Era il febbraio 2014 quando alla
Corte dei Conti saltò in mente di citare in giudizio nientemeno che l’agenzia
di rating Standard & Poor’s reclamando un risarcimento danni da 234
miliardi di euro. A rendere singolare la notizia è l’accusa mossa nei confronti
dell’agenzia: nel valutare la tenuta finanziaria del nostro Paese ci si sarebbe
scordati d’inserire il valore del patrimonio artistico e culturale. «Quanto
valgono “La Divina Commedia”, “La dolce vita” o la Cappella Sistina di Michelangelo
in termini di bilancio pubblico e di spread?», si domandava, forse senza
ironia, il «Corriere della Sera» del 5 febbraio 2014, «Quanto va considerato,
nella ricchezza dell’Italia, l’immenso patrimonio storico, artistico e
letterario accumulato in millenni? Secondo la Corte dei Conti questa ricchezza
va considerata eccome, quando si valuta l’affidabilità creditizia di un Paese».
Come un morbo che si diffonde,
silenzioso e implacabile, l’ossessivo dogma neoliberale tale per cui ogni
aspetto della vita umana debba essere valutato esclusivamente in base alle
logiche speculative del mercato, anche la bellezza artistica del nostro
sciagurato Paese finisce per vedersi attaccata addosso il cartellino dei
prezzi, soggetta alle volubilità della Borsa e, chi lo sa, magari passibile di
saldi invernali o di offerte promozionali. D’altronde, se ci si limita a
seguire una fredda logica, i 234 miliardi richiesti dalla Corte dei Conti
dovrebbero equivalere a nulla di più e nulla di meno che ad una stima
dell’intero patrimonio culturale della penisola, il quale a questo punto
diventa chiaramente soggetto (in barba all’articolo 9 della Costituzione) a
possibili compravendite, passaggi di proprietà, affitti, cessioni, successioni
ereditarie oppure, visto che a quanto pare è questo il nodo del contendere con
S&P, anche a plausibili pignoramenti nel caso, non troppo remoto, che lo
Stato non riesca a ripagare gli esosi interessi sui titoli di debito pubblico.
In questa tragica vicenda non
potevano mancare le tesi econometriche degli studiosi, ritti sull’attenti a
snocciolare le loro disquisizioni contabili: «Quantificare il valore del
Colosseo è facilissimo, lo hanno già fatto» sentenziava in quei giorni
l’economista Paolo Leon dalle colonne de «La Repubblica», «più difficile è
quantificare Dante Alighieri» dato che, grosso problema, «alle agenzie di
rating interessa il valore di mercato della fruibilità del bene». La
prosecuzione è ancora più indicativa, in quanto si prova ad offrire un assaggio
pratico e assolutamente disinibito di cosa significhi la valutazione economica
delle bellezze. Prendendo ad esempio le mura di Ferrara «abbiamo calcolato
quanto spazio quelle mura hanno sottratto a una potenziale espansione della
città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di
speculazione edilizia è il valore di quelle mura che indicizzato nei secoli,
insieme alla bellezza intrinseca, serve per capire l’importanza della cinta
muraria di Ferrara e quanto conviene tutelarla al meglio». L’ideologia
neoliberale, questa la conclusione, non solo esige di valutare le opere in
termini di valenza monetaria: la negazione della bellezza va oltre, arrivando a
considerare «il bene» esclusivamente come un ingombrante intralcio alla
«speculazione edilizia» (sic) che si potrebbe ottenere su quel perimetro di
terreno.
Se ciò può apparire semplicemente
allucinante, se qualcuno comprensibilmente obbietterà che ragionamenti del
genere sono inconcepibili in un Paese come il nostro, se qualche altro
aggiungerà che mai e poi mai ad una persona dotata di raziocinio verrebbe in
mente di stimare economicamente la sublime Venezia, ebbene è doveroso sapere
che tutto ciò non solo viene apertamente discusso, ma è stato già messo nero su
bianco nei testi legislativi.
La Gazzetta Ufficiale, in base
alle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 85 del 2010 concernente
il «federalismo demaniale» (firmato da Berlusconi, Calderoli, Tremonti, Bossi,
Maroni, Fitto, Brunetta e vari altri personaggi di tale risma) ha già
provveduto in data 9 dicembre 2010 a stilare un corposo elenco di «immobili»
appartenenti al Comune di Venezia, a cui viene affidata la totale
responsabilità, con tanto di stima economica. Qualche esempio:
«Isola di Certosa € 28 854 000
Batteria “Daniele Manin” € 3 885 236
Forte Morosini al Lido € 1 936 500
Caserma di cavalleria € 1 719 860»
E via così per un totale di 75
beni con un prezzo allegato che non ha nulla di retorico: non solo di recente
si è tentato di mettere all’asta (vanamente, grazie al cielo) l’isola di
Poveglia, ma anche, per usare le parole dell’archeologo Salvatore Settis, «la
stessa legge prevede la possibilità di versare gratuitamente questi beni
pubblici in fondi immobiliari di proprietà privata; inoltre, i Comuni sono
spinti in ogni modo a (s)vendere i propri beni, tanto più che hanno l’obbligo
di presentare ogni anno un “piano di alienazioni immobiliari” allegato al
bilancio di previsione».
