lunedì 14 marzo 2016

La minorenzia

Roberto Speranza: «Renzi è una risorsa» (02/09/2013)
Goffredo Bettini: «Renzi è una risorsa» (04/07/2013)
Erika D’Adda: «Renzi è una risorsa» (04/05/2013)
Massimo D’Alema: «Renzi è una risorsa» (20/07/2013)
Rosy Bindi: «Renzi è una risorsa» (20/02/2013)
Pierluigi Bersani: «Renzi è una risorsa» (03/12/2012)
Guglielmo Epifani: «Renzi è una risorsa» (20/07/2013)

La minoranza dem che fa? «Si costerna, s'indigna, s'impegna; poi getta la spugna con gran dignità» risponderebbe con proverbiale schiettezza poetica Fabrizio De Andrè.
Vista la sua regolare cadenza, il copione delle polemiche interne al Partito Democratico meriterebbe quasi di essere postulato nei regolamenti parlamentari, precisamente a metà strada tra l'approvazione in Consiglio dei ministri di un qualsiasi provvedimento e il suo passaggio in Aula – ove bene che vada provvede la richiesta della fiducia a sancire la fine dei giochi e ad ordinare il perfetto allineamento di una compagine parlamentare dem che fino a qualche ora prima pareva sul punto di un fatale «rompete le righe» di volta in volta divenuto sempre più monotono e sempre meno sensazionale.

A distanza di due anni, quando su determinante impulso proprio dell'allora componente anti-renziana del Pd la Direzione votò a maggioranza bulgara un documento di benservito al governo Letta (con tanto di aperitivi ordinati per l'occasione), quale che sia la propria posizione politica appare arduo non sentire un senso di frustrazione di fronte a questo ossessivo e futile brandire di pistole scariche da parte della sempre più sparuta opposizione interna alla segreteria. Una rappresentazione oramai ridotta a risaputa farsa, un consumato gioco di prestigio di cui tutti gli spettatori conoscono il trucco. Un trucco, complice la bonaria onestà di buona parte della minoranza, talmente evidente da essere stato ripetutamente svelato: trattenere i tradizionali militanti dentro il corpaccione della carcassa cadaverica del partito, dimostrando loro che un Pd ancora vagamente immune alla pandemia neoliberale non solo sopravvive, ma potenzialmente gode ancora della possibilità nientemeno che di tornare in sella. La battaglia della minoranza, insomma, serve unicamente allo scopo di mascherare l'indole smaccatamente di destra del partito garantendogli ancora la cigolante possibilità di millantare tradizioni progressiste senza suscitare la risata generale.

Una recente foto che ritrae gli esponenti di maggior spicco della minoranza interna al Pd (fonte)


Il segretario ha solo da gongolarsi di fronte ad un contesto abilmente manovrato – specie dagli apparati mediatici – in cui la minoranza dem assurge a impacciata barricadera contro cui scaricare agilmente ogni difficoltà e in cui l'unica opposizione con qualche chance di vittoria alle elezioni è rappresentata dallo sgangherato populismo anti-euro.
«Dopo di me il diluvio», può affermare senza apparente timore di smentita il segretario Pd. «Dopo di lui il diluvio», possono ripetere gli editoriali e la minoranza interna (i primi con malcelato entusiasmo, la seconda con costruita rassegnazione) dimentichi che tale motto apparteneva al Re Sole, certo non capostipite del liberalismo democratico.

Disposti quindi ad un'opposizione di modica quantità e ad una mobilitazione antigovernativa da coito interrotto, gli esponenti della minoranza possono continuare a fregiarsi orgogliosamente di non aver «tradito la ditta» e di voler ad ogni costo arginare l'incalzare indotto della nauseabonda opposizione salviniana.
Successi di questa strategia non paiono vedersene all'orizzonte: lungi dall'erigere un corposo argine, la destra populista seguita a macinare consensi anche in versanti sociali verso cui la sinistra non si pone più in ascolto. Il popolo erroneamente convinto che quell’ascolto sarebbe giunto dal Pd disertano le urne - gonfiando lo spaventoso partito dei rassegnati - e desertificano quelle che un tempo venivano chiamate «sezioni».



Assai pochi fedeli riesce ad animare la fiaba di un Pd ove il renzismo viene raccontato come una nuvola passeggera nel cielo terso di un partito vivace e legato alla sinistra. Troppo sgualcito il sipario della (tragi)commedia di un campo progressista ove Renzi più che un incidente di percorso appare sempre più nitidamente come l’esito naturale di una dirigenza democratica da tempo disposta a tollerare con benevolenza i giudizi sprezzanti verso il partito forte, indipendente ed inclusivo. Disposta a tollerare da anni i richiami al plebiscitarismo ostile agli organi di rappresentanza come prezzo da pagare per il successo elettorale. Disposta troppo spesso con enfasi interessata a processare il Novecento (dietro l'inconsistente retorica del «moderno») evocando una società dove i rapporti di
forza sono quelli dell'Ottocento. Indulgente nei riguardi di coloro talmente accaniti nel denunciare il peggio della Prima Repubblica da condurre la battaglia assieme al peggio della Seconda Repubblica. Persino nei confronti del veleno berlusconiano, per usare le acute parole di Piero Ignazi, l'opposizione della sinistra 

«si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l'accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica».

Il sostegno al governo Monti – col suo bagaglio culturale magistralmente riassunto da quel passaggio di un discorso di Angela Merkel secondo cui «la democrazia è accettabile solo se conforme ai voleri del mercato» - avrebbe già dovuto far cogliere quanto questa scelta fosse la pietra tombale di qualsiasi seppur pallida velleità di sensibilità egualitaria da parte del Partito Democratico, definitivamente suggellata da quel centinaio abbondante di parlamentari che scegliendo con screanzata codardia di evitare la salita di Prodi al Quirinale sancì in tal modo la propria incrollabile fedeltà al berlusconismo e sbarrò la strada non solo a qualsiasi seppur ambigua altenativa di governo, ma anche alla possibilità di un partito fondato su un’effettiva partecipazione.

Chi crede davvero nella necessità di rigettare le nefaste politiche dell'ultimo ventennio ha già avuto ampiamente modo di sperimentare che il Pd non rappresenta la propria casa, nemmeno se possiede il volto della sua imbelle minoranza. 

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