giovedì 27 novembre 2014

Le cronache di «Repubblica»



«Repubblica» non è un giornale come tutti gli altri, «Repubblica» è il primo quotidiano nazionale. Ma «Repubblica» non rappresenta soltanto un organo d’informazione, è un baluardo, un simbolo, un apparato di potere in grado di decretare (come manco ai tempi di Nerone) la sorte della politica progressista italiana. Illuminante il ritratto che ne traccia il giornalista Claudio Cerasa: «La vera coscienza culturale della sinistra. Il vero azionista di riferimento del mondo progressista. Un giornale, o meglio una corazzata, che meglio di chiunque altro condiziona le scelte politiche della sinistra. Che meglio di chiunque altro influenza il percorso della sinistra. Che meglio di chiunque altro riesce a imporre una leadership rispetto a un’altra.
Mai un leader di centrosinistra è diventato leader del centrosinistra senza avere il sostegno di questo giornale. Ma allo stesso tempo, mai un politico diventato leader del centrosinistra anche grazie alla spinta ricevuta da questo giornale è riuscito a essere contemporaneamente maggioranza della sinistra e maggioranza del Paese. Da questo punto di vista il successo editoriale del quotidiano di cui stiamo parlando è clamoroso. Ed è difficile trovare in giro per il mondo giornali come questo che siano riusciti nella non facile impresa di far coincidere la voce della sinistra con quella del più grande giornale della sinistra». Nonostante questo suo potere, coadiuvato anche dalla presenza di alcune delle migliori firme del giornalismo italiano (Ilvo Diamanti, Filippo Ceccarelli, Federico Rampini, Mario Pirani, Federico Fubini, Corrado Augias e altri ancora), «Repubblica» da quando è principiato il cataclisma della crisi economica si è ritrovata immersa in un'infinita sequela di problemi, a cui in questi lunghi anni ha cercato di porre rimedio seguendo un percorso rocambolesco e avventuroso. Potrebbero scriverci un romanzo, e magari intitolarlo «Le cronache di “Repubblica”», sulla scia del celebre «Le cronache di Narnia». La lunghezza dello scritto, potete starne certi, sarebbe simile.

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Partiamo dal Capodanno 2009: il quotidiano è nel pieno della sua crisi, la tiratura è talmente scarsa che il dominus del giornale, la Cir della famiglia De Benedetti, è tentata di abbandonare la proprietà della testata: occorrerà un feroce scontro generazionale tra il padre Carlo e il figlio Rodolfo (fautore della vendita) prima che il proposito venga abbandonato. Assai indicativo della cupidigia di quel frangente temporale è il fatto che il settimanale «L’Espresso», altro organo della Cir, deciderà d’interrompere la pubblicazione dei dati di vendita dei quotidiani. Il calo di tiratura registrato da «Repubblica» era talmente imbarazzante da costringere il direttore Ezio Mauro non solo a chiedere la censura dei numeri, ma di farlo anche in una maniera talmente brusca da rendere palpabile l’atroce affronto che quei numeri rappresentavano per lui. Il giornalista Giampaolo Pansa racconta: «Un giorno, mentre usciva da “Repubblica” per la pausa pranzo, [Ezio Mauro, ndr.] s’imbatté in uno dei vicedirettori dell’Hamaui [all’epoca direttrice de “L’Espresso”, ndr.]. E gli disse, a brutto muso: “Quando la smetterete di rompermi i coglioni con i dati della Fieg?”. Bastò quella domanda ringhiosa per far sparire la rubrica per sempre».
All’improvviso, però, arrivò il miracolo. L’ex-moglie dell’allora premier Silvio Berlusconi, Veronica Lario, spedisce una lettera al giornale scagliandosi ferocemente contro la condotta privata del Caimano. Una manna dal cielo, la pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno, il Santo Graal: nessuna metafora può eguagliare cosa significò quell’evento per le sorti del quotidiano. Le vicende sessuali del Cavaliere divennero il carburante per far ripartire la macchina. Venne ingranata subito la marcia più alta: tra la primavera e i primi di giugno del 2009 «ItaliaOggi» stimò che «Repubblica» affrontò la vicenda di Noemi (la minorenne che si sospettava legata in maniera ambigua al premier) per 2236 volte. Leggenda vuole che le vendite subirono un’impennata di 30mila copie. Da allora la corazzata «Repubblica», compatta come una testuggine romana, senza sbavature, voci contrarie o grandi divagazioni, concentrò tutta la sua attenzione su un unico bersaglio: il Caimano, con particolare predilezione per la sua attività erotica. Questo tsunami editoriale trascinò bruscamente il Pd di Franceschini, costringendolo (con deludenti risultati elettorali) a inseguire la linea di «Repubblica»; e trascinò con sé anche «L’Espresso» della signora Hamaui il quale, in preda alla ormai assuefante Silvio-mania, tra il febbraio del 2009 e il marzo 2010 pubblicò (dati di «ItaliaOggi») 21 copertine con stampata sopra la faccia del Cavaliere.
Un’azione la cui coordinazione e tenacità lasciò stupefatti. L’ex-direttore de «l’Unità» Peppino Caldarola scrisse su «Il Riformista» del 10 ottobre 2009: «I giornalisti di “Repubblica” parlano tutti allo stesso modo. È forse il primo caso nella storia del giornalismo italiano di una così totale identificazione con le ragioni della propria testata. Sembrano usciti tutti dalla stessa scuola quadri. Sembrano tutti felicemente aderenti al centralismo democratico del nuovo giornale-partito. In anni neppure lontani, era difficile trovare due giornalisti dell’“Unità” che la pensassero allo stesso modo. Il miracolo è riuscito a Ezio Mauro che ha selezionato una burocrazia di dirigenti politici da far invidia a quella esangue dei partiti». Splendido epiteto, quello di «giornale-partito», che indica un’altra caratteristica della «Repubblica» di quei mesi: la fedeltà o, per meglio dire, il fanatismo di una frangia di lettori. Fermamente convinti che «Repubblica» fosse l’unico organo mediatico, ma anche politico, resistente all’avanzata berlusconiana (in realtà i giornali a favore del Cavaliere si potevano contare sulle dita di una mano) e imbevuti dell’enfasi semplicistica del quotidiano, alcuni pasdaran si abbandonarono a idee e proposte strabilianti. Ecco gli stralci di alcune lettere pubblicate dal giornale nel settembre 2009: «Perché non ci inventiamo un segnale da mettere sui nostri balconi per far vedere al Paese quanti siamo?» (Elisabetta Salvatori), «Propongo la nascita di un movimento con sedi in tutta Italia» (Pino Quarta), «Una bella idea sarebbe quella di creare un segno di riconoscimento. Da esporre da parte di tutti coloro che condividono questa battaglia per la libertà di stampa» (Rita Bega e Manuel Lugli) e molte altre ancora.
Lo stesso Carlo De Benedetti confessò che «Repubblica» gli ricordava ormai un «disco rotto» e che «se il Cavaliere fa “cucù” alla signora Merkel, la cancelliera tedesca, per tre giorni leggiamo su “Repubblica” sempre lo stesso editoriale». Un astio facilmente ricomponibile se si pensa che fu proprio in quei mesi, intorno al settembre 2010, che «Repubblica» divenne il primo giornale italiano con circa 510mila copie vendute. «Noi a “Repubblica” siamo grati a Berlusconi per averci dato la possibilità di informare bene più persone» fu costretto ad ammettere De Benedetti durante una lezione, «il 10% in più quando il Cavaliere dice cose pazze. E circa il 2% in più nelle situazioni normali».

