venerdì 25 aprile 2014

Chiamiamoli fascisti





La vulgata comune e i mezzi d’informazione li indicano con l’abusato aggettivo di «populisti», ma guardando bene anche Renzi, Obama e Papa Francesco farciscono i loro discorsi con una buona dose di populismo. Il più delle volte, le formazioni politiche che fanno breccia sulla rabbia popolare fornendo capri espiatori ed evitando di elaborare un serio programma non si possono definire altro che «fasciste». Oggi è il 25 aprile, e non ci può essere giorno migliore per analizzare la vera ed esecrabile anima dei movimenti politici che stanno conquistando il cuore di milioni di cittadini dell’Unione Europea.
Questi movimenti agiscono su terreni diversi, propugnano slogan talvolta antitetici, si organizzano in maniera diversa ed è quindi sbagliato generalizzare o tracciare un ritratto comune. La gran parte di essi sfrutta le difficoltà della crisi economica (ma non tutti: ad esempio in Austria l’estrema destra supera il 30% dei consensi pur avendo solo un 4% di disoccupazione(1)), molti si ispirano a una chiara connotazione politica (specie di estrema destra) mentre altri preferiscono apparire super partes, e anche i capri espiatori sono abbastanza variabili: vanno dagli ebrei agli omosessuali, ma i più gettonati sono gli immigrati, le istituzioni nazionali, le istituzioni europee e talvolta tutti e tre insieme. Sono tre bersagli che garantiscono successo immediato: basti solo pensare che, secondo il «Financial Times», il 71% dei cittadini europei spera che il proprio governo riduca i benefici concessi agli stranieri, e nel Regno Unito questa quota raggiunge addirittura l’83% del campione(2); una massa enorme di persone che spesso non conosce freni inibitori. Secondo l’Eumc (l’Osservatorio europeo sul razzismo) nel 2006 i fenomeni a sfondo razziale sono aumentati in alcuni paesi tra il 25% e il 45%, con punte del 70%.
Il caso più eclatante è l’Ungheria, dove il partito xenofobo e antisemita Jobbik rappresenta la terza forza in Parlamento (tra il 2006 e il 2009 i suoi consensi sono passati dal 2,2% al 14,8%) e recentemente si è persino rivolta alla Corte dei diritti umani di Strasburgo per chiedere la reintroduzione del braccio armato del partito (la Magyar Gárda) bandito nel 2009.
In Slovacchia lo scorso autunno una regione è finita nelle mani di Marian Kotleba, ex leader di un partito neonazista (soppresso nel 2006) e famoso nelle cronache per le marce anti-rom; un altro leader del partito, tale Ján Slota, tra i suoi vari nemici includeva gli omosessuali, esprimendosi nei loro riguardi con le seguenti parole: «L’omosessualità è una malattia, una devianza, come la pedofilia», e ancora: «Non ho problemi con loro [gli omosessuali, ndr.], se se ne stanno nell’ombra a fare le loro orge».
In Romania alle Europee del 2009 c’è stato il trionfo di Partidul România Mare capeggiato da Corneliu Vadim Tudor, fiero nazionalista che passa il tempo a inneggiare alla Grande Romania e ad una presunta purezza etnica dei «veri rumeni» (secondo la Commissione europea per la lotta alle discriminazioni «il paese che ha più problemi di razzismo è la Romania»).
In Repubblica Ceca nel 2009 i seguaci del Partito dei lavoratori si sono spesso abbandonati alle più efferate violenze nei quartieri rom delle principali città e uno dei suoi leader ammoniva: «Non vogliamo che la Repubblica Ceca diventi la fogna per gli immigrati di tutto il mondo».
In Bulgaria le Presidenziali del 2006 hanno visto correre al ballottaggio Volen Siderov, leader di Ataka, partito tenacemente schierato contro i rom, i neri, i turchi, gli ebrei e, in generale, tutto ciò che non sia bulgaro e ortodosso.
In Grecia nel 2012 è riuscita a entrare in Parlamento Alba Dorata, forza politica che trasuda riferimenti al nazismo da tutti i pori. Non tutti sanno che esiste anche un altro partito di estrema destra greco, il Laikos Orthodoxos Synagermos che alle Politiche del 2007 aveva ottenuto il 7,2% grazie anche alle farneticazioni dello scrittore Konstantinos Plevris (del tipo: «La storia del genere umano potrebbe ritenere Adolf Hitler responsabile di quanto segue: non essere riuscito a eliminare dall’Europa gli ebrei, mentre lui poteva»).
Nel Regno Unito l’estrema destra offre nientemeno che due alternative: o l’Ukip di Nigel Farage (paladino contro l’immigrazione dall’est europeo) oppure il Bnp di Nick Griffin. I manifesti elettorali del Bnp per le Europee 2009 raffiguravano gli avversari politici in veste di maiali e l’invito «Punisci i porci!». Non solo. Griffin si distingue spesso per affermazioni come: «Siamo contro chiunque venga qui. Il paese è pieno, non importa da dove vengano, se siano neri, marroni, bianchi o verdi. Il paese è pieno, punto e basta», oppure, in un’altra occasione: «So benissimo che è opinione condivisa che sei milioni di ebrei siano stati gassati, cremati e trasformati in paralumi, ma una volta era opinione condivisa anche che la terra fosse piatta. Ho raggiunto la conclusione che la ricostruzione dello “sterminio” è una miscela di propaganda alleata in tempo di guerra, di una bugia estremamente proficua e, da ultimo, di un’isteria da caccia alle streghe».
