Per quel tessuto connettivo di
imprese oneste che ancora riesce a sopravvivere nonostante la morsa fatale di
banche, criminalità e adempimenti statali di ogni genere, novembre non sarà il
mese del ponte dei morti, né il mese del Jobs Act e tanto meno il mese della
probabile chiusura del «patto del Nazareno». Il mese di novembre viene
ricordato per un numero, 119. Tanti sono gli adempimenti fiscali che attendono
i titolari di partite Iva da qui fino al primo di dicembre per poi, come nel tradizionale
gioco dell’oca (in fin dei conti si tratta sempre di spennare), ricominciare da
capo al punto tale da far calcolare alla Confesercenti che tra fine settembre e
fine dicembre ci siano qualcosa come 187 adempimenti fiscali. Due tasse al
giorno. Diego Lorenzon, presidente dell’azienda veronese Poolmeccanica Lorenzon
Spa, ha provato a stilare un elenco: Cimp, Inail, Inps, Irap, Ires, Irpef, Iva,
Tosa, tassa sui passi carrai, tassa sui rifiuti, tassa sulle bonifiche (ma nel
frattempo sopravvive anche la tassa sulle paludi varata con regio decreto del
1904), tassa sulle proprietà, tassa sulle pubblicità, tassa sulla concessione
per le frequenze, tasse sul contributo per riciclaggio, tasse sul risanamento
ambientale, imposte sulle carte di credito, imposte catastali, imposte di
fabbricazione, imposte sugli intrattenimenti, imposte di registro, imposte
sulle successioni, imposte di bollo, imposte sulla Camera di commercio e
imposte sugli oneri bancari passivi. Fortuna che non deve adempiere anche la
tassa sull’ombra, pagata dagli esercenti che osano oscurare il marciapiede con
la loro tenda, e fortuna che il suo comune non applica la tassa sui gradini
(che devono versare i proprietari d’immobili con scalini che vanno sulla strada)
o la tassa sui cani (da 20 a
50 euro per ogni Fido). Il rosario di doveri verso il Fisco ovviamente non si
limita alle attività prettamente lavorative, ma si estende anche agli svaghi:
se Lorenzon volesse usare il suo tempo libero andando a caccia dovrebbe pagare
la concessione governativa di 115 euro per adoperare il fucile, se preferisse
invece andare a pescare dovrebbe pagare la concessione governativa sulla canna
da pesca (gli andrebbe peggio: qui si tratta di 173,16 euro), se invece volesse
andare a raccogliere i funghi il Fisco lo inseguirebbe anche in mezzo ai boschi
per fargli pagare l’imposta di bollo sui permessi di raccolta di chiodini e
porcini. Se invece la sua predilezione fosse una più sedentaria partita della
nazionale davanti alla tivù, conviene che ci pensi bene prima di esporre la
bandiera fuori dal balcone: un albergo del nord è stato tassato anche per
questo.
Quando Lorenzon passerà a miglior
vita, sappia che il Fisco non si dimenticherà di lui: a parte il fatto che
qualche comune potrebbe applicargli la tassa sui tumuli, si ritroverebbe
comunque tra capo e collo la tassa (35 euro a cui si aggiunge un bollettino
postale) per il rilascio del certificato di constatazione di decesso da parte
dell’ufficiale sanitario dell’Asl e il diritto fisso sul decreto di trasporto
dei defunti (58 euro, più un paio di marche da bollo). Solo per la cremazione
sono richieste due imposte di bollo: una sulla domanda di affido personale
delle ceneri e una sul provvedimento di autorizzazione. Nemmeno a funzioni
concluse il Fisco si dimentica della buonanima: nel solo 2008 sono state
spedite due milioni e mezzo di cartelle esattoriali a casa di persone decedute,
e quando non si riesce a reperire il defunto ci sono sempre i congiunti a
disposizione: l’Agenzia delle entrate potrebbe richiedere l’attestato di
pagamento dei funerali. Se sei stanco di tutto questo e decidi di rivolgerti
contro la pubblica amministrazione, sappi che anche tutte le tappe del ricorso
sono regolarmente soggette a imposta.