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La pacchia però non era destinata a durare in eterno: di lì a un anno la preoccupante tempesta finanziaria che si accanì sui titoli di debito costrinse Berlusconi (ormai privo della maggioranza parlamentare) ad abbandonare repentinamente il governo prima che per l’Italia si aprissero scenari apocalittici. La flebo che teneva in vita il giornale si esaurì e la testuggine no-Cav fu costretta ad un tormentato «rompete le righe», relegando «Repubblica» ad un insofferente appoggio al Pd (di cui, secondo la sarcastica definizione di Giuliano Ferrara, De Benedetti rimane pur sempre «la tessera numero 1»). Passa qualche anno e la situazione si fa ancora più drammatica: Silvio Berlusconi non solo diventa padre costituente (e in un quotidiano da sempre schierato sulla linea della «Costituzione più bella del mondo» non ci può essere incubo peggiore), ma lo fa in «profonda sintonia» con il nuovo leader della sinistra, Matteo Renzi.
Forte della sua supremazia sul mondo antiberlusconiano, «Repubblica» ha sempre snobbato i leader del Pd: De Benedetti nel corso del 2010 definì Bersani «leader totalmente inadeguato» e accusò D’Alema non solo di «stare ammazzando il Partito democratico» ma anche «di non aver fatto niente nella vita» (nel corso del botta e risposta successivo arrivò a definirlo nientemeno che «un problema umano»). Parere analogo a quello di Ezio Mauro: la sua insoddisfazione verso la leadership del Pd apparve in tutta la sua chiarezza quando dichiarò che «anche a sinistra è arrivata l’ora del Papa straniero» per poi specificare qualche mese più tardi su «L’Espresso»: «Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità. Che offra una speranza di cambiamento e di vittoria». Ironia della sorte, in quello stesso anno Matteo Renzi tagliò il nastro della corsa per la «rottamazione» e, ancora più sorprendente, lo fece proprio durante un’intervista rilasciata a «Repubblica». Eppure l’allora sindaco di Firenze non suscitò grande entusiasmo tra le firme del quotidiano: solo Riccardo Liguori e Claudio Tito (il quale instaurò ben presto un solido rapporto personale con l’ambizioso giovanotto) avevano capito che quello era un cavallo su cui puntare. Successivamente si aggiunse anche Goffredo De Marchis. Il resto della redazione restava titubante: nel settembre 2010 lo storico padre di «Repubblica», Eugenio Scalfari, liquidò il programma di Renzi come «carta straccia» e ancora nel 2012 De Benedetti, parlando sempre del giovane Matteo, asserì: «Non ci serve un Berlusconi di sinistra». La fedeltà a Bersani si manteneva svogliata ma intatta, alimentata dalla spavalda insofferenza che Renzi, in nome della lotta ai corpi intermedi, per lungo tempo ha nutrito pubblicamente verso la carta stampata (solo pubblicamente, perché in privato non sfugge mai alla lettura dei quotidiani; del resto, lui stesso da adolescente ha diretto il giornaletto scout «Ancora in cammino») al punto tale che, una volta al governo, più di un direttore di quotidiani è arrivato a lamentarsi avvilito: «Ma come, Enrico [Letta, ndr.] mi mandava un sms ogni mattina, mentre questo mai, niente».
Il cambio di rotta iniziò lentamente durante le primarie del 2012. De Benedetti ammise sì il suo voto a Bersani, ma aggiunse: «Su Renzi mi sono sbagliato: ha più stoffa di quel che pensassi». I risultati delle elezioni 2013 accelerarono la manovra: ben presto la compagine di «Repubblica» si schierò compattamente a favore di Renzi, primo fra tutti il capitan Ezio Mauro. Anche De Benedetti nel corso del 2013 dichiarò entusiasta: «L’unico leader spendibile al momento è Renzi. È una persona nuova, pragmatica, che ha fatto il sindaco ed è giovane». Rimanevano alcune pesanti voci fuori dal coro: Eugenio Scalfari (ancora il 28 settembre 2014 scrisse che Renzi «è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci») e l’esperto di economia Federico Fubini. L’approdo dell’analista Stefano Folli dal novembre 2014 dovrebbe rappresentare un’altra voce non esattamente allineata con l’esecutivo in carica. In generale, però, è tutta la redazione (da qualche settimana a questa parte) a vivere in piena crisi d’identità: un prolungato sostegno a Renzi rischia di rivelarsi controproducente. Succube di questo atroce dilemma e di un irrefrenabile calo di lettori, la saga di «Repubblica» per ora si ferma qui. L’avvincente romanzo proseguirà, questo è poco ma sicuro. La corazzata «Repubblica» garantisce sempre sorprese. 