In Finlandia il leader che nel 2009 ottenne più consenso fu Timo Soini, capo dei Veri Finlandesi (il nome già dice tutto) che si è addirittura rifiutato di firmare una dichiarazione contro il razzismo.
In Olanda Geert Wilders, leader del Pvv, qualche anno fa invocava «contro i fascisti musulmani una jihad liberale».
Analogamente, in Danimarca il Dansk Folkeparti pochi anni orsono faceva affiggere manifesti recanti slogan del tipo «ridateci la Danimarca» o inneggianti alla «chiamata alle armi del partito contro l’islamismo».
In Spagna Manuel Candela Serrano, leader di Democrazia Nacional, qualche anno fa si dilettava a cantare in una band nazi-rock i cui testi contenevano frasi come: «Ehi, negro, tornatene nella giungla./L’Europa è bianca e non è la tua terra».
In Germania Udo Voigt, leader del Partito Nazionaldemocratico tedesco, nel 2008 si scagliò furentemente contro la presenza dei giocatori neri nella nazionale. Il suo slogan era: «Bianco non solo il colore della maglia!». Analogamente un altro leader, Gerhard Frey, strillava: «Basta con le menzogne sui lager: è tempo di riscrivere i libri di storia che hanno annebbiato la mente dei nostri giovani!».
Il Belgio nel frattempo vede lo scontro tra fiamminghi e valloni. Uno scontro talmente violento che il partito Vlaams Blok (Blocco fiammingo) venne sciolto nel 2009 per incitamento all’odio razziale; provvedimento vano, visto che il partito di fatto è risorto sotto il nome di Vlaams Belang il cui ex-leader Filip Dewinter aveva come idoli i componenti delle SS e andava in giro dicendo: «Se uno è nato nel Burkina Faso non capisco perché debba venirsene qui, che se ne stia a casa sua». Tanto era l’odio seminato che il militante Hans Van Themsche nel 2006 afferrò una carabina e uccise tre immigrati in un giardino pubblico.
Arriviamo al caso più importante: la Francia. A fine marzo le elezioni amministrative hanno portato il Front National di Marine Le Pen a risultati inaspettati: nel comune di Hénin-Beaumont ha ottenuto il 50,26% dei voti, a Orange il 59,8%, a Saint-Gilles il 42,6%, a Fréjus il 40,3% e via di questo passo. Eppure lo storico leader Jean-Marie Le Pen era colui che dichiarava: «Non dico che le camere a gas non siano mai esistite. Io non le ho viste. Non ho studiato la questione, ma penso che nella storia della Seconda guerra mondiale siano solo un dettaglio». E la situazione attuale del Fn non è molto diversa: uno dei candidati di Marsiglia presiede l’associazione di sostegno ai tre attacchini che uccisero un diciassettenne comoriano nel 1995, il candidato ad Hayange disse di aver avuto «voglia di vomitare» il giorno dell’elezione dell’«islamo-socialista» Hollande, il candidato a Maubeuge è stato recentemente immischiato in una vicenda riguardante la commercializzazione di divise naziste, il candidato a Six-Fours è stato condannato a un anno di carcere per «violenza armata in una riunione», il candidato a Brignoles è un fiero ammiratore di Hitler, uno dei compagni di lista del candidato a Cluses ha scritto nella propria pagina facebook di «amare il Mein Kampf».
In Italia la forza politica più affine a queste elencate qui sopra è stata la Lega Nord, la quale per decenni si è fatta paladina dei più odiosi slogan di stampo razzista. Dopo essere stata travolta da vari scandali sull’uso improprio dei rimborsi pubblici al partito, i militanti leghisti sono confluiti per la gran parte nel MoVimento 5 Stelle. I leader del M5S hanno avuto la sagacia di non propugnare ufficialmente le idee razziste degli altri partiti qui sopra elencati, eppure la ferocia con la quale esternano le loro affermazioni, l’intolleranza verso qualunque opinione discorde, lo scetticismo verso la storia, la mancanza di progetti precisi, la volontà di trovare dei capri espiatori e, soprattutto, la capacità di cavalcare la rabbia popolare fanno in modo che il MoVimento 5 Stelle, pur non essendo direttamente paragonabile ai partiti fascisti, ne segua la scia.
Tutte queste forze politiche non sono in alcun modo conciliabili con gli ideali di libertà e democrazia che stanno alla base di una società civile nata sulle macerie del fascismo. Nonostante la pesantezza della crisi economica e i gravi errori delle varie classi politiche questi partiti non possono in alcun modo essere l’alternativa.
Non chiamiamoli populisti, chiamiamoli fascisti.
Buon 25 aprile(3).


