Anno 2013. In
occasione del G20 di San Pietroburgo il dominus turco Erdoğan chiede al dominus
russo Putin di mettere una buona parola nelle trattative per far accedere
Ankara al Gruppo di Shanghai, non prima però di aver chiesto alla compagnia
cinese Cpmiec – sottoposta a sanzioni statunitensi – la costruzione del suo
primo sistema di difesa antimissilistico a lungo raggio. La scelta di campo
appare palese, e l’ostilità reciproca con la Casa Bianca pare suggellare la definitiva collocazione
di Ankara nell’asse Russia-Cina-Iran.
La bandiera turca |
Nel giro di qualche
anno il permanere della diffidenza con gli Usa non riesce però a nascondere un
quadro che appare notevolmente mutato:
ad esempio in occasione di un altro G20, quello di Antalya, la Turchia pensa
bene di arrivare al meeting con la notizia fresca dell’annullamento del contratto con le compagnie cinesi sul sistema antimissilistico che tanto aveva
scosso i partner della Nato. Nello
stesso torno di tempo e nel medesimo contesto si collocano la concessione agli
Stati Uniti della – corteggiata da tempo – base aerea di İncirlik, i
tentativi di legittimazione agli occhi della stessa Nato, un’imbarazzante
visita in Turchia di un Angela Merkel col cappello in mano, la riscossione di
tre miliardi di euro generosamente elargiti dalla Ue al fine di trattenere i
profughi siriani dall’attraversamento del mar Egeo, un alleggerimento del
sistema dei visti per i cittadini turchi nel contesto comunitario, la ripresa
dei colloqui per entrare nel novero dei paesi membri dell’Unione Europea e quotidianamente
nuovi esosi tentativi di scambi (estremamente vantaggiosi per Ankara) con vari
organismi occidentali.
Specialmente a
partire dalle non trionfali elezioni
legislative dello scorso sette giugno, pare insomma che il sultano turco
intenda con accanita tenacia legarsi al
campo occidentale, costringendo i riluttanti partner di tale schieramento
ad assecondare le sue smanie
imperialistiche e i suoi calcoli
elettorali interni.
A fronte di una
deludente gestione delle pratiche mediorientali che gli ha alienato peraltro
buona parte del consenso del mondo arabo non meno che di quello
occidentale (secondo la Fondazione turca per gli studi economici e sociali, tra il 2011 e il 2013 i cittadini
mediorientali sostenitori della politica turca sono passati dal 56 al 37%) e
dopo aver incassato lo smacco di trovarsi i suoi fedeli servitori - specie
della Fratellanza musulmana - perseguitati in Egitto, male armati in Libia e
incapaci di spodestare al-Asad in Siria, per la Turchia inserirsi forzosamente nel campo occidentale pare essere la strada
più redditizia sia dal punto di vista del consenso interno, sia dal punto di
vista del perseguimento dei suoi scopi geopolitici, primo fra tutti poter bombardare con disinvoltura le forze curde
al fine di esercitare un controllo sempre più efficace su fette consistenti del
territorio siriano.
Una politica che può
implementarsi senza troppi intoppi per la consapevolezza di trovarsi in una posizione di forza.
Il presidente turco e il presidente russo |
Anzitutto la strategia del mantenimento del caos mediorientale perseguita da Obama costringe
quest’ultimo a trovare qualcuno che faccia il lavoro sporco di evitare che lo
Stato Islamico assuma una posizione troppo rilevante nello scacchiere
mediorientale. Vista l’assoluta volontà della Casa Bianca di non spedire soldati a stelle e strisce
nelle sabbie mobili mediorientali, la necessità di milizie sunnite sul
campo si fa sempre più impellente per Washington, spingendo la Turchia a
offrirsi come indispensabile alleato nell’operazione. Ben sapendo che le
milizie curde disturbano il sonno dei dirigenti di Ankara molto di più di
quanto facciano gli spietati jihadisti del Califfato, gli Usa sono
inizialmente
propensi a temporeggiare di fronte a questa richiesta, prediligendo magari le
stesse – più efficaci – forze curde come partner principale nell’opera di
contenimento dello Stato Islamico.