domenica 23 novembre 2014

I tormenti di Viale Mazzini



Risale a mercoledì scorso una notizia totalmente inaspettata: il Consiglio d’amministrazione della Rai ha accolto la proposta di fare ricorso contro la scelta governativa di tagliare 150 milioni di euro all’azienda per coprire finanziariamente il bonus fiscale da 80 euro.
Una richiesta, quella dei 150 milioni, che si accompagna ad altre scelte a loro modo rivoluzionarie compiute dalla Rai negli ultimi tempi: l’abbassamento degli stipendi dei manager, deciso sempre dall’attuale esecutivo, ha costretto fra gli altri il direttore generale Luigi Gubitosi ad una bella potatura della sua retribuzione, passata improvvisamente da 650mila a 240mila euro annui; tra il 2011 e il 2013 il costo dei divi del piccolo schermo è stato ridotto dell’8%; nello stesso arco di tempo i servizi telefonici sono stati più che dimezzati (-55,5%); il peso economico delle scenografie è precipitato del 37%, e via di questo passo. Scelte dolorose ma a quanto pare insufficienti se si considera il fatto che il bilancio continua ad essere traballante, le pubblicità non garantiscono più le entrate di un tempo, il canone rimane la voce principale (1,7 miliardi l’anno, nonostante un evasione stimata al 30%) e la tecnologia non è di certo al passo coi tempi.
Nonostante tutto ciò, le principali sacche di privilegio continuano imperterrite a resistere nei confronti di qualsiasi assalto: gli accampamenti politici non hanno alcuna intenzione di alzare bandiera bianca, arrivando al punto che oramai la Rai è l’unica azienda televisiva pubblica al mondo dove esistono tre telegiornali ognuno dei quali fermamente legato al proprio gruppo politico di riferimento, con la naturale conseguenza di ritrovarci con tre distinte strutture, tre distinti team d’inviati, tre distinti direttori, tre distinte squadre di tecnici e tre distinti bilanci. Sui metodi di selezione del personale è meglio stendere un velo pietoso, ci si accontenti di leggere quanto scrive il gruppo di esperti coordinato da Massimo Bordignon all’interno del dossier per la spending review di Carlo Cottarelli: «A ogni cambio di governo o maggioranza e a ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono tre-quattro tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che, ad esempio, nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». Nemmeno un anno fa il deputato Pd Michele Anzaldi denunciava pubblicamente i risultati di questa pratica scriteriata: su 113 giornalisti del Tg1 ci sono più caporedattori (34) che redattori ordinari (32).
Visto però che tre carrozzoni del genere non erano sufficienti, nel corso del tempo si è aggiunta RaiNews24 (la cui piattaforma web è uno degli ultimi siti d’informazione per numero di consultazioni) e, dulcis in fundo, 26 sedi regionali. Ed è proprio in queste ultime strutture che spiccano i peggiori difetti della nostra industria televisiva (quinto gruppo culturale del continente, non dimentichiamolo), primo fra tutti l’asservimento nei confronti delle classi politiche locali. Spesso anche le più minute, se si pensa che la presenza di 26 sedi comporta l’installazione di redazioni Rai in località come Perugia, Campobasso e Potenza, arrivando al punto che alcune Regioni hanno l’onore di ospitare addirittura più sedi regionali: il Veneto dispone di Venezia e Verona, la Sicilia di Palermo e Catania e il Trentino Alto-Adige di Trento e Bolzano.
Non pensiate, inoltre, che tali sedi siano appartamenti austeri: fatta eccezione per la pericolante stazione di Cagliari, parliamo di palazzoni ovviamente di proprietà tra cui spicca la sede regionale di Genova, un maestoso grattacielo di dodici piani di cui se ne vengono occupati tre è già grasso che cola. Senza parlare dei dipendenti: le sedi regionali della Bbc (quindici in tutto, occupanti strutture che non superano i due piani) non occupano più di 1500 organici. Le sedi regionali della Rai superano i 2000. La sede locale più piccola della Bbc, quella delle Channel Island, occupa due dipendenti. La sede più piccola della Rai, quella di Campobasso, ne occupa 70. A Cosenza ce ne sono 95, contenuti in un palazzo simile a quello romano di Viale Mazzini.
Tutto questo dispendio (i giornalisti della Rai sono in tutto 1700) per produrre, come sentenziato dalla giornalista Milena Gabanelli, «tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi su sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale». Nemmeno paragonabile a quanto avviene nel Regno Unito, dove tutti i servizi globali vengono inglobati da Bbc One che li trasmette in quattro brevi collegamenti al giorno. È doveroso aggiungere che il canone della Bbc ha un costo notevolmente più elevato rispetto al nostro (174 euro contro 113), ma qualche spunto per razionalizzare la spesa l’emittente della perfida Albione lo offre ugualmente.
Andando a scavare un altro po’ tra i meandri aggrovigliati della televisione pubblica ci si imbatte anche in altre strutture di ambigua utilità. Prendiamo Rai Vaticano: tutto nasce nel 1997, quando un manipolo di dipendenti si assume l’onere, senza budget e occupando solamente due stanze, di comunicare con la Santa Sede al fine di preparare il Giubileo e fornire contenuti da vendere eventualmente anche ad altre emittenti fuori dai confini nazionali. Terminato l’evento planetario, il team, invece di congedarsi dall’incarico si è trasformato in una pesante struttura, con tanto di dirigenti, funzionari e con mansioni ignote. Passando dal potere celeste al potere temporale, una vicenda simile è accaduta con Rai Quirinale, munita di un direttore e 35 dipendenti la cui utilità è ristretta in pochi minuti all’anno, quelli del discorso del 31 dicembre del Capo dello Stato e quelli delle celebrazioni del 2 giugno.
Sorte analoga rischia di essere quella di Rai Expo, partita in quarta con una dirigenza e 45 dipendenti con il compito di svolgere un lavoro (seguire l’esposizione universale) che si sarebbe potuto affidare senza problemi alle sedi regionali le quali, come abbiamo visto, non difettano certo di strutture e personale. In un paese dove la ricchezza individuale è crollata in pochi anni dell’11,5%, dove il Pil ha visto una picchiata del 9%, la disoccupazione tormenta metà dei giovani e il numero di famiglie povere corrisponde nel Mezzogiorno al 70% del totale certe rinunce di alcuni ambiti della spesa pubblica dovrebbero rappresentare quasi un dovere. Altro che ricorsi.

