«Repubblica» non è un giornale
come tutti gli altri, «Repubblica» è il primo quotidiano nazionale. Ma
«Repubblica» non rappresenta soltanto un organo d’informazione, è un baluardo,
un simbolo, un apparato di potere in grado di decretare (come manco ai tempi di
Nerone) la sorte della politica progressista italiana. Illuminante il ritratto
che ne traccia il giornalista Claudio Cerasa: «La vera coscienza culturale
della sinistra. Il vero azionista di riferimento del mondo progressista. Un
giornale, o meglio una corazzata, che meglio di chiunque altro condiziona le
scelte politiche della sinistra. Che meglio di chiunque altro influenza il
percorso della sinistra. Che meglio di chiunque altro riesce a imporre una
leadership rispetto a un’altra.
Mai un leader di centrosinistra è
diventato leader del centrosinistra senza avere il sostegno di questo giornale.
Ma allo stesso tempo, mai un politico diventato leader del centrosinistra anche
grazie alla spinta ricevuta da questo giornale è riuscito a essere
contemporaneamente maggioranza della sinistra e maggioranza del Paese. Da
questo punto di vista il successo editoriale del quotidiano di cui stiamo
parlando è clamoroso. Ed è difficile trovare in giro per il mondo giornali come
questo che siano riusciti nella non facile impresa di far coincidere la voce
della sinistra con quella del più grande giornale della sinistra». Nonostante
questo suo potere, coadiuvato anche dalla presenza di alcune delle migliori
firme del giornalismo italiano (Ilvo Diamanti, Filippo Ceccarelli, Federico
Rampini, Mario Pirani, Federico Fubini, Corrado Augias e altri ancora),
«Repubblica» da quando è principiato il cataclisma della crisi economica si è
ritrovata immersa in un'infinita sequela di problemi, a cui in questi lunghi anni
ha cercato di porre rimedio seguendo un percorso rocambolesco e avventuroso.
Potrebbero scriverci un romanzo, e magari intitolarlo «Le cronache di
“Repubblica”», sulla scia del celebre «Le cronache di Narnia». La lunghezza
dello scritto, potete starne certi, sarebbe simile.
***
Partiamo dal Capodanno 2009: il
quotidiano è nel pieno della sua crisi, la tiratura è talmente scarsa che il
dominus del giornale, la Cir
della famiglia De Benedetti, è tentata di abbandonare la proprietà della
testata: occorrerà un feroce scontro generazionale tra il padre Carlo e il
figlio Rodolfo (fautore della vendita) prima che il proposito venga
abbandonato. Assai indicativo della cupidigia di quel frangente temporale è il
fatto che il settimanale «L’Espresso», altro organo della Cir, deciderà
d’interrompere la pubblicazione dei dati di vendita dei quotidiani. Il calo di tiratura registrato da «Repubblica» era talmente imbarazzante da costringere il
direttore Ezio Mauro non solo a chiedere la censura dei numeri, ma di farlo
anche in una maniera talmente brusca da rendere palpabile l’atroce affronto che
quei numeri rappresentavano per lui. Il giornalista Giampaolo Pansa racconta:
«Un giorno, mentre usciva da “Repubblica” per la pausa pranzo, [Ezio Mauro,
ndr.] s’imbatté in uno dei vicedirettori dell’Hamaui [all’epoca direttrice de
“L’Espresso”, ndr.]. E gli disse, a brutto muso: “Quando la smetterete di
rompermi i coglioni con i dati della Fieg?”. Bastò quella domanda ringhiosa per
far sparire la rubrica per sempre».
