sabato 21 marzo 2015

Buona fortuna, Venezia



Era il febbraio 2014 quando alla Corte dei Conti saltò in mente di citare in giudizio nientemeno che l’agenzia di rating Standard & Poor’s reclamando un risarcimento danni da 234 miliardi di euro. A rendere singolare la notizia è l’accusa mossa nei confronti dell’agenzia: nel valutare la tenuta finanziaria del nostro Paese ci si sarebbe scordati d’inserire il valore del patrimonio artistico e culturale. «Quanto valgono “La Divina Commedia”, “La dolce vita” o la Cappella Sistina di Michelangelo in termini di bilancio pubblico e di spread?», si domandava, forse senza ironia, il «Corriere della Sera» del 5 febbraio 2014, «Quanto va considerato, nella ricchezza dell’Italia, l’immenso patrimonio storico, artistico e letterario accumulato in millenni? Secondo la Corte dei Conti questa ricchezza va considerata eccome, quando si valuta l’affidabilità creditizia di un Paese».
Come un morbo che si diffonde, silenzioso e implacabile, l’ossessivo dogma neoliberale tale per cui ogni aspetto della vita umana debba essere valutato esclusivamente in base alle logiche speculative del mercato, anche la bellezza artistica del nostro sciagurato Paese finisce per vedersi attaccata addosso il cartellino dei prezzi, soggetta alle volubilità della Borsa e, chi lo sa, magari passibile di saldi invernali o di offerte promozionali. D’altronde, se ci si limita a seguire una fredda logica, i 234 miliardi richiesti dalla Corte dei Conti dovrebbero equivalere a nulla di più e nulla di meno che ad una stima dell’intero patrimonio culturale della penisola, il quale a questo punto diventa chiaramente soggetto (in barba all’articolo 9 della Costituzione) a possibili compravendite, passaggi di proprietà, affitti, cessioni, successioni ereditarie oppure, visto che a quanto pare è questo il nodo del contendere con S&P, anche a plausibili pignoramenti nel caso, non troppo remoto, che lo Stato non riesca a ripagare gli esosi interessi sui titoli di debito pubblico.
In questa tragica vicenda non potevano mancare le tesi econometriche degli studiosi, ritti sull’attenti a snocciolare le loro disquisizioni contabili: «Quantificare il valore del Colosseo è facilissimo, lo hanno già fatto» sentenziava in quei giorni l’economista Paolo Leon dalle colonne de «La Repubblica», «più difficile è quantificare Dante Alighieri» dato che, grosso problema, «alle agenzie di rating interessa il valore di mercato della fruibilità del bene». La prosecuzione è ancora più indicativa, in quanto si prova ad offrire un assaggio pratico e assolutamente disinibito di cosa significhi la valutazione economica delle bellezze. Prendendo ad esempio le mura di Ferrara «abbiamo calcolato quanto spazio quelle mura hanno sottratto a una potenziale espansione della città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di speculazione edilizia è il valore di quelle mura che indicizzato nei secoli, insieme alla bellezza intrinseca, serve per capire l’importanza della cinta muraria di Ferrara e quanto conviene tutelarla al meglio». L’ideologia neoliberale, questa la conclusione, non solo esige di valutare le opere in termini di valenza monetaria: la negazione della bellezza va oltre, arrivando a considerare «il bene» esclusivamente come un ingombrante intralcio alla «speculazione edilizia» (sic) che si potrebbe ottenere su quel perimetro di terreno.
Se ciò può apparire semplicemente allucinante, se qualcuno comprensibilmente obbietterà che ragionamenti del genere sono inconcepibili in un Paese come il nostro, se qualche altro aggiungerà che mai e poi mai ad una persona dotata di raziocinio verrebbe in mente di stimare economicamente la sublime Venezia, ebbene è doveroso sapere che tutto ciò non solo viene apertamente discusso, ma è stato già messo nero su bianco nei testi legislativi.
La Gazzetta Ufficiale, in base alle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 85 del 2010 concernente il «federalismo demaniale» (firmato da Berlusconi, Calderoli, Tremonti, Bossi, Maroni, Fitto, Brunetta e vari altri personaggi di tale risma) ha già provveduto in data 9 dicembre 2010 a stilare un corposo elenco di «immobili» appartenenti al Comune di Venezia, a cui viene affidata la totale responsabilità, con tanto di stima economica. Qualche esempio:

«Isola di Certosa   € 28 854 000
Batteria “Daniele Manin”   € 3 885 236
Forte Morosini al Lido   € 1 936 500
Caserma di cavalleria   € 1 719 860»