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(1) da Jean-Marie Colombani, su «Sette-Corriere della Sera» dell’11/10/2013
(2) sono stati intervistati cittadini di Spagna, Francia, Italia, Germania e Regno Unito, da Luigi Offeddu, sul «Corriere della Sera» del 20/10/2013
(3) per le varie informazioni è stato di grande aiuto il saggio «Negri, froci, giudei & co.» di Gian Antonio Stella, ed.2009, l’articolo di Bernard-Henry Lévy sul «Corriere della Sera» del 27/03/2014, l’articolo di Stefano Montefiori sul «Corriere della Sera» del 25/03/2014 e l’articolo di Maria Serena Natale sul «Corriere della Sera» del 29/11/2013

giovedì 17 aprile 2014

Assalto alla dirigenza





Il calendario segna la data del 20 gennaio 2014, siamo davanti al banco del buffet preparato negli studi Rai pochi minuti prima della messa in onda di «Porta A Porta». Sta per aprirsi una puntata che ha come ospiti Matteo Renzi, segretario del Pd, e Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni. I due invitati più prestigiosi si rilassano un po’ prima di andare apparire davanti agli schermi; sebbene Scaroni sia un berlusconiano di ferro, tra i due si è creato un buon feeling. È in questa situazione che l’ad di Eni chiede tranquillamente: «Matteo, hai visto quello schema che ti ho mandato? Se c’è qualcosa che non si capisce, chiamami…». Il riferimento, neanche troppo velato, è al cambio di vertici delle principali aziende pubbliche che si sta consumando in questi giorni. Quella frase mostra inequivocabilmente come le grosse aziende pubbliche stavano meditando già in quei giorni che un cambio di governo era necessario; sapevano che l’esuberante sindaco di Firenze rappresentava una garanzia sui nomi da assegnare alla testa dei vari colossi. Sono state proprio quelle aziende le prime a spingere Renzi verso la decisione di disarcionare Letta.
Il «cambio della guardia» che sta avendo luogo, infatti, era un passaggio atteso da tempo e di importanza quasi vitale per i diretti interessati. Inoltre, non succedeva da anni che a occuparsi delle nomine (e quante nomine!) fosse un governo a guida di centrosinistra.
Insomma, uno dei motivi (per non dire il principale motivo) che hanno portato Renzi a Palazzo Chigi è proprio la fiducia che le grosse aziende pubbliche nutrivano in lui in vista di questo cambio di vertici. Sarebbe stato da ingenui aspettarsi che i desiderata dei pezzi da novanta non venissero rispettati: l’attuale Presidente del Consiglio aveva un forte debito da saldare con questi personaggi.
Con la nomina dei ministri e dei sottosegretari avevamo visto come Renzi, a dispetto della sua sbruffoneria di facciata, si prodighi sempre per non scontentare nessuno: tra ministri e sottosegretari il premier era riuscito a soddisfare tutti i partiti e le correnti politiche che garantiscono la sopravvivenza del suo esecutivo, compresa Forza Italia (che si è vista assegnare il ministero dello Sviluppo Economico e i sottosegretari alla Giustizia pur essendo ufficialmente all’opposizione).
Il modus operandi adoperato per tracciare la lista delle nomine delle principali aziende pubbliche si è svolto più o meno sulla stessa falsa riga, con la differenza che, oltre ai partiti politici, Renzi si è sentito in dovere di ringraziare (regalando una poltrona di prestigio) anche le forze economiche che gli hanno permesso di arrivare a ricoprire la carica di primo ministro.
A leggerli a prima vista certi nomi non dicono nulla, ecco perché mi sono sentito in dovere di stilare un elenco che sveli i nomi (con breve descrizione) di coloro che in questi giorni sono riusciti ad accaparrarsi una fetta importante di potere dopo aver garantito a Matteo Renzi il sostegno per la scalata fino a Palazzo Chigi. 