All’improvviso, però, arrivò il
miracolo. L’ex-moglie dell’allora premier Silvio Berlusconi, Veronica Lario,
spedisce una lettera al giornale scagliandosi ferocemente contro la condotta
privata del Caimano. Una manna dal cielo, la pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno,
il Santo Graal: nessuna metafora può eguagliare cosa significò quell’evento per
le sorti del quotidiano. Le vicende sessuali del Cavaliere divennero il
carburante per far ripartire la macchina. Venne ingranata subito la marcia più
alta: tra la primavera e i primi di giugno del 2009 «ItaliaOggi» stimò che
«Repubblica» affrontò la vicenda di Noemi (la minorenne che si sospettava
legata in maniera ambigua al premier) per 2236 volte. Leggenda vuole che le
vendite subirono un’impennata di 30mila copie. Da allora la corazzata
«Repubblica», compatta come una testuggine romana, senza sbavature, voci
contrarie o grandi divagazioni, concentrò tutta la sua attenzione su un unico
bersaglio: il Caimano, con particolare predilezione per la sua attività erotica. Questo
tsunami editoriale trascinò bruscamente il Pd di Franceschini, costringendolo
(con deludenti risultati elettorali) a inseguire la linea di «Repubblica»; e
trascinò con sé anche «L’Espresso» della signora Hamaui il quale, in preda alla
ormai assuefante Silvio-mania, tra il febbraio del 2009 e il marzo 2010
pubblicò (dati di «ItaliaOggi») 21 copertine con stampata sopra la faccia del
Cavaliere.
Un’azione la cui coordinazione e
tenacità lasciò stupefatti. L’ex-direttore de «l’Unità» Peppino Caldarola scrisse
su «Il Riformista» del 10 ottobre 2009: «I giornalisti di “Repubblica” parlano
tutti allo stesso modo. È forse il primo caso nella storia del giornalismo
italiano di una così totale identificazione con le ragioni della propria
testata. Sembrano usciti tutti dalla stessa scuola quadri. Sembrano tutti
felicemente aderenti al centralismo democratico del nuovo giornale-partito. In
anni neppure lontani, era difficile trovare due giornalisti dell’“Unità” che la
pensassero allo stesso modo. Il miracolo è riuscito a Ezio Mauro che ha
selezionato una burocrazia di dirigenti politici da far invidia a quella
esangue dei partiti». Splendido epiteto, quello di «giornale-partito», che
indica un’altra caratteristica della «Repubblica» di quei mesi: la fedeltà o,
per meglio dire, il fanatismo di una frangia di lettori. Fermamente convinti
che «Repubblica» fosse l’unico organo mediatico, ma anche politico, resistente
all’avanzata berlusconiana (in realtà i giornali a favore del Cavaliere si
potevano contare sulle dita di una mano) e imbevuti dell’enfasi semplicistica
del quotidiano, alcuni pasdaran si abbandonarono a idee e proposte
strabilianti. Ecco gli stralci di alcune lettere pubblicate dal giornale nel
settembre 2009: «Perché non ci inventiamo un segnale da mettere sui nostri
balconi per far vedere al Paese quanti siamo?» (Elisabetta Salvatori),
«Propongo la nascita di un movimento con sedi in tutta Italia» (Pino Quarta),
«Una bella idea sarebbe quella di creare un segno di riconoscimento. Da esporre
da parte di tutti coloro che condividono questa battaglia per la libertà di
stampa» (Rita Bega e Manuel Lugli) e molte altre ancora.
Lo stesso Carlo De Benedetti
confessò che «Repubblica» gli ricordava ormai un «disco rotto» e che «se il
Cavaliere fa “cucù” alla signora Merkel, la cancelliera tedesca, per tre giorni
leggiamo su “Repubblica” sempre lo stesso editoriale». Un astio facilmente
ricomponibile se si pensa che fu proprio in quei mesi, intorno al settembre
2010, che «Repubblica» divenne il primo giornale italiano con circa 510mila
copie vendute. «Noi a “Repubblica” siamo grati a Berlusconi per averci dato la
possibilità di informare bene più persone» fu costretto ad ammettere De
Benedetti durante una lezione, «il 10% in più quando il Cavaliere dice cose
pazze. E circa il 2% in più nelle situazioni normali».
***
La pacchia però non era destinata
a durare in eterno: di lì a un anno la preoccupante tempesta finanziaria che si
accanì sui titoli di debito costrinse Berlusconi (ormai privo della maggioranza
parlamentare) ad abbandonare repentinamente il governo prima che per l’Italia
si aprissero scenari apocalittici. La flebo che teneva in vita il giornale si
esaurì e la testuggine no-Cav fu costretta ad un tormentato «rompete le righe»,
relegando «Repubblica» ad un insofferente appoggio al Pd (di cui, secondo la
sarcastica definizione di Giuliano Ferrara, De Benedetti rimane pur sempre «la
tessera numero 1»). Passa qualche anno e la situazione si fa ancora più
drammatica: Silvio Berlusconi non solo diventa padre costituente (e in un
quotidiano da sempre schierato sulla linea della «Costituzione più bella del
mondo» non ci può essere incubo peggiore), ma lo fa in «profonda sintonia» con
il nuovo leader della sinistra, Matteo Renzi.