E via così per un totale di 75 beni con un prezzo allegato che non ha nulla di retorico: non solo di recente si è tentato di mettere all’asta (vanamente, grazie al cielo) l’isola di Poveglia, ma anche, per usare le parole dell’archeologo Salvatore Settis, «la stessa legge prevede la possibilità di versare gratuitamente questi beni pubblici in fondi immobiliari di proprietà privata; inoltre, i Comuni sono spinti in ogni modo a (s)vendere i propri beni, tanto più che hanno l’obbligo di presentare ogni anno un “piano di alienazioni immobiliari” allegato al bilancio di previsione».
Non sappiamo quanto tempo manchi prima di vedere l’annuncio di vendita del Palazzo Ducale sulla vetrina di qualche agenzia immobiliare, ma nel frattempo abbiamo ben poco di cui rallegrarci dinnanzi alla sorte della Venezia per ora in mano pubblica. La logica del profitto, la smania del marketing, la smodata rincorsa allo sfruttamento del turista distratto stanno provocando un’intangibile demolizione della struttura sociale dei residenti. Venezia, la città più bella del mondo, è destinata a non essere più tale non tanto perché verrà a mancare la bellezza, ma perché verrà a mancare la città. Il più palpabile sintomo di questa atroce agonia lo si vede dal crollo dei residenti del centro storico, talmente vertiginoso da far impallidire addirittura i dati demografici delle peggiori pestilenze a cui è stato soggetto nei secoli passati. Già quindici anni fa a fronte di 1058 morti si registravano soltanto 404 nascite, e parliamo di un’epoca in cui c’erano ancora 65.695 anime (dati del 2001). In data 30 giugno 2014 gli abitanti del centro storico non superavano quota 56.684 (nel 1981 erano 93.598 e nel 1951 raggiungevano le 174.808).
Venezia non conosce più un tessuto urbano, uno spazio comune di confronto, un luogo di aggregazione che mantenga in vita la memoria del passato e veda sorgere i progetti per il futuro. A fronte di un assalto quasi barbarico di 34 milioni di presenze turistiche annue (secondo G. Tattara la delicata struttura del posto ne dovrebbe consentire non più di 12 milioni), il capoluogo veneto pensa solo a lanciarsi in un ingordo inseguimento del maggior guadagno ottenibile dalla mungitura di questo straripante turismo. Ecco allora che il Provveditorato agli studi, taluni uffici giudiziari, la sede dell’azienda dei trasporti, il consolato tedesco e qualche manciata di abitazioni hanno dovuto prepotentemente cedere la loro storica ubicazione sul Canal Grande pur di ospitare sempre nuovi alberghi (su quell’incantevole percorso ne sorgono più di uno all’anno), sempre più negozi di souvenir, sempre più chioschi di vario genere e sempre nuove dimore inutilizzate acquistate da qualche divo cinematografico. Ecco allora che si lasciano liberamente scorrazzare sulle acque del bacino di San Marco i mastodontici ammassi di lamiera delle navi da crociera. Ecco allora che la Regione Veneto redige un «piano casa» tra le cui finalità si prefigge la possibile presenza di 50mila posti di ricezione turistica nel centro storico. Ecco allora una sempre più consistente porzione di opinione pubblica inneggiare al patrimonio artistico come «petrolio» della nostra nazione o appellandosi alle città d’arte come «musei a cielo aperto» dimenticando l’aspetto umano, morale e sociale della bellezza artistica. Ecco allora che ben pochi si scandalizzano se nel 2006 il settimanale inglese «Observer» propone nientemeno che di trasformare Venezia in un parco divertimenti gestito dalla Walt Disney Corporation (nella città statunitense di Orlando non avviene qualcosa di analogo?).
È il concetto stesso di città, con le sue interazioni, le sue tradizioni e le sue solidarietà quotidiane, a far storcere il naso dei sacerdoti del neoliberismo: la pretesa «modernità», lo si è visto chiaramente nella «new town» de L’Aquila, impone un susseguirsi inarrestabile e senza spazi comuni di condomini svettanti. Il protagonista assoluto dev’essere solo lui, il grattacielo, simbolo, proseguendo con Settis, «del capitalismo anche nel suo travestimento cinese», «replicabile in ogni luogo a prescindere dal contesto, è oggi il volto architettonico del neoliberismo trionfante, la proiezione (in senso non solo metaforico) di una civiltà dominata dal mercato. Generare denaro dal denaro e non mediante la produzione di beni e concentrarlo in pochissime mani, al riparo dalla democrazia e dalla legge, è il dogma centrale del neoliberismo. A esso corrisponde il gigantismo del grattacieli, perfetta rappresentazione simbolica della diseguaglianza fra chi li costruisce e li possiede…e chi, invece, vi abita o vi lavora». Come si può, avvolti come siamo da questa religione, accettare che continui a sopravvivere una città come Venezia? Molto più conveniente lasciarla morire trasformandola in un contenitore di turisti e trasferire i suoi abitanti in nuovi agglomerati che rispondano fedelmente a queste pretenziose esigenze. Solo osservando quest’ottica si riescono a comprendere gli svariati progetti di Veneto City, Tessera City, Veniceland, Venice Gateway e compagnia cantando, accomunati tutti dallo sfacciato obiettivo di sradicare da Venezia i suoi abitanti. Il progetto «Aqualta 2060» presentato alla Biennale 2010 dall’architetto Julien De Smedt rimane però la più geniale tra queste proposte, in quanto prevede una «corolla di grattacieli costruiti sopra isole artificiali, che circondi la città, la protegga dalle maree, la ripopoli di veneziani». In tal modo non solo si edifica un nuovo agglomerato urbano, ma si risolve una volta per tutte l’annoso problema dell’acqua alta.
Come si sarà capito, derubricare questa sconcia deriva a questioni locali o a futili elucubrazioni non è più possibile. Gli abitanti della città non possono essere lasciati soli a fronteggiare questa situazione, non solo perché sono troppo pochi e con troppo basso potere d’influenza sulle amministrazioni comunali (il sindaco ormai viene eletto quasi esclusivamente dalle località d’entroterra) ma perché la difesa della bellezza è un ordine che deriva dalla Costituzione e dal senso civico di tutti i cittadini italiani. Sperando che il neoeletto candidato sindaco del Pd Felice Casson comprenda la portata di questa lotta rompendo per prima cosa le oscene reti corruttive dei suoi predecessori, non ci resta che augurare a Venezia una buona fortuna.