Non sappiamo quanto tempo manchi
prima di vedere l’annuncio di vendita del Palazzo Ducale sulla vetrina di qualche
agenzia immobiliare, ma nel frattempo abbiamo ben poco di cui rallegrarci
dinnanzi alla sorte della Venezia per ora in mano pubblica. La logica del
profitto, la smania del marketing, la smodata rincorsa allo sfruttamento del
turista distratto stanno provocando un’intangibile demolizione della struttura
sociale dei residenti. Venezia, la città più bella del mondo, è destinata a non
essere più tale non tanto perché verrà a mancare la bellezza, ma perché verrà a
mancare la città. Il più palpabile sintomo di questa atroce agonia lo si vede
dal crollo dei residenti del centro storico, talmente vertiginoso da far
impallidire addirittura i dati demografici delle peggiori pestilenze a cui è
stato soggetto nei secoli passati. Già quindici anni fa a fronte di 1058 morti
si registravano soltanto 404 nascite, e parliamo di un’epoca in cui c’erano
ancora 65.695 anime (dati del 2001). In data 30 giugno 2014 gli abitanti del
centro storico non superavano quota 56.684 (nel 1981 erano 93.598 e nel 1951
raggiungevano le 174.808).
Venezia non conosce più un
tessuto urbano, uno spazio comune di confronto, un luogo di aggregazione che
mantenga in vita la memoria del passato e veda sorgere i progetti per il
futuro. A fronte di un assalto quasi barbarico di 34 milioni di presenze
turistiche annue (secondo G. Tattara la delicata struttura del posto ne
dovrebbe consentire non più di 12 milioni), il capoluogo veneto pensa solo a
lanciarsi in un ingordo inseguimento del maggior guadagno ottenibile dalla
mungitura di questo straripante turismo. Ecco allora che il Provveditorato agli
studi, taluni uffici giudiziari, la sede dell’azienda dei trasporti, il
consolato tedesco e qualche manciata di abitazioni hanno dovuto prepotentemente
cedere la loro storica ubicazione sul Canal Grande pur di ospitare sempre nuovi
alberghi (su quell’incantevole percorso ne sorgono più di uno all’anno), sempre
più negozi di souvenir, sempre più chioschi di vario genere e sempre nuove
dimore inutilizzate acquistate da qualche divo cinematografico. Ecco allora che
si lasciano liberamente scorrazzare sulle acque del bacino di San Marco i
mastodontici ammassi di lamiera delle navi da crociera. Ecco allora che la
Regione Veneto redige un «piano casa» tra le cui finalità si prefigge la possibile
presenza di 50mila posti di ricezione turistica nel centro storico. Ecco allora
una sempre più consistente porzione di opinione pubblica inneggiare al
patrimonio artistico come «petrolio» della nostra nazione o appellandosi alle
città d’arte come «musei a cielo aperto» dimenticando l’aspetto umano, morale e
sociale della bellezza artistica. Ecco allora che ben pochi si scandalizzano se
nel 2006 il settimanale inglese «Observer» propone nientemeno che di
trasformare Venezia in un parco divertimenti gestito dalla Walt Disney
Corporation (nella città statunitense di Orlando non avviene qualcosa di
analogo?).
È il concetto stesso di città,
con le sue interazioni, le sue tradizioni e le sue solidarietà quotidiane, a
far storcere il naso dei sacerdoti del neoliberismo: la pretesa «modernità», lo
si è visto chiaramente nella «new town» de L’Aquila, impone un susseguirsi
inarrestabile e senza spazi comuni di condomini svettanti. Il protagonista
assoluto dev’essere solo lui, il grattacielo, simbolo, proseguendo con Settis,
«del capitalismo anche nel suo travestimento cinese», «replicabile in ogni
luogo a prescindere dal contesto, è oggi il volto architettonico del
neoliberismo trionfante, la proiezione (in senso non solo metaforico) di una
civiltà dominata dal mercato. Generare denaro dal denaro e non mediante la
produzione di beni e concentrarlo in pochissime mani, al riparo dalla
democrazia e dalla legge, è il dogma centrale del neoliberismo. A esso
corrisponde il gigantismo del grattacieli, perfetta rappresentazione simbolica
della diseguaglianza fra chi li costruisce e li possiede…e chi, invece, vi
abita o vi lavora». Come si può, avvolti come siamo da questa religione,
accettare che continui a sopravvivere una città come Venezia? Molto più
conveniente lasciarla morire trasformandola in un contenitore di turisti e
trasferire i suoi abitanti in nuovi agglomerati che rispondano fedelmente a
queste pretenziose esigenze. Solo osservando quest’ottica si riescono a
comprendere gli svariati progetti di Veneto City, Tessera City, Veniceland,
Venice Gateway e compagnia cantando, accomunati tutti dallo sfacciato obiettivo
di sradicare da Venezia i suoi abitanti. Il progetto «Aqualta 2060» presentato
alla Biennale 2010 dall’architetto Julien De Smedt rimane però la più geniale
tra queste proposte, in quanto prevede una «corolla di grattacieli costruiti
sopra isole artificiali, che circondi la città, la protegga dalle maree, la
ripopoli di veneziani». In tal modo non solo si edifica un nuovo agglomerato
urbano, ma si risolve una volta per tutte l’annoso problema dell’acqua alta.
Come si sarà capito, derubricare
questa sconcia deriva a questioni locali o a futili elucubrazioni non è più
possibile. Gli abitanti della città non possono essere lasciati soli a
fronteggiare questa situazione, non solo perché sono troppo pochi e con troppo
basso potere d’influenza sulle amministrazioni comunali (il sindaco ormai viene
eletto quasi esclusivamente dalle località d’entroterra) ma perché la difesa
della bellezza è un ordine che deriva dalla Costituzione e dal senso civico di
tutti i cittadini italiani. Sperando che il neoeletto candidato sindaco del Pd
Felice Casson comprenda la portata di questa lotta rompendo per prima cosa le
oscene reti corruttive dei suoi predecessori, non ci resta che augurare a
Venezia una buona fortuna.