Forte della sua supremazia sul
mondo antiberlusconiano, «Repubblica» ha sempre snobbato i leader del Pd: De
Benedetti nel corso del 2010 definì Bersani «leader totalmente inadeguato» e
accusò D’Alema non solo di «stare ammazzando il Partito democratico» ma anche
«di non aver fatto niente nella vita» (nel corso del botta e risposta
successivo arrivò a definirlo nientemeno che «un problema umano»). Parere
analogo a quello di Ezio Mauro: la sua insoddisfazione verso la leadership del
Pd apparve in tutta la sua chiarezza quando dichiarò che «anche a sinistra è
arrivata l’ora del Papa straniero» per poi specificare qualche mese più tardi
su «L’Espresso»: «Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus
honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità. Che offra una speranza di
cambiamento e di vittoria». Ironia della sorte, in quello stesso anno Matteo
Renzi tagliò il nastro della corsa per la «rottamazione» e, ancora più
sorprendente, lo fece proprio durante un’intervista rilasciata a «Repubblica».
Eppure l’allora sindaco di Firenze non suscitò grande entusiasmo tra le firme
del quotidiano: solo Riccardo Liguori e Claudio Tito (il quale instaurò ben
presto un solido rapporto personale con l’ambizioso giovanotto) avevano capito
che quello era un cavallo su cui puntare. Successivamente si aggiunse anche
Goffredo De Marchis. Il resto della redazione restava titubante: nel settembre
2010 lo storico padre di «Repubblica», Eugenio Scalfari, liquidò il programma
di Renzi come «carta straccia» e ancora nel 2012 De Benedetti, parlando sempre
del giovane Matteo, asserì: «Non ci serve un Berlusconi di sinistra». La fedeltà
a Bersani si manteneva svogliata ma intatta, alimentata dalla spavalda
insofferenza che Renzi, in nome della lotta ai corpi intermedi, per lungo tempo
ha nutrito pubblicamente verso la carta stampata (solo pubblicamente, perché in
privato non sfugge mai alla lettura dei quotidiani; del resto, lui stesso da
adolescente ha diretto il giornaletto scout «Ancora in cammino») al punto tale
che, una volta al governo, più di un direttore di quotidiani è arrivato a
lamentarsi avvilito: «Ma come, Enrico [Letta, ndr.] mi mandava un sms ogni
mattina, mentre questo mai, niente».
Il cambio di rotta iniziò
lentamente durante le primarie del 2012. De Benedetti ammise
sì il suo voto a Bersani, ma aggiunse: «Su Renzi mi sono sbagliato: ha più
stoffa di quel che pensassi». I risultati delle elezioni 2013 accelerarono la
manovra: ben presto la compagine di «Repubblica» si schierò compattamente a
favore di Renzi, primo fra tutti il capitan Ezio Mauro. Anche De Benedetti nel
corso del 2013 dichiarò entusiasta: «L’unico leader spendibile al momento è
Renzi. È una persona nuova, pragmatica, che ha fatto il sindaco ed è giovane».
Rimanevano alcune pesanti voci fuori dal coro: Eugenio Scalfari (ancora il 28
settembre 2014 scrisse che Renzi «è il frutto dei tempi bui e se i tempi
debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci») e l’esperto di
economia Federico Fubini. L’approdo dell’analista Stefano Folli dal novembre
2014 dovrebbe rappresentare un’altra voce non esattamente allineata con
l’esecutivo in carica. In generale, però, è tutta la redazione (da qualche settimana a questa parte) a vivere in
piena crisi d’identità: un prolungato sostegno a Renzi rischia di rivelarsi
controproducente. Succube di questo atroce dilemma e di un irrefrenabile calo
di lettori, la saga di «Repubblica» per ora si ferma qui. L’avvincente romanzo
proseguirà, questo è poco ma sicuro. La corazzata «Repubblica» garantisce
sempre sorprese.
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