Non bisogna quindi sorprendersi
se uno studio a cura di Riccardo Fenochietto e Carola Pessino pubblicato l’anno
scorso dal Fondo monetario internazionale riveli che il Tax Effort (traducibile
come «sforzo fiscale») abbia toccato il tetto massimo: considerato 1 «il
massimo livello di entrate fiscali che un Paese può ottenere» l’Italia si
collocava nel 2011 a
0,99. Nessun altro Paese avanzato, pur disponendo di servizi sicuramente
migliori dei nostri, raggiunge certi apici: eccezion fatta per la Francia e la Svezia (a quota 0,98), la
media è notevolmente più bassa: la
Germania sta a 0,84, la Spagna a 0,82, la Gran Bretagna a 0,86, gli Usa a
0,71 e via di questo passo.
Taluni obietteranno che molti
studi (dall’Ocse all’Istat all’Eurostat) in realtà dimostrano che l’Italia non
sia il Paese con la pressione fiscale più alta: l’Eurostat ad esempio ci
colloca al sesto posto nel continente per livello di tassazione. Possibile che
i francesi o i danesi siano più tartassati di noi italiani? E infatti l’ormai
celebre rapporto tra gettito fiscale e Pil (la cosiddetta «pressione fiscale»)
è un metro di giudizio che non soddisfa tutti: la Banca Mondiale , ad esempio,
preferisce applicare un parametro diverso, detto «total tax rate», che calcola
il peso complessivo delle imposte sugli utili d’impresa (compreso il carico sul
lavoro). Ebbene, in Italia (medaglia d’oro) questo dato raggiunge mediamente il
65,8%, in Francia il 64,7% in Spagna il 58,6%, nel Regno Unito il 34% e in
Germania il 49,4%. Non solo: la
Corte dei Conti ha scoperto che il Pil preso in
considerazione negli studi della pressione fiscale è manipolato con una stima
del presunto sommerso. Rifacendo i calcoli, nel 2013 l’allora presidente della
Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha dichiarato durante un’audizione alla
Camera che la pressione fiscale reale è almeno (almeno!) del 53%, una
percentuale alquanto superiore rispetto al 44% che comunemente ci viene
appioppato e che in alcuni casi (specie di piccole e medie imprese) può
raggiungere il 68,3%.
Paolo Cardenà, consulente
tributario e private banker, spiega cosa significano queste percentuali nella
vita quotidiana di un’azienda con un utile di 32mila euro condotta in società
da due artigiani:
«In questo caso, nella
determinazione delle imposte da pagare a carico della società in esame,
nonostante l’esiguità dell’utile – certamente non sufficiente a garantire la
sussistenza degli imprenditori e delle rispettive famiglie – la tassazione
pretesa dal fisco in capo alla società è di oltre 15mila euro, 15.593 euro, per
l’esattezza. Di cui, 12.024
a titolo Ires, e 3.569 per Irap. Quindi, la società
subisce un carico tributario di oltre il 48%. Ma la tassazione della società e
dei due soci non si esaurisce con i 15.593 euro di tasse in capo alla società.
Anche i soci sono colpiti dalle imposizioni tributarie e contributive. Già, per
l’anno 2012, i due soci hanno corrisposto i contributi Inps, che fanno salire
il conto a 21.993. Oltre ai contributi pagati sul reddito minimale, la legge
prevede che ciascun socio che lavora nell’azienda debba versare anche i contributi
Inps e la percentuale sulla parte di reddito eccedente il minimale. E
l’imposizione fiscale complessiva, con un utile di appena 32mila euro, è già
salita a quasi 25mila euro, ossia il 78% dell’utile prodotto nel 2012.
Ma c’è dell’altro. I due soci,
nel corso del 2013, volendo prelevare l’utile netto realizzato nel 2012,
dovranno registrare la delibera di distribuzione dell’utile, pagando 168 euro.