Mauro Moretti: Fino a qualche giorno fa era amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, ora è diventato (quinta nomina consecutiva da ad) amministratore delegato della ben più prestigiosa Finmeccanica. Bisogna riconoscergli che ha sempre svolto il suo ruolo con senso del dovere. Tale senso del dovere, unito con una solida amicizia che lo lega a Massimo D’Alema, gli hanno permesso di rimanere nel pantheon delle aziende pubbliche nonostante la recente affermazione: «Se tagliano gli stipendi ai manager, io me ne vado». Un peccatuccio perdonato in fretta e furia. 

Luisa Todini: Diventata presidente di Poste Italiane, è il regalo più vistoso concesso a Berlusconi: Todini, infatti, in passato ha ricoperto la carica di eurodeputata del Pdl. C’è anche qualche sospetto di conflitto d’interessi, visto che la Todini appartiene a una famiglia di costruttori. 

Emma Marcegaglia: Ora presidente di Eni, è anche azionista di Alitalia. Qualcuno ha fatto notare che il fratello di Emma, Antonio, cinque anni fa fu condannato per aver pagato una tangente a un manager di Enipower. Ironia del destino? 

Claudio Descalzi: Nominato amministratore delegato di Eni, questo invece è il regalo per Scaroni (di cui abbiamo già visto il suo peso nell’intera vicenda). Descalzi, infatti, è il delfino più fidato dell’ex ad di Eni. 

Alberto Bianchi: Nominato membro del consiglio d’amministrazione di Enel, è tuttora presidente della Fondazione Open che si è occupata di finanziare le campagne politiche di Matteo Renzi. 

Roberto Rao: Nominato membro del consiglio d’amministrazione di Poste Italiane, è nientemeno che l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini ed ex deputato dell’Udc. 

Salvatore Mancuso: Nominato membro del consiglio d’amministrazione di Enel (in realtà lo avevano messo in Eni, ma una volta scoperto che la presidente dell’ente era la Marcegaglia, Mancuso ha puntato i piedi per essere cambiato di posto) è in quota Alfano. Inoltre, guida la società d’investimenti Equinox, azionista di Alitalia. 

Diva Moriani: Membro del consiglio d’amministrazione di Eni, azionista di Alitalia e consigliere d’amministrazione di i2 Capital partners sgr., società che fa parte del gruppo Kme Intek. Ai vertici di Kme Intek siede Vincenzo Manes, amico intimo (ma soprattutto finanziatore) di Matteo Renzi. 

Fabrizio Landi: Nominato nel consiglio d’amministrazione di Finmeccanica, si tratta dell’ex amministratore delegato di Esaote, che in passato ha versato 10mila euro per la Fondazione Open al fine di sostenere Matteo Renzi. 

Antonio Campo Dall’Orto: Consigliere d’amministrazione di Poste Italiane, ex vicedirettore di Canale 5 ma soprattutto sostenitore della Fondazione Open. 

Marta Dassù: Nominata membro del consiglio d’amministrazione di Finmeccanica, in passato è stata consigliere politico del Presidente del Consiglio Massimo D’Alema. 

Andrea Gemma: Nominato membro del consiglio d’amministrazione di Eni in quota Alfano.

