La conseguenza più nefasta
dell’assenza di autorevoli poteri strutturati, e di conseguenza della distanza
sempre più siderale tra la cittadinanza e l’ordine legale si concretizza nel
fenomeno del crimine organizzato, tanto più forte dove e quando sono più forti
i sentimenti anti-istituzionali, anti-statali e anti-legalitari. Più vivo che
mai, quindi, nei periodi di crisi economica e di sfiducia collettiva; e più
vivo nelle aree dove il senso civico è storicamente più limitato, il Mezzogiorno
in particolar modo. Ciò non toglie, comunque, che la portata del fenomeno
mafioso raggiunga apici sbalorditivi lungo tutto l’asse della Penisola. Alcuni
dati possono aiutare nella comprensione di questa vastità: la rivista «Fortune»
stima un giro d’affari assimilabile a quello della Apple e della Bank of China
sommate tra loro, con un guadagno netto di 104 miliardi nel solo 2011. Sos
Impresa si spinge oltre, denunciando un business annuo oscillante intorno ai
138 miliardi (la General Motors
gli fa un baffo) mentre gli economisti Michele Bagella e Francesco Busato sono
giunti alla conclusione che il solo riciclaggio di denaro sporco abbia un
valore di 200 miliardi, circa il 12% del Pil.
La vecchia immagine del mafioso
con la coppola in testa e la lupara sulle spalle appartiene tutt’al più a
qualche foto sbiadita e a qualche cimelio cinematografico. La realtà attuale
del fenomeno mafioso è ben più camaleontica, trasversale, omertosa e
onnipresente. Non conosce limiti né geografici, né affaristici nella sua
spietata attività. Si serve della politica e la adopera a suo uso e consumo. Si
serve della finanza e nel contempo la manovra a piacimento. E non da oggi. Già
nell’estate del 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pochi giorni prima
di finire crivellato sotto i colpi di una mitragliatrice, affermò nel corso di
un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca: «La mafia ormai sta nelle maggiori
città italiane dove ha grossi investimenti edilizi, commerciali e magari
industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del
capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire
rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in
case moderne o alberghi o ristoranti à la page ma ancor più mi interessa la
rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari
passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i
rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere…». Si parlava già
allora di «maggiori città italiane», senza troppe distinzioni tra le varie
collocazioni geografiche. Di conferme in tal senso ne abbiamo, purtroppo, quasi
tutti i giorni. Sperando di non urtare la sensibilità del governatore lombardo
Bobo Maroni, è indicativo l’ascolto di alcune intercettazioni di membri della
‘ndrangheta (i «locali» non sono altro che le «succursali» del nucleo centrale
operante in Calabria): «Siamo 500 uomini, Cecè, non siamo uno…Cecè, vedi che
siamo 500 uomini qua in Lombardia, sono 20 locali aperti…». Secondo la
relazione dell’Antimafia di «sedi» nella regione meneghina ce ne sono non meno
di 26, tutte dotate «di autonomia affaristica, ovviamente su basi illegali e
retti ognuno da un referente principale». Un’autonomia che arriva però soltanto
fino a un certo punto e che bisogna inserire in un sistema a ragnatela di
notevole complessità. In ogni caso, l’apertura di questi «sportelli» è sempre
motivo d’orgoglio, tant’è vero che si svolse addirittura un brindisi (filmato
da una videocamera nascosta) nella città della Madonnina a cui presero parte
alcuni boss di primo piano della ‘ndrangheta lombarda con «alle loro spalle»,
secondo le parole del «Corriere della Sera», «una grande foto in bianco e nero»
che «ritrae i giudici Falcone e Borsellino. Sono le 21.40 di sabato 31 ottobre 2009 a Paterno Dugano,
hinterland di Milano. Nel circolo Arci intitolato ai magistrati trucidati da
Cosa nostra, si svolge uno dei più importanti summit della ‘ndrangheta al
Nord».
Bisognerà aspettare l’ottobre del
2013 prima di vedere lo scioglimento di un comune della Lombardia a causa delle
contaminazioni mafiose. Si tratta di Sedriano, paese dove l’infiltrazione della
‘ndrangheta era così pressante da avere, secondo le accuse, fagocitato il
gruppo Perego costruzioni, impresa dal respiro internazionale che costringerà
la magistratura a vederci chiaro in ben 64 cantieri e, manco a dirlo, in molti
appalti relativi all’Expo del prossimo anno. Solo il coraggio di una giovane
giornalista, Ester Castano, ha permesso di scoperchiare questo vaso di Pandora.