mercoledì 19 novembre 2014

Legge di stabilità: nuovo verso, vecchi vizi

La lotta a criminalità ed evasione fiscale porta alla perdita di una delle fasce più consistenti di elettorato, una seria revisione della spesa pubblica rischia di essere impopolare e foriera di vibranti proteste in molti gangli della pubblica amministrazione, le privatizzazioni sono rischiose e richiedono un’elevata dose di delicatezza e attenzione, creare nuovo debito lo si può fare solo entro limiti inflessibili (ancora per poco: col Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione non ci sarà concesso nemmeno quello) e comporta un costo in termini d’interessi sui titoli di Stato (che ogni anno ci divorano circa 85 miliardi). Di conseguenza, anche se può apparire (e di fatto lo è) un paradosso, l’unica strada per partorire una manovra economica espansiva è aumentare le tasse. Possibilmente senza dare nell’occhio, magari camuffando il tutto con una bella spolverata di slide rassicuranti e con un pizzico qua e là di provvedimenti spot, e il piatto è servito.
La legge di Stabilità di quest’anno si prospetta esattamente in questo modo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, nell’audizione del 4 novembre alla Camera dei Deputati, lo ha detto chiaro e tondo: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2% del 2015». Una leggerissima variazione momentanea, destinata ad accrescersi nel corso dei prossimi anni, almeno a quanto scrive il giornalista Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 22 ottobre: «Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018». Mica bruscolini. E queste sono pure delle stime ottimistiche, dato che non tengono conto dei probabili aumenti della tassazione regionale dovuti ai tagli imposti da questa manovra agli enti locali.
Questo, almeno, è quanto si prevede: con il governo Renzi è compito assai arduo analizzare con cura l’attività legislativa. Sotto la spessa coltre fumogena di dichiarazioni, incontri, mediazioni (poche) e anticipazioni giornalistiche (troppe) si danno per assodati elementi che non lo sono: il Jobs Act è ancora un foglio bianco da riempire nei prossimi mesi coi decreti delegati, il testo dell’Italicum è ufficialmente lo stesso del marzo scorso (con liste bloccate, soglie differenziate di entità poderosa e premio alla coalizione che raggiunge almeno il 37% dei consensi), la «buona scuola» è uno striminzito elenco di punti che ha la stessa validità di un Kleenex usato, e via di questo passo. Per la legge di Stabilità la situazione non è molto diversa: le norme sono state approvate dal Consiglio dei Ministri, ma (come tradizione impone) il balletto delle modifiche si vedrà durante i vari passaggi in Aula (che fra l’altro si prospettano ristretti, vista la priorità dichiarata di concentrare il lavoro parlamentare delle prossime settimane esclusivamente sul Jobs Act). Fatto questo ampio preambolo, concentriamoci su alcuni contenuti di questa legge, o quantomeno sulla sua bozza.

Il giornalista Vittorio Malagutti, su «L’Espresso» del 6 novembre, traccia una descrizione angosciante: «Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum», mentre in questo caso i danni non solo sarebbero permanenti, ma si ripercuoterebbero in maniera retroattiva su tutto il 2014.
Facciamo una breve premessa: gli italiani sono sempre più propensi al risparmio: vivendo nella quasi totale incertezza sul nostro futuro economico, ci siamo sempre più convinti che sia meglio comportarsi da formichine, con l’effetto da un lato di deprimere i consumi e dall’altro di iniettare i fondi d’investimento con una notevole mole di capitale: nei primi nove mesi del 2014 si sono riversati qualcosa come 97 miliardi, un dato strabiliante se confrontato coi 55 miliardi del 2013. Un salvadanaio per il futuro che rischia di venir razziato dalle compagini renziane in nome dell’incentivo ai consumi. Bizzarro modo di agevolare i consumi se con una mano si tassa il risparmio e con l’altra si rende sempre più incerto il futuro fiscale, lavorativo e a questo punto anche patrimoniale dei cittadini. La prima cannonata al risparmio era stata sparata in occasione del decreto Irpef dell’aprile scorso (il decreto sugli 80 euro, per intenderci) il quale fra le altre misure portava dal 20 al 26% la tassazione sulle rendite finanziarie. Un’azione tutto sommato innocua, che ci conforma alla media europea e che secondo i calcoli della Cgia di Mestre dovrebbe pesare, considerando che la media nazionale dei conti correnti è di 12mila euro, solo 93 centesimi all’anno. Un’inezia se confrontata con la mannaia destinata nel giro di qualche mese a piombare sui nostri risparmi. Prosegue Malagutti: «Alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5% dei proventi». Ma non solo: la tassazione sui dividendi azionari è passata dal 20 al 26%, il prelievo sulla rivalutazione del Tfr in azienda è passata dall’11,5 al 17%, la tassazione sui fondi pensione è passata dall’11,5 al 20%, i conti di deposito hanno visto passare la loro tassazione dal 20 al 26%, così come le gestioni patrimoniali, i fondi d’investimento, i depositi bancari e postali, le obbligazioni italiane e le casse professionisti (queste ultime d’ora in poi saranno soggette, unico caso in Europa, ad una doppia tassazione). E pensare che il Presidente di Assofondipensione Michele Tronconi, confrontandosi qualche mese fa con Padoan, aveva ricevuto non solo rassicurazione, ma addirittura la promessa di agevolazioni per questo tipo di previdenza. Ma dall’esecutivo nato sotto l’insegna dell’#enricostaisereno non ci si poteva aspettare nulla di buono: altro che incentivo, il prelievo fiscale sui fondi pensione è stato quasi raddoppiato, con tutte le conseguenze che una scelta del genere comporterà nei prossimi anni. Tullio Jappelli, che dirige il Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche all’Università Federico II di Napoli, asserisce: «Il risparmio previdenziale merita attenzione perché è l’unico che consente di proteggerci dal cosiddetto rischio di longevità, cioè che la vita effettiva sia più lunga di quella attesa, con il rischio che gli anziani non abbiamo risorse sufficienti per i loro consumi».
Risparmio ma non solo: i modi per saziare il Fisco si estendono anche ad altre norme apparentemente di carattere diverso, prima fra tutte la possibilità da parte del lavoratore di farsi anticipare il proprio Tfr in busta paga.