E dire che erano stati interpellati ben due «cacciatori di teste» e addirittura una commissione di saggi capitanata da Cesare Mirabelli al fine di fornire i nominativi più idonei. Fatica sprecata: si sapeva fin dall’inizio che le regole che dominano questi giochi hanno ben poco a che fare con la competenza. La «spinta rinnovatrice» la si è vista nella rilevante quota femminile alla presidenza di ben tre aziende e di questo è giusto riconoscere il merito. Ma oltre a ciò Renzi ha dimostrato ancora una volta che il suo modo di agire non è quello del carro armato che va avanti senza guardare in faccia a nessuno: il suo modo di agire è quello dell’astuzia e della tattica atta a non scontentare nessuno. Lo abbiamo visto per i vari incarichi assegnati (sia al governo che nelle aziende) e lo vedremo anche nelle riforme.

domenica 13 aprile 2014

Berluscones





Ha fatto proprio bene Berlusconi a scegliere come sede della nuova Forza Italia lo storico Palazzo Fiano in piazza San Lorenzo in Lucina; infatti, proprio nelle stanze che ospitano l’ufficio di Berlusconi, nel XIX secolo si svolgeva un rinomato teatro di marionette (visitato anche da Canova, Verdi, Dickens e Donizetti), simpaticamente descritto coi seguenti versi dal poeta Giuseppe Gioacchino Belli: «Checca, sei mai stata al teatrino/ de burattini der Palazzo Fiano?/ Si vedi, Checca mia, tiengheno inzino/ er naso come noi, l’occhi e le mano/ c’è l’Arlecchin-batocchio, er Rugantino,/ er Tartaja, er Dottore, er Ciarlatano»(1). Non è difficile trovare delle similitudini tra gli spettacoli ridanciani e grotteschi di quelle marionette e le vicissitudini che accompagnano Forza Italia in questi mesi. Prima la diatriba tra «falchi» e «colombe», poi la scissione di Alfano, poi le liti interne tra i nuovi arrivati e la vecchia guardia, poi i dissidi nelle diverse realtà locali, poi l’insistenza di Fitto a candidarsi alle europee, poi i guai del ribelle Cosentino, poi l’imbarazzo del partito nel candidare Scajola, poi Toti che in un fuorionda confessa affranto che quello con Renzi è un «abbraccio mortale», poi la delusione di Bonaiuti, poi le polemiche sulle eventuali candidature dei figli, poi la first lady Francesca Pascale che si lascia andare a considerazioni e diktat, poi le bordate di Brunetta, poi i sondaggi sempre più impietosi, poi Dell’Utri che si nasconde in Libano per scampare all’arresto; il tutto condito dalle vicende giudiziarie di Berlusconi, ora condannato in via definitiva in attesa di scontare la pena. Insomma, sembra veramente di assistere a uno spettacolo popolare della commedia dell’arte.
Berlusconi, che ha visto la sua leadership sfaldarsi, è costretto a prendere atto che i suoi uomini sono spinti solo e soltanto da interessi personali, dei destini di Forza Italia (e quindi di Berlusconi) non gliene importa nulla a nessuno. Berlusconi voleva tentare la sfida di creare un movimento nuovo, fresco, giovane, compatto e combattivo sulla scia del Pd a guida Renzi e del MoVimento 5 Stelle. Ma si è dovuto presto ricredere: inserire nuove leve significa estromettere personaggi di vecchia data, e questo non è gradito. Inoltre, le nuove leve (pescate per lo più nel mare delle aziende familiari) si sono rivelate inadatte a mettere in moto una vera leadership e a dimostrare carisma e forza di volontà. Demoralizzato da questa situazione, l’ex-Cavaliere è finito per diventare sempre più succube del «cerchio magico» composto dalla sua fidanzata e dalla segretaria Maria Rosaria Rossi, le quali oramai spadroneggiano nel partito facendo il loro buono e cattivo tempo.
Il sogno di creare una rete di club sul territorio nazionale si è praticamente infranto di fronte alle difficoltà burocratiche che occorrono per aprire questa specie di luoghi di aggregazione. Come se non bastasse, la gestione dei club è stata affidata (sempre in nome del principio «lasciamo spazio alle facce nuove») a un personaggio come Marcello Fiori. Fiori, 53enne ex-braccio destro di Bertolaso, è passato agli onori delle cronache all’epoca in cui faceva il commissario straordinario a Pompei sia per un’indagine della magistratura (l’accusa è di «abuso d’ufficio continuato»), sia per il suo bizzarro modo di gestire le spese connesse al sito archeologico. Tra queste