivo di preoccupazione dal momento che se il
disprezzo verso le istituzioni rappresentative rappresenta l’unico parametro di
giudizio, ogni scelta che va nella direzione opposta – sebbene lesiva per
l’autonomia e il controllo democratico dei militanti – viene obbligatoriamente
salutata con fervore e proposta come esempio di buona prassi politica.
Senza una struttura autonoma e
priva di un autentico spazio di confronto e mediazione (che parola blasfema!)
il MoVimento non poteva che andare assumendo i caratteri di un agglomerato dai
contorni vaghi, ove la normale amministrazione di fronte alle incombenze
dell’attività parlamentare si trovava necessariamente ad essere delegata al
trascinatore delle piazze, a quel profeta del «vaffa» a
metà strada tra
Masaniello e Guglielmo Giannini che risponde al nome di Beppe Grillo.
Nei primi mesi di presenza
parlamentare Grillo rappresenta l’alfa e l’omega del MoVimento, non tanto per
scelta consapevole quanto per essere l’unico punto di riferimento di quella
compagine per lo più svogliata di elettori che si riversa a votare questo nuovo
simbolo nell’azzardo (speranzoso o rassegnato) d’imprimere un punto di rottura
nell’establishment politico qualunque esso sia. In questo esercito di elettori
raro è lo stimolo ad una partecipazione democratica alla vita del MoVimento.
Anzi, quel «vaffa» abbracciato come liberazione si rivolge anzitutto proprio
verso le strutture e le garanzie che permettono l’esercizio della
rappresentanza (Parlamento, partiti, sindacati anzitutto) producendo come esito
il più naturale degli sviluppi: chi rifiuta di esercitare il controllo
democratico crede per converso alle virtù demiurgiche del leader, e in questo
caso il ruolo non poteva che essere svolto dal comico. Il comico, appunto, il
cui rozzo messaggio sprezzante nei riguardi delle istituzioni rappresenta in
realtà quanto di più caratteristico e «conservatore» vi possa essere per un
Paese che dalla fine della Prima Repubblica conosce quasi esclusivamente una
politica imperniata sulla compressione della rappresentanza democratica (non a
caso il linguaggio e la retorica dei 5 Stelle vennero discretamente sostenuti
dagli apparati mediatici) con la differenza quasi unica della professione
svolta dal suo leader: non un politico (anche questo vocabolo blasfemo) bensì
un comico.
Se la commistione tra interesse
aziendale e lista politica non rappresenta di certo un inedito nella politica
italiana, mai ci si sarebbe immaginati di avere la più numerosa forza politica
sul territorio nazionale capeggiata da un uomo di satira. Un evidente
contraddizione, dal momento che la satira rappresenta per definizione
l’opposizione al potere costituito: come ci si comporta se la satira diventa potere costituito (o almeno
parte di esso)? Già all’epoca del primo V-Day Daniele Luttazzi si era posto il
problema affermando sulla rivista «Micromega» (correva l’anno 2007):
«Grillo si guarda bene dallo
sciogliere la sua ambiguità di fondo: che non è quella di fare politica, ma
quella di ergersi a leader di un movimento politico volendo continuare a fare
satira. È un passo che Dario Fo non ha mai fatto. La satira è contro il potere.
Contro ogni potere, anche quello della satira».
Il conflitto d’interesse diviene
lampante: lo sberleffo assume significato solo se condotto dal basso verso
l’alto, dall’oppresso all’oppressore, dal sottoposto al superiore. Luttazzi,
del tutto ignaro di quanto sarebbe successo sette anni più tardi, proseguiva il
suo intervento:
«Scegli, Beppe! Magari nascesse
ufficialmente il tuo partito! I tuoi spettacoli diventerebbero a tutti gli
effetti dei comizi politici e nessuno dei tuoi fan dovrebbe più pagare il
biglietto d’ingresso. Oooops!»
Senza sollevare grande sdegno, in
occasione delle Europee 2014 il leader in realtà avrebbe dato esatta attuazione
a questo sottinteso divieto, percorrendo in lungo e in largo l’Italia e
rivolgendo inviti a votare per il MoVimento esclusivamente dietro pagamento di un
biglietto; per giunta iniettando nello spettatore accorto il dubbio atroce se
le millanterie rovesciate in maniera torrenziale da parte di questo atipico
comico andassero derubricate nell’ambito di un reale impegno elettorale oppure
fossero funzionali alla scorrevolezza di uno spettacolo il cui scopo primario è
(o almeno dovrebbe essere) il puro intrattenimento.
Manifesto pubblicitario riguardante il tour di comizi a pagamento del leader 5 Stelle |
A descrivere questa
ambiguità ha comunque provveduto in maniera egregia un altro acuto satirico,
Vauro Senesi, scrivendo una lettera a Dario Fo sulle colonne del «Fatto
Quotidiano» circa il V-Day del settembre 2013:
«Nelle mie orecchie le tue parole
si erano perse, coperte dagli strilli di un pagliaccio. Dovrei dire di un ex
pagliaccio. Perché, a differenza di te e di me che pagliacci siamo e siamo
rimasti, quel pagliaccio si è fatto capo. Il giullare che si fa re. Quando il
giullare si fa re la magia della satira svanisce. Le stesse parole che dalla
bocca del giullare hanno il suono triste e allegro dello sberleffo e del
pernacchio, nella bocca del re assumono quello perentorio e arrogante
dell’autorità. Arlecchino danza con la morte, certo, e nella sua danza c’è
tutta l’ostinata e gioiosa irriverenza verso ogni forma del potere. Se invece
di Arlecchino è il re che balla con la morte non c’è più l’irriverenza ed è
solo una danza macabra. Non mi sono mai piaciuti i capipopolo, quelli che
parlano “alla pancia della gente”. Mi piacciono ancora meno quando hanno
dismesso il costume colorato di Arlecchino per indossare l’armatura cupa del
condottiero infallibile».
Il «direttorio» (anche questo
soltanto ratificato ma mai sottoposto al dibattito dei militanti) da un anno a
questa parte pare svolgere un ruolo di supporto al leader; ma nonostante questa
oscura
investitura il carisma del comico pare ancora essere determinante per le
sorti del MoVimento. Necessario anzitutto come volto da spendere
mediaticamente, nel maldestro tentativo di fornire una verniciata di
spensierata goliardia al click-baiting senza scrupoli della Casaleggio
Associati e occultare le manovre di un MoVimento che si trova a fare i conti
con molteplici ambizioni e difficoltà amministrative. Ma necessario anche per
garantire una patina di «immunità» sulle parole pronunciate: senza erigere un
muro divisorio tra il ruolo della satira e la dialettica politica, il comico
può permettersi di dispensare diktat (talvolta umiliazioni) senza suscitare
grandi clamori.
I parlamentari del MoVimento |
Del resto, Grillo è pur sempre un
comico. O no?
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