Come spiega sempre Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 4 novembre: «Il trattamento di fine rapporto oggi è soggetto a una tassazione separata, che è di solito inferiore a quella dei redditi Irpef (di fatto è l’aliquota media effettiva dei cinque anni precedenti). Una volta entrato in busta paga, invece, il gruzzoletto verrebbe tassato ad aliquota marginale, che in funzione del reddito dichiarato può arrivare anche al 43%»; insomma, al Tfr entrato in busta verrà applicata l’aliquota che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscillante tra il 23 e il 43%) mentre se si opta per incassarlo, com’è sempre stato, a fine carriera, l’aliquota applicata è notevolmente inferiore (tra il 23 e il 33%). Inoltre, secondo l’ex-dirigente dell’Inpdap Maurizio Benetti, l’operazione del Tfr in busta paga non converrebbe nemmeno a coloro che beneficiano dello scaglione di aliquota più bassa (quella al 23%) poiché calerebbero le detrazioni da lavoro dipendente, e di conseguenza «l’aliquota effettiva sul Tfr in busta paga sarebbe del 27,5%».

L’andamento della tassazione di alcune branche del risparmio, da «L’Espresso» del 06/11/2014


Nemmeno le partite Iva possono dormire sonni tranquilli: viene riformato il cosiddetto regime dei minimi allargando la platea e ponendo il limite di reddito di 15mila euro per i professionisti e di 40mila euro per i commercianti e portando l’aliquota dal 5 al 15%. Come scrive Enrico Marro sul «Corriere della Sera» del 19 ottobre, i commercianti «sarebbero avvantaggiati mentre i professionisti, osserva lo stesso sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, si vedrebbero dimezzata la soglia di fatturato e triplicata l’aliquota di prelievo».

I sostenitori del governo obietteranno che si è fatto molto sul versante delle tasse sul lavoro. Spesso però si omettono alcuni particolari: a parte il fatto che l’abbattimento dell’Irap (per usare le parole di Malagutti) è «rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di Stabilità», questa operazione annulla la precedente riduzione applicata in occasione del decreto Irpef. Non solo: la norma riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato, di conseguenza per i contratti a tempo determinato e per le altre voci della base imponibile (profitti e interessi passivi) l’aliquota passa dal 3,5 al 3,9%. Stante tutto ciò, secondo i calcoli del giornalista Enrico Marro, il taglio complessivo dell’Irap non supererebbe i 2,9 miliardi (una somma ben diversa rispetto ai 5 miliardi sbandierati dal premier).

Passiamo all’abbattimento dei contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato: qui non si conosce l’entità dello stanziamento. Si parlava di un miliardo, che potrebbero divenire quasi due se si tiene conto della soppressione degli sconti sulla stabilizzazione degli apprendisti e degli sconti sull’assunzione di disoccupati da più di 24 mesi. Volendo essere ottimisti prendiamo la somma di 1,9 miliardi, dividiamola per 6.200 (l’importo della contribuzione) e otterremo 306.451, i quali rappresentano nient’altro che i contratti attuabili con questa operazione. Sapete quanti sono i contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2013? Secondo il Ministero del Lavoro sono stati 1.584.516, leggermente di più rispetto ai 300mila consentiti dai fondi messi a disposizione dalla manovra.

Anche i fondi per la Cassa integrazione in deroga si rivelano assai striminziti: vengono stanziati 1,5 miliardi, la metà rispetto a quanto speso nel 2013.

Passiamo alle Regioni: il governo, probabilmente con troppa superficialità, ha richiesto 4 miliardi di euro. Spazi di manovra nelle spese regionali ce ne sarebbero. Tanto per dare un’idea, il governatore della Lombardia Roberto Maroni darà vita a breve a un referendum consultivo, incostituzionale e con l’obbligo di passare al vaglio del Parlamento nazionale, al fine di ottenere un opaco «statuto speciale di regione autonoma». Uno scherzetto dal sapore marcatamente elettorale che costerà ai lombardi qualcosa come 30 milioni di euro. Oppure, passando nel versante opposto (sia geograficamente che politicamente) la Puglia di Nichi Vendola assumerà a breve una nutrita pattuglia di 379 precari degli uffici regionali e di 518 precari delle partecipate regionali, senza uno straccio di concorso o di valutazione in base a requisiti di merito (come richiederebbe la legge). Un regalo (a pochi mesi dalle elezioni regionali, vedi un po’ le coincidenze) che peserà sulle tasche dei pugliesi per circa 31 milioni di euro. Dato però che di toccare certe spese proprio non si vuole sentir parlare, gli aumenti delle tasse regionali hanno una probabilità assai elevata: basti solo pensare che da gennaio sarà possibile portare l’aliquota Irpef dal 2,33 al 3,33% (nel Lazio la decisione è stata di fatto già adottata).

Tutto ciò senza contare il fatto che il gettito stimato derivante dalla lotta all’evasione è soltanto empirico e che il via libera da parte dell’Europa è ancora traballante. Se uno di questi due aspetti dovesse creare problemi scatterebbero in automatico le clausole di salvaguardia. Che consistono, lo avrete già capito, in nuove tasse.