Poi, nel 2014, nella propria dichiarazione dei redditi dovranno riportare
l’utile imputato a ciascuno di loro (8.203) che andrà a formare la base
imponibile in misura del 49,72% dell’utile prelevato, in quanto, in parte, già
tassato in capo alla società. Quindi, ipotizzando che lo scaglione di reddito
da applicare sia il più basso (23%), ciascuno di loro, al netto degli oneri
deducibili pagati nel corso del 2013, dovrà corrispondere all’erario ulteriori
900 euro tra Irpef e addizionali varie. Quindi, il conto delle imposte pagate
sia dalla società che dai soci, per un misero utile di 32mila euro, sale fino
ad arrivare a 27mila euro, euro più euro meno. Ossia l’85% dell’utile prodotto
dalla società nel 2012.
Oltre alle tasse di cui abbiamo
dato nota, c’è da dire che l’impresa, durante l’esercizio, subisce altre forme
d’imposizione. Si pensi, a esempio, al diritto annuale della Camera di
commercio, alla tassa sulla vidimazione dei libri sociali, all’eventuale Imu
(deducibile) e ad altre contribuzioni obbligatorie per legge, che, tuttavia,
sono già considerate nella determinazione del risultato d’esercizio originario
(32mila euro). E la pretesa del fisco non si esaurisce con questa pretesa
assurda e distruttiva, che oltrepassa di molto ogni limite di sostenibilità e
ragionevolezza. Invero, per i cinque anni successivi, il fisco potrà esperire
eventuali controlli sulla fedeltà fiscale dell’azienda e magari accertare
ricavi superiori a quelli dichiarati, determinati in ragione agli indicatori
previsti dagli studi di settore a cui la società è sottoposta.
Succede spesso che un’azienda
paghi più tasse di quanto guadagni. Assolombardia ha condotto una ricerca su un
campione di 6mila imprese [Osservatorio Assolombarda Bocconi e Prometeia, “Le
imprese milanesi: struttura e dinamica reddituale. Periodo 2007-2011” , maggio 2013, ndr.] da
cui è risultato che metà delle aziende ha una pressione fiscale complessiva
attorno all’80% (!) e “in circa il 10% delle imprese analizzate il peso delle
imposte ha superato il 100%”. Cioè guadagni 50 euro, paghi 70 euro di tasse.
Incredibile. “Il nostro sistema fiscale penalizza gravemente le aziende che
producono in Italia e quindi i loro posti di lavoro”, commenta l’ingegner
Fabrizio Castaldi, presidente della Bcs Spa, colosso made in Italy nel settore
delle macchine agricole. “Un’azienda con una pressione fiscale dell’80% non può
sopravvivere con una concorrenza mondiale attestata intorno al 30%, perché
risulta fortemente compromessa la sua possibilità di investire in ricerca e
sviluppo. Per non implodere, l’azienda è costretta a rilocare la produzione e
quindi i posti di lavoro all’estero”».
Tutto questo senza contare la
fatica che richiede l’adempimento del proprio dovere fiscale: secondo
Confartigianato tra il 2008 e l’agosto 2014 sono state emanate 418 norme di
complicazione tributaria (una alla settimana) al punto da far dichiarare al
fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti: «Ogni giorno dobbiamo fare uno slalom
gigante con le porte che vengono spostate mentre scendi. Un’azienda affonda
nelle sabbie mobili italiane».
La causa primaria di questa
incresciosa situazione non è data dalla classe dirigente, bensì da quella
fascia sempre più ampia di evasori fiscali: secondo il Centro Studi di
Confindustria, eliminando l’evasione le aliquote fiscali e contributive
potrebbero calare del 16%. L’economista Tito Boeri si spinge addirittura oltre,
sostenendo che dalla fine dell’evasione si otterrebbe un abbattimento fiscale
del 20%. Al contrario di come molte personalità (compresi molti stimati
editorialisti) siano portate a credere, l’evasione fiscale non è la conseguenza
dell’eccessivo carico di tasse, bensì la sua causa. Partiamo da lì, una buona
volta.
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