spese si segnalano mille bottiglie di vino «Villa dei Misteri» pagate 55 euro cadauna (per due terzi dimenticate in un magazzino), 5.775.256 euro alla Wind per la fornitura di linee telefoniche, 3.164.282 euro alla stessa società per il progetto «Pompei viva», 102.963 euro per il progetto «(C)Ave Canem» il cui scopo era censire e curare 55 cani randagi (sono stati spesi quasi duemila euro per ogni animale), 81.275 euro per l’«organizzazione accoglienza per visita presidente Consiglio» (visita che non c’è mai stata), 12.000 euro per la rimozione di diciannove pali della luce, 1.776 euro per le «divise degli autisti a disposizione del Commissario». Dulcis in fundo, 10.929 euro per «ideazione, sviluppo e rilegatura di n.50 copie del documento Piano degli interventi e relazione sulle iniziative adottate dal commissario delegato». 218 euro per ogni copia di un libro che narra le prodezze della gestione di Fiori. Gestione che, stando all’Osservatorio, dei 79 milioni di euro messi a disposizione soltanto un 20% è servito per mettere in sicurezza il prezioso sito. E tralascio volutamente l’orrida riparazione del Teatro Grande, fatta con cordoli di cemento armato e mattoni di tufo(2).
Altra «faccia nuova» (ma tutt’altro che presentabile) è quella del senatore, ex-poliziotto ed ex-presidente del Consiglio Regionale Claudio Fazzone, 52enne nominato coordinatore regionale di Forza Italia nel Lazio. Fazzone è il padrone indiscusso della provincia di Latina, dove alle Regionali del 2000 ebbe più preferenze di tutti i candidati dei Ds messi insieme. Il cuore del suo regno è la sua città natale, Fondi, sede di uno dei più importanti mercati ortofrutticoli d’Europa. Un business di tutto rispetto, tant’è vero che vi sono sospetti di infiltrazioni di attività camorristiche al suo interno; sospetti talmente forti che nel 2009 il prefetto di Latina chiese addirittura lo scioglimento del Comune di Fondi per infiltrazioni mafiose (scioglimento evitato proprio per le forti pressioni di Fazzone sull’allora governo di centrodestra).
Non solo: l’influenza di Fazzone ha fatto in modo che in passato lo Stato elargisse la generosa cifra di 983.000 euro per la società S.I.L.O. srl, di cui Fazzone è socio e il cui bilancio degli ultimi due anni era pari a zero. Visto che questi soldi (oltre al lauto stipendio di senatore) non gli bastavano per condurre una vita dignitosa, Fazzone ha pensato bene di farsi eleggere Presidente di una società che gestisce il ciclo idrico della Provincia di Latina ricevendo un compenso di 100-150mila euro annui.  Ma Fazzone, bisogna riconoscerglielo, pensa anche agli amici: è un caso che l’ex-sindaco di Fondi Onoratino Orticello, in difficoltà economiche, sia diventato improvvisamente consigliere regionale del Lazio quando il Presidente del Consiglio Regionale era proprio Fazzone? È un caso che tre anni fa venne condotta un’indagine giudiziaria che sospettava di raccomandazioni nella Asl di Latina in cui era coinvolto lo stesso Fazzone? (3)
Fiori e Fazzone sono due esempi di personaggi scelti per portare una «ventata d’aria fresca» all’interno di Forza Italia. Non sapendo se ridere o piangere, forse è meglio ridere ripensando a queste autentiche incarnazioni delle marionette di Palazzo Fiano le cui avventure furono descritte da Ippolito Taine come «amara buffonata». Oltretutto, stando a quanto racconta Dickens, il burattinaio di Palazzo Fiano era Filippo Teoli, uomo sempre incline alle battute, costantemente assillato da problemi con la giustizia e demiurgo del personaggio Cassandrino, ricco borghese circondato da scrocconi e rovinato dalle donne.
Non ci resta che concludere con i versi di Gioacchino Belli: «Li teatri de Roma so’ ariuperti/ ciové la Valle e ‘r teatrino Fiani./ E quant’a Cassandrino li romani/ dicheno a chi ce va: lei se diverti».

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(1) da Filippo Ceccarelli, su «La Repubblica» del 20/09/2013. I versi sono tratti dalla poesia «Li burattini» scritta nel 1831
(2) la storia è stata raccontata da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera» del 09/12/2013, coadiuvata da un’inchiesta de «L’Espresso»
(3) le vicende sono state tratte da un articolo di Sergio Rizzo sul «Corriere della Sera» del 04/01/2014