I turchi dapprima
impongono la propria collaborazione offrendo la base aerea di İncirlik, ma di
fronte alla scusa addotta dalle forze occidentali secondo cui gli stretti rapporti di vicinanza con Mosca
impediscono ad Ankara di ritenersi un alleato a pieno titolo dell’Occidente,
ecco giungere la clamorosa sortita dell’abbattimento
di un aereo militare del Cremlino. Con la consueta arroganza e l’abituale
enfasi tracotante, la Turchia dimostra con plateale evidenza la propria fedeltà al campo occidentale,
spazzando via con un colpo quasi teatrale ogni recalcitranza alla
collaborazione da parte soprattutto degli Usa, ottenendo la rottura tra
Washington e i combattenti curdi soprattutto dello Ypg e causando il repentino
cambio di approccio di una Washington fino a qualche giorno prima considerata
da Ankara troppo condiscendente nei riguardi delle operazioni russe in Siria
(viste come una minaccia esistenziale per l’influenza turca nella regione).
Schema riguardo l'abbattimento del Su-24 russo da parte delle forze turche, dall'archivio del Corriere della Sera |
Con un gesto tanto
clamoroso quanto semplice, gli Usa sono costretti obtorto collo a vedere la
Turchia come partner essenziale, chiudendo
ambedue gli occhi di fronte alla disinvolta politica autoritaria (e
smaccatamente anti-curda) condotta da Erdoğan e adottando una postura più dura
nei confronti del dittatore siriano al-Asad.
Il jet russo abbattuto |
Ma il sultano ha
anche un’altra arma a disposizione
da scagliare contro l’Unione Europea al fine di piegare quest’ultima ai
desiderata di Ankara: una massa biblica
di profughi bramosi di varcare la porta del Vecchio Continente.
Con l’inconsapevole
complicità di una Germania che nel corso del solo 2015 ha accolto al proprio
interno qualcosa come 1,1 milioni di profughi, la Turchia ha ben capito che
l’azzardo morale di scaricare sull’Europa la massa in fuga rappresenta un formidabile strumento di pressione per
spingere le istituzioni comunitarie (disposte a tutto pur di evitare una
situazione di caos sul proprio territorio) a ingoiare qualsiasi rospo. Come scriveva qualche mese fa il prof.Germano Dottori:
«Per convincerci
ad abbandonare al-Asad al suo destino, agevolare il trionfo dell’islam politico
in Medio Oriente e farci contribuire a una sistemazione della Siria
corrispondente ai suoi desideri e alle sue ambizioni, Erdoğan potrebbe aver
scelto di emulare le vecchie pratiche del Colonnello Gheddafi, lasciando che ai
nemici profughi siriani [in
quanto curdi, ndr.] diretti a Lesbo o a Kos si aggiungano altre persone
non gratae, come gli afghani e i pakistani […].
Il dato è questo:
l’Europa si è trovata all’improvviso stretta in una tenaglia, controllata a un
estremo dai turchi, che vogliono la testa di al-Asad» avendo «a disposizione masse di disperati
con i quali gettarci nel caos».
Di fronte a queste
azioni disgustosamente spregiudicate,
la linea adottata dal Paese traino dell’Europa (manco a dirlo la Germania) pare
essere quella di piegarsi al ricatto di Ankara conferendo anzitutto a
quest’ultima denaro sonante e ricercando una difficile solidarietà europea
nella distribuzione dei disperati. Nella speranza che il canto di alcune sirene
nord-europee secondo cui sarebbe legittimo trasformare
le nazioni mediterranee in giganteschi campi profughi (alla stregua di
quanto avveniva con la Libia di Gheddafi) rimanga soltanto un'irricevibile boutade.
Nessun commento:
Posta un commento