Altrimenti il sentimento prevalente è quello della più squallida omertà,
testimoniata inequivocabilmente dal fatto che su 27.000 operazioni sospette
denunciate a Bankitalia nel corso del 2010 solo 223 sono arrivate da soggetti
esterni alle banche. «Quando ho iniziato a lavorare e a prendere in mano le
redini dell’impresa», confessa un impresario edile del milanese, «avevo ben
presente che era opportuno non entrare mai in conflitto con le aziende dei
Papalia e con le imprese della famiglia Barbaro perché mafiose. Come ho detto,
questa è la ragione per cui non vado a lavorare in certe zone…»
«Il mondo delle libere
professioni e il mondo dell’impresa o non percepiscono i rischi oppure non li
vogliono segnalare», concluse amaramente l’allora presidente della Commissione
Antimafia Giuseppe Pisanu. E nella caparbia volontà di non voler segnalare non
concorrono soltanto la paura o il rischio di infangare il buon nome della
propria città. Come ha spiegato durante un’audizione al Parlamento il prefetto
di Padova Ennio Mario Sodano: «Esiste una scarsa consapevolezza dei rischi di
penetrazione della mafia nell’economia in ragione del fatto che gli
imprenditori ritengono ingenuamente di potersi servire dei mafiosi» per
risolvere i mille problemi che le attanagliano in questi anni, finché
«finiscono per rimanerne vittime con la perdita del controllo delle aziende»,
spesso con esiti di pesante drammaticità (si pensi al suicidio di molti piccoli
imprenditori). Emblematica la vicenda della Blue Call, call center di Cernusco
sul Naviglio gestito da due soci con quasi novecento dipendenti e 14 milioni di
fatturato. Nel pieno dell’attività, dovendo riscuotere un credito, ben lungi
dall’affidarsi nelle mani dell’odiata struttura pubblica, i soci si rivolgono
alla cosca del Bellocco di Rosarno. Il prezzo di questo «servizio» sarà
salatissimo: l’azienda finisce nelle mani della ‘ndrangheta, con la perdita del
lavoro da parte di seicento lavoratori. I commissari antimafia noteranno:
«Sorprende il grado di superficialità che caratterizza la scelta dei due
imprenditori, convinti di poter convivere con la ‘ndrangheta e di potersene,
all’occorrenza, liberare, ripagando le quote e dandole il benservito» senza
capire il reale proposito dell'organizzazione, la quale «al momento opportuno, lungi
dall’abbandonare la compagine sociale, mostra il suo vero volto imponendo
all’imprenditore, questa volta con i metodi propri dell’agire mafioso (pestaggi
sanguinari e coltello puntato alla gola), la cessione del pacchetto di
maggioranza delle quote societarie» utili alla ‘ndrangheta per usufruire
dell’azienda come macchina per il riciclo di denaro sporco.
La situazione non è tanto
migliore nelle altre regioni settentrionali: la Liguria, zona dove la
presenza delle ‘ndrine ha una tradizione che risale addirittura al dopoguerra,
viene descritta dall’Antimafia come «paradiso dove poter riciclare le ingenti
ricchezze prodotte dalle attività illecite, una piazza tranquilla dove svolgere
con sistematicità le più proficue attività di estorsione e usura, il tutto
all’ombra del paravento legale offerto dal casinò di Sanremo». Ma anche il
Piemonte, dove due consigli comunali sono stati sciolti per mafia nel corso del
2012 e dove sono stati scoperti otto «sportelli» della ‘ndrangheta. E che dire
dell’Emilia-Romagna? I locali del gioco d’azzardo della Riviera romagnola a
detta dei Ros sarebbero monopolio della camorra e Reggio Emilia sarebbe
talmente infetta d’interessi della mafia calabrese da essere definita dallo
studioso Enzo Ciconte «enclave in terra nemica». Poi c’è il Veneto. Per
quest’ultimo caso suonano assai eloquenti le parole dell’affiliato al clan dei
Casalesi Mario Crisci: «Abbiamo scelto di concentrare le nostre attività nel
Nord-Est, in particolare a Padova, perché qui il tessuto economico non è così
onesto. Il margine di guadagno era buono, perché la gente non ha voglia di
pagare le tasse…Avevamo la disponibilità di commercialisti e notai
compiacenti…» utili anche per superare il primo impatto con gli imprenditori
«perché chiaramente», prosegue Crisci, «non sarebbe stato utile far vedere
immediatamente la massa di meridionali con quelle facce; ci serviva ed era
utile una persona del Nord-Est, che comunque parlava la lingua del cliente».
La cappa criminale che avvolge e stritola il Paese da
Vipiteno a Pantelleria conosce mille storie, mille intrecci, mille affari,
mille sostegni e altrettante protezioni. Perché il «mondo di mezzo», in realtà,
è un pianeta estremamente onnivoro e dotato, ahimé, di pochi ostacoli.
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