sabato 15 novembre 2014

Fondata sulle tasse



Per quel tessuto connettivo di imprese oneste che ancora riesce a sopravvivere nonostante la morsa fatale di banche, criminalità e adempimenti statali di ogni genere, novembre non sarà il mese del ponte dei morti, né il mese del Jobs Act e tanto meno il mese della probabile chiusura del «patto del Nazareno». Il mese di novembre viene ricordato per un numero, 119. Tanti sono gli adempimenti fiscali che attendono i titolari di partite Iva da qui fino al primo di dicembre per poi, come nel tradizionale gioco dell’oca (in fin dei conti si tratta sempre di spennare), ricominciare da capo al punto tale da far calcolare alla Confesercenti che tra fine settembre e fine dicembre ci siano qualcosa come 187 adempimenti fiscali. Due tasse al giorno. Diego Lorenzon, presidente dell’azienda veronese Poolmeccanica Lorenzon Spa, ha provato a stilare un elenco: Cimp, Inail, Inps, Irap, Ires, Irpef, Iva, Tosa, tassa sui passi carrai, tassa sui rifiuti, tassa sulle bonifiche (ma nel frattempo sopravvive anche la tassa sulle paludi varata con regio decreto del 1904), tassa sulle proprietà, tassa sulle pubblicità, tassa sulla concessione per le frequenze, tasse sul contributo per riciclaggio, tasse sul risanamento ambientale, imposte sulle carte di credito, imposte catastali, imposte di fabbricazione, imposte sugli intrattenimenti, imposte di registro, imposte sulle successioni, imposte di bollo, imposte sulla Camera di commercio e imposte sugli oneri bancari passivi. Fortuna che non deve adempiere anche la tassa sull’ombra, pagata dagli esercenti che osano oscurare il marciapiede con la loro tenda, e fortuna che il suo comune non applica la tassa sui gradini (che devono versare i proprietari d’immobili con scalini che vanno sulla strada) o la tassa sui cani (da 20 a 50 euro per ogni Fido). Il rosario di doveri verso il Fisco ovviamente non si limita alle attività prettamente lavorative, ma si estende anche agli svaghi: se Lorenzon volesse usare il suo tempo libero andando a caccia dovrebbe pagare la concessione governativa di 115 euro per adoperare il fucile, se preferisse invece andare a pescare dovrebbe pagare la concessione governativa sulla canna da pesca (gli andrebbe peggio: qui si tratta di 173,16 euro), se invece volesse andare a raccogliere i funghi il Fisco lo inseguirebbe anche in mezzo ai boschi per fargli pagare l’imposta di bollo sui permessi di raccolta di chiodini e porcini. Se invece la sua predilezione fosse una più sedentaria partita della nazionale davanti alla tivù, conviene che ci pensi bene prima di esporre la bandiera fuori dal balcone: un albergo del nord è stato tassato anche per questo.
Quando Lorenzon passerà a miglior vita, sappia che il Fisco non si dimenticherà di lui: a parte il fatto che qualche comune potrebbe applicargli la tassa sui tumuli, si ritroverebbe comunque tra capo e collo la tassa (35 euro a cui si aggiunge un bollettino postale) per il rilascio del certificato di constatazione di decesso da parte dell’ufficiale sanitario dell’Asl e il diritto fisso sul decreto di trasporto dei defunti (58 euro, più un paio di marche da bollo). Solo per la cremazione sono richieste due imposte di bollo: una sulla domanda di affido personale delle ceneri e una sul provvedimento di autorizzazione. Nemmeno a funzioni concluse il Fisco si dimentica della buonanima: nel solo 2008 sono state spedite due milioni e mezzo di cartelle esattoriali a casa di persone decedute, e quando non si riesce a reperire il defunto ci sono sempre i congiunti a disposizione: l’Agenzia delle entrate potrebbe richiedere l’attestato di pagamento dei funerali. Se sei stanco di tutto questo e decidi di rivolgerti contro la pubblica amministrazione, sappi che anche tutte le tappe del ricorso sono regolarmente soggette a imposta.
Non bisogna quindi sorprendersi se uno studio a cura di Riccardo Fenochietto e Carola Pessino pubblicato l’anno scorso dal Fondo monetario internazionale riveli che il Tax Effort (traducibile come «sforzo fiscale») abbia toccato il tetto massimo: considerato 1 «il massimo livello di entrate fiscali che un Paese può ottenere» l’Italia si collocava nel 2011 a 0,99. Nessun altro Paese avanzato, pur disponendo di servizi sicuramente migliori dei nostri, raggiunge certi apici: eccezion fatta per la Francia e la Svezia (a quota 0,98), la media è notevolmente più bassa: la Germania sta a 0,84, la Spagna a 0,82, la Gran Bretagna a 0,86, gli Usa a 0,71 e via di questo passo.
Taluni obietteranno che molti studi (dall’Ocse all’Istat all’Eurostat) in realtà dimostrano che l’Italia non sia il Paese con la pressione fiscale più alta: l’Eurostat ad esempio ci colloca al sesto posto nel continente per livello di tassazione. Possibile che i francesi o i danesi siano più tartassati di noi italiani? E infatti l’ormai celebre rapporto tra gettito fiscale e Pil (la cosiddetta «pressione fiscale») è un metro di giudizio che non soddisfa tutti: la Banca Mondiale, ad esempio, preferisce applicare un parametro diverso, detto «total tax rate», che calcola il peso complessivo delle imposte sugli utili d’impresa (compreso il carico sul lavoro). Ebbene, in Italia (medaglia d’oro) questo dato raggiunge mediamente il 65,8%, in Francia il 64,7% in Spagna il 58,6%, nel Regno Unito il 34% e in Germania il 49,4%. Non solo: la Corte dei Conti ha scoperto che il Pil preso in considerazione negli studi della pressione fiscale è manipolato con una stima del presunto sommerso. Rifacendo i calcoli, nel 2013 l’allora presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha dichiarato durante un’audizione alla Camera che la pressione fiscale reale è almeno (almeno!) del 53%, una percentuale alquanto superiore rispetto al 44% che comunemente ci viene appioppato e che in alcuni casi (specie di piccole e medie imprese) può raggiungere il 68,3%.
Paolo Cardenà, consulente tributario e private banker, spiega cosa significano queste percentuali nella vita quotidiana di un’azienda con un utile di 32mila euro condotta in società da due artigiani:

«In questo caso, nella determinazione delle imposte da pagare a carico della società in esame, nonostante l’esiguità dell’utile – certamente non sufficiente a garantire la sussistenza degli imprenditori e delle rispettive famiglie – la tassazione pretesa dal fisco in capo alla società è di oltre 15mila euro, 15.593 euro, per l’esattezza. Di cui, 12.024 a titolo Ires, e 3.569 per Irap. Quindi, la società subisce un carico tributario di oltre il 48%. Ma la tassazione della società e dei due soci non si esaurisce con i 15.593 euro di tasse in capo alla società. Anche i soci sono colpiti dalle imposizioni tributarie e contributive. Già, per l’anno 2012, i due soci hanno corrisposto i contributi Inps, che fanno salire il conto a 21.993. Oltre ai contributi pagati sul reddito minimale, la legge prevede che ciascun socio che lavora nell’azienda debba versare anche i contributi Inps e la percentuale sulla parte di reddito eccedente il minimale. E l’imposizione fiscale complessiva, con un utile di appena 32mila euro, è già salita a quasi 25mila euro, ossia il 78% dell’utile prodotto nel 2012.
Ma c’è dell’altro. I due soci, nel corso del 2013, volendo prelevare l’utile netto realizzato nel 2012, dovranno registrare la delibera di distribuzione dell’utile, pagando 168 euro. Poi, nel 2014, nella propria dichiarazione dei redditi dovranno riportare l’utile imputato a ciascuno di loro (8.203) che andrà a formare la base imponibile in misura del 49,72% dell’utile prelevato, in quanto, in parte, già tassato in capo alla società. Quindi, ipotizzando che lo scaglione di reddito da applicare sia il più basso (23%), ciascuno di loro, al netto degli oneri deducibili pagati nel corso del 2013, dovrà corrispondere all’erario ulteriori 900 euro tra Irpef e addizionali varie. Quindi, il conto delle imposte pagate sia dalla società che dai soci, per un misero utile di 32mila euro, sale fino ad arrivare a 27mila euro, euro più euro meno. Ossia l’85% dell’utile prodotto dalla società nel 2012.
Oltre alle tasse di cui abbiamo dato nota, c’è da dire che l’impresa, durante l’esercizio, subisce altre forme d’imposizione. Si pensi, a esempio, al diritto annuale della Camera di commercio, alla tassa sulla vidimazione dei libri sociali, all’eventuale Imu (deducibile) e ad altre contribuzioni obbligatorie per legge, che, tuttavia, sono già considerate nella determinazione del risultato d’esercizio originario (32mila euro). E la pretesa del fisco non si esaurisce con questa pretesa assurda e distruttiva, che oltrepassa di molto ogni limite di sostenibilità e ragionevolezza. Invero, per i cinque anni successivi, il fisco potrà esperire eventuali controlli sulla fedeltà fiscale dell’azienda e magari accertare ricavi superiori a quelli dichiarati, determinati in ragione agli indicatori previsti dagli studi di settore a cui la società è sottoposta.
Succede spesso che un’azienda paghi più tasse di quanto guadagni. Assolombardia ha condotto una ricerca su un campione di 6mila imprese [Osservatorio Assolombarda Bocconi e Prometeia, “Le imprese milanesi: struttura e dinamica reddituale. Periodo 2007-2011”, maggio 2013, ndr.] da cui è risultato che metà delle aziende ha una pressione fiscale complessiva attorno all’80% (!) e “in circa il 10% delle imprese analizzate il peso delle imposte ha superato il 100%”. Cioè guadagni 50 euro, paghi 70 euro di tasse. Incredibile. “Il nostro sistema fiscale penalizza gravemente le aziende che producono in Italia e quindi i loro posti di lavoro”, commenta l’ingegner Fabrizio Castaldi, presidente della Bcs Spa, colosso made in Italy nel settore delle macchine agricole. “Un’azienda con una pressione fiscale dell’80% non può sopravvivere con una concorrenza mondiale attestata intorno al 30%, perché risulta fortemente compromessa la sua possibilità di investire in ricerca e sviluppo. Per non implodere, l’azienda è costretta a rilocare la produzione e quindi i posti di lavoro all’estero”».