mercoledì 11 marzo 2015

La torta dei moderati



Tendenzialmente, l’elettorato italiano non si lascia affascinare né dai richiami egualitari della sinistra tradizionale (le sporadiche volte che ha vinto le elezioni, tale schieramento aveva come candidato premier un bonario cattolico come Prodi), e nemmeno dalla furia di chi promette rivoluzioni o cambiamenti radicali. Nonostante tutto, la larga parte della massa elettorale continua a definirsi moderata, preoccupata del proprio conto in banca che, nel bene o nel male, continua a possedere, imbestialita sì con la classe dirigente ma nel frattempo refrattaria a soluzioni troppo radicali.
Una porzione di elettorato il cui primo desiderio è la riduzione della pressione fiscale, attuata possibilmente non con una lotta all’evasione fiscale (vista come un simpatico vezzo) ma possibilmente con un attacco senza mezzi termini ai privilegi e alla corruzione della classe politica. Imbevuta delle varie denunce sciorinate nei salotti televisivi e fine conoscitrice di ogni singola pagina dell’(ottimo) libro «La Casta», questa schiera di cittadini elettori nutre il fermo convincimento che la causa di tutti i guai del mondo sia da far risalire alle gozzoviglie del Parlamento. Riduci le auto blu e sconfiggerai la disoccupazione giovanile. Elimina le spese della buvette di Montecitorio e il dissesto idrogeologico sarà solo un brutto ricordo. La mafia? Detto fatto, riduciamo lo stipendio ai barbieri di palazzo Madama ed è tutto sistemato.
Assai indicativo a tal riguardo un sondaggio dell’Ipsos condotto nell’aprile del 2012. Alla domanda: «Cosa deve essere tagliato della spesa pubblica?» ben il 57% del campione discettava disinvoltamente di sprechi e inefficienze pubbliche. All’interno di questo settore scopriamo che la stragrande maggioranza (l’83%) nutriva la convinzione che ridurre i parlamentari e i costi della politica sia praticamente sufficiente a farci dimenticare i dissesti delle finanze pubbliche, il 48% si scagliava contro gli stipendi dei dirigenti di Stato e il 37% ci aggiungeva la sforbiciata degli enti inutili. Probabilmente non basterà spiegare a questi intervistati che i pur rivoltanti sprechi pubblici corrispondono ad una quota di denaro pubblico consistente sì, ma sicuramente non tale da rimettere in carreggiata il Paese. A dirla tutta, a questa fascia di elettorato non interessa granché (anzi, può darsi pure che lo auspichi) che un taglio alla spesa pubblica sufficiente da rendere cospicuamente più leggero il carico fiscale debba intaccare ulteriormente i servizi e le protezioni sociali. L’importante è che non si vada ad urtare i propri interessi e che non ci si azzardi a scalfire le piccole e grandi illegalità quotidiane.
Una corrente di pensiero ben consolidata, sostenuta vigorosamente da non pochi editorialisti e commentatori di ogni genere, rintuzzata dalle insistenti richieste che arrivano dalle istituzioni sovranazionali, ben assimilata da una quota non indifferente di lobby e dai più disparati gruppi di pressione. Rispettabile, sia chiaro. Marcatamente di destra, indubbiamente.
Eppure attualmente questa base moderata si ritrova priva di un vero punto d’appoggio politico. La feroce lotta che le forze politiche conducono pur di accaparrarsi questa succulenta fetta di elettorato non fa altro che disorientare questa massa, confusa come una damigella con decisamente troppi e decisamente troppo chiassosi pretendenti.
Con l’inevitabile tramonto politico di Silvio Berlusconi, incarnazione e primo aedo di questa considerevole pattuglia, con naturale accanimento lo schieramento autodefinitosi di destra si abbandona ad una diatriba senza esclusione di colpi per decidere chi ne deve ereditare la primazia. C’è Raffaele Fitto, democristiano dalla cute agli alluci la cui instancabile posizione anti-governativa sembra mirata più all’esasperazione del conflitto interno al partito che ad autentica convinzione. C’è Corrado Passera, che riecheggia la stagione dei tecnici prestati alla politica (perché, in fin dei conti, a detta di molti per far quadrare i conti pubblici basta un