Tutto questo senza contare la fatica che richiede l’adempimento del proprio dovere fiscale: secondo Confartigianato tra il 2008 e l’agosto 2014 sono state emanate 418 norme di complicazione tributaria (una alla settimana) al punto da far dichiarare al fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti: «Ogni giorno dobbiamo fare uno slalom gigante con le porte che vengono spostate mentre scendi. Un’azienda affonda nelle sabbie mobili italiane».
La causa primaria di questa incresciosa situazione non è data dalla classe dirigente, bensì da quella fascia sempre più ampia di evasori fiscali: secondo il Centro Studi di Confindustria, eliminando l’evasione le aliquote fiscali e contributive potrebbero calare del 16%. L’economista Tito Boeri si spinge addirittura oltre, sostenendo che dalla fine dell’evasione si otterrebbe un abbattimento fiscale del 20%. Al contrario di come molte personalità (compresi molti stimati editorialisti) siano portate a credere, l’evasione fiscale non è la conseguenza dell’eccessivo carico di tasse, bensì la sua causa. Partiamo da lì, una buona volta.

lunedì 10 novembre 2014

Rom



L’ammirazione in costante aumento che un leader come Matteo Salvini suscita in settori sempre più ampi e moderati della società italiana (tradizionalmente di destra, ma non solo) ci costringe a fare i conti con un sottovalutato aspetto mai sopito di una certa mentalità del nostro Paese: l’intolleranza verso il «diverso», in qualsiasi forma esso si presenti. Risale a pochi giorni fa il vergognoso assalto squadrista compiuto da un gruppetto di avventori di centri sociali nei confronti dell’automobile del capo leghista, recatosi a Bologna con l’intento (mai raggiunto) di visitare un campo nomade della zona. Una visita, quella, che sancisce la particolare rilevanza della tematica dei rom nel bagaglio propagandistico di Salvini, ultimo esponente di spicco in ordine di tempo di un partito, la Lega Nord, che solo sei anni fa vedeva uno come Giancarlo Gentilini esibirsi su un palco inveendo: «Voglio la pulizia dalle strade di tutte queste etnie che distruggono il nostro paese. Voglio la rivoluzione nei confronti dei nomadi, dei zingari. Ho distrutto due campi di nomadi e di zingari a Treviso. Non ci sono più zingari che vanno a rubare agli anziani! Voglio la tolleranza doppio zero! Maroni ha detto zero, io la voglio a doppio zero! Io voglio la rivoluzione nei confronti della televisione, della radio, dei giornali perché continuano a infangare la Lega. È tempo di zittirli. Dobbiamo mettergli dei turaccioli in bocca e su per il culo a quei giornalisti». Parole apprezzate, applaudite, acclamate, ripetute e rivendicate con orgoglio da una folta schiera di elettori, allora come oggi.
L’odio discriminatorio verso la cultura rom è particolarmente in voga nel nostro Paese: un sondaggio Eurobarometro 2008 ha rivelato che questo aspetto contraddistingue il 71% degli italiani contro il 51% dei tedeschi e il 37% degli spagnoli. In Europa solo la Repubblica Ceca nutre un astio superiore al nostro. Tutto questo nonostante un rapporto europeo sulla scolarizzazione redatto di Jean-Pierre Liégeois affermi che nella nostra area continentale (ossia quella situata tra la zona balcanica e la zona confinante con l’Atlantico) «la popolazione zingara può raggiungere al massimo il livello dello 0,2% rispetto alla popolazione». La Commissione Europea ha provato ad essere più precisa, asserendo che nell’estate del 2009 fossero presenti sulla nostra penisola tra i 120 e i 160mila rom (circa lo 0,26% della popolazione), un quinto rispetto alla Spagna e un terzo rispetto alla Francia. Di questi, ed è il dato che dovrebbe maggiormente far riflettere, solo 40mila alloggianti nei campi nomadi. Tutti gli altri possiedono le loro abitazioni, esattamente come Charlie Chaplin, Elvis Presley, Yul Brinner, Bob Hoskins e Michael Caine. Tutti illustri appartenenti alla cultura rom. Ma non solo loro: anche l’idolo del pallone Andrea Pirlo è di origine rom, così come lo sono il violinista Ion Voicu e i celebri direttori d’orchestra Sergiu Celibidache e Zubin Mehta. Dei rom fa parte Livio Togni, ex-senatore di Rifondazione Comunista passato tra le file del filo-berlusconiano Movimento per le Autonomie; alla comunità sinta appartiene la bionda Eva Rizzin, laureata con dottorato di ricerca in Geopolitica e Geostrategia all’università di Trieste; è rom Alexian Santino Spinelli, plurilaureato attualmente conteso tra le università di Torino, Chieti e Trieste; tra i rom italiani va annoverata anche Serena Spada, laureatasi nella elvetica European University di Montreux col sogno di fare la broker a Londra. È rom anche una buona fetta della classe dirigente di Melfi, città dove la comunità zingara si è integrata da secoli, anzi, spesso ne ha rappresentato la parte più emancipata se si considera che sono stati loro i primi a mandare i propri figli a scuola (correva l’anno 1905). Così come vanno considerate rom anche molte famiglie che campeggiano nei dintorni di Venezia, talmente entrate nel tessuto connettivo del territorio da portare ai giorni nostri cognomi come Pietrobon, Pavan e Brusadin. E chissà quanti altri cittadini italiani con i quali ci confrontiamo tutti i giorni appartengono a questa cultura, pur evitando di confessarlo pubblicamente e pur conducendo uno stile di vita del tutto innocuo. Non bisogna sorprendersi: il professor Tommaso Vitale spiega che «si va sempre a spanne perché il “mondo rom” è fatto di mille mondi. Ci sono i cristiani e i musulmani, gli ortodossi e i buddisti, quelli che mandano le donne a chiedere la carità e quelli che non lo farebbero manco morti, quelli la cui famiglia vive in Italia da sei secoli e quelli che sono stati costretti a lasciare le loro abitazioni nei Balcani e sopravvivono in condizioni di estremo disagio, rubacchiando, e quelli che in qualche modo sono riusciti a inserirsi e non lo fanno più. E poi quelli che sanno di essere rom e lo negano e quelli che non lo sanno neppure. Ci sono perfino i razzisti che si considerano superiori a quelli di altre comunità…»
D’altro canto, non è passato molto tempo da quando il giornalista Orio Vergani (che non si può certo definire un ferreo sinistroide) scriveva sul «Corriere della Sera» dell’8 settembre 1953: «I nebbiosi inverni della Padania hanno fatto sempre amare i bruni zingari i cui visi sembrano bruciati da un sole antichissimo e parlano in nome di un misterioso oriente dal quale provengono con il passo furtivo, fossero essi mercanti di cavalli o battitori di rami, si sono sempre illuminate le fantasie dei ragazzi di Padania…L’elogio della vita zingaresca non può essere cantato se non da chi non si stacca mai dal proprio focolare…Probabilmente poteva nascere solo a Gonzaga l’idea di offrire i prati della propria fiera a un grande raduno di zingari. Gonzaga vanta come un titolo di nobiltà del suo lavoro agrario l’antichità della sua fiera, sorta appena si sperdeva il tenebrore del Medioevo italico». Suscitava ammirazione questo popolo errante. Quasi tutti i giornali si lasciavano incantare da questa tradizione millenaria. Su «L’Illustrazione Italiana» Leone Lombardi raccontava per l’occasione come gli antenati dei Gonzaga avessero appreso «l’utile che si poteva trarre dal proteggere i popoli nomadi e i popoli perseguitati. Atavicamente allenati al lavoro dei campi e a misurare i valori dei beni immobili, essi conobbero qui, dagli zingari antichissimi, il valore dei commerci dei beni mobili: proprio dagli zingari che vagavano di terra in terra lavorando il rame, battendo su piccole incudini monili d’oro e vendendo cavalli che andavano forse rubando pascolando qua e là nel loro instancabile peregrinare. Protettori di zingari prima, e poi protettori di ebrei, come dovevano esserlo, a Ferrara, gli Estensi. Il mercato zingaresco di Gonzaga e il ghetto di Mantova sono stati…i due caposaldi, dopo quello terriero, della loro fortuna finanziaria». Si abbandonava alle lodi anche un altro giornalista del «Corriere», Max David, che in quello stesso 1953 narrava dei rom andalusi: «Conoscono il segreto che cambia il mantello dei cavalli; conoscono il segreto che nasconde certe malattie; conoscono il segreto che dà agli animali una particolare prestanza; conoscono il segreto che fa rizzare le orecchie ciondoloni e fa tremolare le froge dei buricchi come petali di rose; conoscono infine il segreto, affascinante, di far trottare diritte le bestie che marcano. La mula del Nino de la Chata trottava diritta ed era zoppa; quella mula aveva dieci anni ma ne dimostrava tre». «Mille poeti biondi tra pentole e chitarre» era uno dei titoli sui rom che poteva apparire sui quotidiani, e questo è lo stralcio di un pezzo di Rino Albertarelli su «Settimo Giorno»: «Esplose dall’organetto un grappolo di notte, come fuoco d’artificio, e la tensione si sciolse di colpo in un lento ondeggiare di vestine multicolori; tutte le bambine danzavano, ognuna a sé o per sé, con una serietà impressionante. Le più grandi assumevano espressioni intense, drammatiche, inframmezzati di sorrisi sfumati, di sguardi ora languidi, tra le palpebre socchiuse, ora lampeggianti…».
È impossibile negare che in alcuni campi nomadi ci sia una particolare concentrazione di delinquenza, ma da qui ad abbandonarsi allo squallore discriminatorio c’è una bella differenza, senza contare l’autentico coacervo di dicerie strampalate che circondano questa cultura. Prendiamo per esempio lo stereotipo dello zingaro rapitore di bambini: la docente universitaria Sabrina Tosi Cambini ha analizzato puntigliosamente l’archivio dell’Ansa del periodo 1986-2007 scoprendo che nessun (dicasi nessun) fanciullo scomparso è mai stato trovato nei campi nomadi e scoprendo anche che dei 40 casi giudiziari sui rapimenti in cui sono stati coinvolti degli zingari 37 si sono conclusi con la piena assoluzione dei rom ed i restanti 3 rappresentano sentenze ancora avvolte da alcune controversie. L’archivio documentale del «Corriere della Sera» (uno dei più corposi d’Italia) ha consegnato alla ricerca soltanto due casi (uno nel 1952 e l’altro nel 1953), che fra l’altro non ricevettero alcun rilievo mediatico. Secondo lo studioso Leonardo Piasere, questa storiella risale nientemeno che ad una commedia veneta del 1545, da cui scaturì una fortunata tradizione letteraria che finì per contagiare anche Walt Disney e Stanlio e Ollio.
Spesso è proprio la tradizione storica a influenzare il nostro modo di pensare: secondo il docente Alexian Spinelli, tra il 1483 e il 1785 sono stati emessi solo nella nostra penisola 210 bandi anti-rom, di cui 79 provenienti dallo stato pontificio. Si legga la seguente grida della Repubblica di Venezia, datata 1558: «Possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territiri Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori [gli assassini, ndr.] per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena». Un esempio fra i tanti, simbolo di una persecuzione che da secoli tormenta in maniera quasi ininterrotta gli zingari. Persecuzione portata avanti senza alcuna conoscenza delle peculiarità, delle molteplici caratteristiche e delle innumerevoli distinzioni interne che caratterizzano una cultura millenaria e variegata come quella rom. Salvini non fa altro che collocarsi in questa scia di odio atavico e stereotipato, totalmente assoggettato ad un’ignoranza tanto antica quanto inestirpabile.