contabile senza troppi fumi ideologici in testa) ottenendo una sporadica ribalta mediatica grazie ad una sequela d’implacabili attacchi frontali all’esecutivo. C’è una Forza Italia aggrappata al vascello traballante del vecchio leader, pronta a pendere dalle sue labbra nella speranza che solo dall’anziana fenice potrà rinascere il centrodestra. C’è appunto il vecchio leader, Berlusconi, la cui possibilità di vittoria elettorale è talmente velleitaria da costringerlo una volta per tutte ad adoperare il peso dei suoi parlamentari esclusivamente per ottenere contropartite aziendali/giudiziarie/familiari. C’è Flavio Tosi, pronto a forgiare una Lega paradossalmente antidemagogica, concreta e pronta a governare.
Rimane indubbio, però, che anche a sinistra si sia sempre provata una malcelata acquolina in bocca dinnanzi ai temi fondanti dell’ideologia moderata. Tolto dalla circolazione il temuto difensore delle tasse Vincenzo Visco, portato un inconsueto Stefano Fassina a declamare di fronte ad un’estasiata platea di commercianti un tema facilmente fraintendibile come l’evasione di sopravvivenza, costretto il governo Letta a passare gran parte del suo tempo appresso ad una pasticciata abolizione dell’Imu (con uomini del suo esecutivo, come Zanonato, pronti a fare strame dei già pallidi limiti al contante), anche la sinistra apparentemente più ancorata ai suoi valori primordiali non ha saputo resistere all’attrazione dell’universo ideologico dei moderati. Bazzecole, però, se confrontate all’attacco di artiglieria pesante che Matteo Renzi ha lanciato fin dal suo esordio di segretario pur di accaparrarsi questa fetta di elettorato. Con risultati tangibili in pochi mesi, considerato l’inaudito tripudio alle elezioni europee che ha fatto confluire nel Pd una variegata miscellanea di elettorato propedeutica del mai dimenticato progetto di «partito della Nazione» pronto ad accogliere senza remore tutti coloro che dichiarano fedeltà assoluta al suo segretario, al suo gioviale entusiasmo e alla sua inconsistente visione politica.
Riuscirà il «partito della Nazione» a mantenere sotto il proprio tetto l’universo moderato per un discreto periodo di tempo? Per Renzi l’operazione è indispensabile al fine di proseguire la sua carriera nei palazzi del potere, e a tal scopo il suo nemico più insidioso non è tanto la frangia più sinistrorsa del suo partito (la cui denigrazione, anzi, giova al risultato) bensì la possibile ricostruzione di un polo moderato a lui alternativo. Avversari agguerriti e difficilmente inquadrabili in un’ottica di governo come Grillo e Salvini non fanno altro che cementare la porzione dei moderati tra le fila del Pd, regalando al segretario dem la paradisiaca opportunità di una campagna comunicativa basata sulla contrapposizione tra forze di governo e forze estremiste antisistema.
Un timore, quello del polo moderato di centrodestra, comune fra l’altro anche all’arrembante leader leghista, che si contende con Renzi gli elettori berlusconiani nella speranza (temo vana) di portarli in un agglomerato melmoso che mescola lepenismo, folklori locali e Tea Party. Rimane comunque il fatto che Salvini e Renzi condividano sottotraccia la medesima battaglia finalizzata a tenere ben disgiunti i vari fronti dell’area popolare, in particolar modo Forza Italia e Nuovo Centrodestra.
Ci siamo infatti dimenticati dell’altra variabile, apparentemente secondaria, del gioco dei moderati: quell’Angelino Alfano che vuole sì a tutti i costi entrare tra i rifondatori del campo, ma si ritrova incastrato nel capire se la strada gli sarà più agevole seguendo un politicamente frastornato Berlusconi o un Pd che, pur pesantemente renzizzato, annovera al suo interno una considerevole fetta di nostalgici del Pci. Scelta ardua, su cui ad essere sinceri il leader Ncd si concentra fin dai tempi del governo Letta e che sembrava a portata di mano con la forzosa imposizione della Consulta di un sistema elettorale proporzionale. Un proporzionale che teoricamente dovrebbe venir sostituito con l’Italicum prima delle future elezioni politiche. Teoricamente.