venerdì 7 novembre 2014

Beurocrazia



«Non sono il capo di una banda di burocrati!», è sbottato il neo-presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Non basta però una semplice frase a dipanare i dubbi su un’attività europea che da un po’ di tempo a questa parte, in barba alla statura di personalità come De Gasperi e Adenauer, ha relegato in un angolo le più imponenti sfide del mondo attuale per farsi soggiogare  da un apparato burocratico sempre più invasivo, pignolo, assurdo e potente. Mentre ad esempio una fiumana sempre più numerosa e disperata di migranti si accalca sulle coste europee del Mediterraneo, Bruxelles è assiduamente intenta (la ricerca è durata circa due anni) a stilare le norme che regolano la definizione di «bagno ecologico». Come ha scritto nel novembre 2013 il quotidiano polacco «Gazeta Wyborcza», «prima di concludere che un serbatoio d’acqua “ecologico” non dovrebbe contenere più di cinque litri di acqua (un litro per orinatoio) sono stati spesi più di 89.000 euro in ricerche sul tema. In particolare sono state analizzate le differenze geografiche nell’Ue per quanto riguarda l’uso degli orinatoi» concludendo, ad esempio, «che il paese demograficamente più importante dell’Unione, la Germania, è solo al terzo posto (dopo gli inglesi e gli italiani) per quanto riguarda il consumo di acqua per pulire i bagni. Mentre in Polonia ne consumiamo un terzo rispetto alla più popolata (ma non tanto) Spagna. A volte le analisi di Bruxelles possono sembrare ridicole, ma il commissario europeo all’Ambiente Janez Potočnik, ha messo in guardia contro i giudizi troppo sbrigativi affermando che se solo il 10% delle famiglie europee adottasse dei bagni ecologici si potrebbero risparmiare 390 milioni di euro». Sarà pure, ma ricerche del genere sono tutt’altro che isolate. Dirò di più: al contrario dell’esistenziale dilemma dello sciacquone, l’incessante vomitare di testi e scartoffie ad opera dei puntigliosi burocrati di Bruxelles riguarda il più delle volte autentici diktat, direttive inflessibili e regolamenti inderogabili tali per cui sgarrare da tali norme significa mettersi contro la legge. E rappresentano un autentico fiume in piena a cui non scappano gli aspetti più marginali della nostra esistenza quotidiana. Nonostante alcuni europarlamentari abbiano stimato che l’84% dell’attività legislativa di un paese membro derivi da leggi europee, il blogger inglese James Clive-Matthews ha fatto una stima più attendibile ma solo in parte meno sorprendente: «Da diversi studi europei sembra di poter dire che ogni anno tra l’8 e il 25% delle nuove leggi viene dall’Europa. Recentemente nel Regno Unito la biblioteca della Camera bassa del Parlamento ha condotto un nuovo studio che suggerisce una percentuale tra il 15 e il 20%. Mi sembra abbastanza giusta». Insomma, almeno una legge su cinque è diretta discendente della mente creativa dei burocrati continentali e talvolta può andare anche peggio, se si considera che nel solo febbraio 2014 dei dieci provvedimenti governativi emanati nel nostro Paese ben sei rappresentavano il frutto di norme europee.
Regolamenti che vanno dai profilattici, i quali devono misurare «non meno di cento millimetri», all’«armonizzazione sui recipienti semplici a pressione» (questa l’atroce discussione intavolata al Parlamento europeo lo scorso febbraio). Ma è sul comparto alimentare che i burocrati si sono sbizzarriti con ineguagliabile ottusità: secondo lo scrittore teutonico Hans Magnus Enzensberger, esistono 36 regolamenti europei concernenti la colorazione di fagioli, meloni e cavoli. Il Regolamento (Ce) n.510/2006 è rappresentato da quattro pagine dedicate esclusivamente al fagiolo di Cuneo, il quale dev’essere inteso come quel baccello «allo stato ceroso da sgranare e la granella secca, appartenenti alle specie di fagiolo rampicante Phaseolus vulgaris L. e Phaseolus coccineus» di dimensione compresa «tra 15 e 28 mm» e di colore «intensamente striato di rosso». Secondo uno splendido articolo di Raffaele Costa e Lorenza Viotto su «Il Duemila», le direttive europee (da applicare teoricamente in maniera tassativa) impongono, per quanto riguarda l’aglio, che «la differenza di diametro fra il bulbo più piccolo e il bulbo più grosso contenuti in uno stesso imballaggio non può superare: 15 mm, quando il bulbo più piccolo ha un diametro inferiore a 40 mm; 20 mm, quando il bulbo più piccolo ha un diametro uguale o superiore a 40 mm». Sul mondo dei cavoli «in uno stesso imballaggio “il peso della palla più pesante non deve superare il doppio della palla più leggera”, ma quando “il peso della palla più pesante è uguale o inferiore a 2 kg”, la differenza di peso può raggiungere un kg». Per i fagiolini, invece, «la “larghezza massima del baccello misurata perpendicolarmente alla sutura” non deve essere superiore a 6 mm (fagiolini “molto fini”), 9 mm (“fini”), 12 mm (“medi”)». Neanche i piselli ne escono indenni: per quelli «di “categoria I”, i baccelli devono “contenere almeno 5 semi”, che a loro volta devono essere “teneri, succosi e sufficientemente consistenti, in modo che, premuti tra due dita, si schiaccino senza dividersi”». Per la zootecnia la situazione non è molto diversa: si va dalla definizione di piccione viaggiatore («piccione trasferito o destinato ad essere trasferito dalla sua piccionaia per essere liberato in modo da poter ritornare liberamente, volando, alla sua piccionaia o in qualsiasi altro luogo») a tutte le specie di pesce pescabile, ad esempio: «Considerando che il regolamento Cee stabilisce le categorie di calibro applicabili ai gamberetti e ai granchi e fissa un calibro minimo, considerando che l’articolo 7, paragrafo 4 dello stesso regolamento prevede la possibilità di autorizzare, per i gamberetti, deroghe al calibro minimo; considerando che l’articolo 7, paragrafo 5 dello stesso regolamento introduce, nell’intento di garantire l’approvvigionamento locale o regionale di granchi di talune regioni costiere del Regno Unito, un regime derogatorio che riduce per queste zone il calibro minimo, considerando che l’esperienza ha dimostrato la necessità di differenziare, a seconda delle regioni, i calibri minimi, ha adottato il presente regolamento. Per garantire l’approvvigionamento locale o regionale di gamberetti e di granchi, possono essere stabilite deroghe ai calibri minimi».
Il convinto antieuropeista Mario Giordano ha raccontato, fra le altre cose, il suo sbalordimento nell’osservare la «Gazzetta Ufficiale» europea in un giorno del maggio 2001, in cui apparivano in fila «legge sulla pesca dello scorfano, legge sull’importazione di spago dalla Polonia, legge che modifica una legge sul salmone dell’Atlantico, legge per l’acciaio kazako, legge per la magnesite calcinata sinterizzata, legge per la carne bovina della Slovacchia, legge per gli accessori dei tubi in ferro taiwanesi, legge per i piselli spezzati della varietà pisum sativum destinati alla Sierra Leone e alla Corea del Nord».
Come ogni burocrazia infame che si rispetti, anche quella europea lega indissolubilmente la logorrea con la distanza sempre più incolmabile dalla realtà: mentre a noi può scapparci un sorriso nel leggere le direttive sull’angolo di curvatura del cetriolo o sulla «pesca della passera di mare a Skagerrak eseguita da parte di navi battenti bandiera del Belgio», ci sono lavoratori che grazie a queste astruse norme vedono notevolmente condizionata la loro attività. Questo il racconto, rilasciato a «La Nuova Sardegna», del pescatore Giovanni Delrio: «La burocrazia rischia di ammazzare la pesca. Tutti questi nuovi regolamenti sembrano fatti apposta per farci arrendere e lasciare il mare, il nostro mare, alle multinazionali della pesca. Ma  noi non molleremo, anche se è assurdo che al rientro da una dura giornata di pesca si debba compilare una scheda nella quale il dentice si chiama “dec”, il cappone “gun”, la seppia “ctc”, il polpo “occ” e così via. Dicono che serve per la tracciabilità del pescato e quindi per la qualità, ma così stanno complicando la nostra durissima vita in mare».
Gli assurdi limiti imposti alla pesca di alcune specie, ad esempio il tonno, hanno comportato non pochi guai a coloro che grazie al commercio di questo pesce sfamano la propria famiglia. Sentite le parole dell’armatore di Sciacca Gaspare La Rocca a «Sì24»: «Il mare di Sciacca è pieno di tonni, anzi è tutto un tonno. Non c’è più pesce azzurro; da due o tre anni, quando l’Ue ha deciso di limitare a un mese all’anno la pesca del tonno, questi sono aumentati in maniera esponenziale. È una legge assassina, che consente solo a pochi in Italia di pescare il tonno, mentre noi muoriamo. Lo Stato deve intervenire per cambiarla. Pesce spada non ne prendiamo più, sarde nemmeno, i tonni non li possiamo pescare perché altrimenti commettiamo un reato. Stiamo morendo e si stanno producendo danni enormi all’ecosistema marino».
Finché l’Europa non si degnerà di comprendere le reali dinamiche della vita dei cittadini, divincolandosi da quell’autentica schiavitù di norme, vincoli e regolamenti di ogni tipo, non si sorprenda mister Juncker se lui e tutta la sua Commissione verranno trattati alla stregua di grigi e assurdi burocrati.