domenica 8 marzo 2015

Il vorace



Dovrebbe essere chiara e ben definita la differenza tra la velocità ragionata e il culto divinatorio dell’azione purchessia, tra la consapevolezza di un’urgenza e l’ingorda voracità che non guarda in faccia a nessuno, tra la ponderata ragionevolezza e la nevrotica frenesia. Dovrebbe ma non lo è né per Matteo Renzi, né per lo stuolo dei suoi sostenitori, uniti nella diffusione del verbo dogmatico delle «riforme» e della «velocità». Due parole che da sole rappresentano degli atti di fede la cui venerazione porta a vedere con ostentato fastidio non solo ogni obiezione, ma proprio ogni forma anche embrionale di analisi e di pensiero (oltretutto in uno schieramento come quello della sinistra, che ha sempre fatto della ragione opposta al sentimento il cardine della propria azione politica). In un’ottica tipicamente di destra, e nemmeno di quella liberale, il fare diventa l’unica cifra di un modello politico, trasformando in tal modo l’azione dal frutto consequenziale di un ragionamento all’incontrastabile protagonista del proprio credo.
Renzi piace perché «fa», a prescindere dal come, dal quando, mosso da quale utilità, spinto da quale interesse e proiettato verso quale direzione. L’unico connotato degno di nota in questa azione è rappresentato dalla velocità, dato che soltanto in base ad essa si può valutare compiutamente la validità del «fare». Il brivido dell’impulso finisce così per divenire l’unica sostanza e l’unico metro di giudizio, spodestando violentemente lo spessore culturale e la fondatezza analitica.
Non è una novità: il dover fare «perché bisogna farlo» ha sempre accompagnato una certa retorica soprattutto in tema di grandi opere e, più in generale, scelte d’impatto ambientale, ma solitamente ci si schermiva dietro qualche formula di rito che quantomeno denotava la volontà di fornire una, pur sommaria, risposta a chi desiderasse capire e ragionare con il proprio intelletto: «Lo chiede l’Europa», «Dobbiamo raggiungere il progresso», «Porterà lavoro» e via di questo passo. Il renzismo invece parte già dal presupposto che ogni ragionamento è fuori luogo. Di tempo per discuterne ce n’è stato troppo, ora viviamo nel momento in cui bisogna a tutti i costi girare pagina e mettersi sotto per agire, agire e agire. Tanto più che, a fare domande, pare ne manchi sempre di più la voglia all’interno di una società progressivamente più disinteressata e confusa.
Mette quasi i brividi confrontare questa smania con quanto scriveva più di un secolo fa Filippo Tommaso Marinetti, uno dei precursori del fascismo. I punti costitutivi del suo «Manifesto del Futurismo» comprendono:

«1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità.[…]
7. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro».

In quest’ottica, anche la violenza e la sopraffazione appaiono esaltanti segni di vita se paragonati alla sonnacchiosa disquisizione sul futuro nostro e dei nostri figli. Del resto, lo stesso Marinetti compose quest’opera ancora traumatizzato da un violento incidente stradale. Anche schiantarsi riducendosi «col volto coperto dalla buona melma delle officine» è degno di lode e fonte di gioia.
Questo vorticoso impasto di rifiuto del ragionamento, di fervore incondizionato verso ogni forma di azione e di conseguente imperizia amministrativa non può non rappresentare il brodo di coltura perfetto, e ricercato, per le categorie che da anni auspicano vivacemente di accumulare il maggior profitto tramite la deturpazione del territorio, della cultura e dei beni collettivi.
«Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici» («La Repubblica», 15/08/2014) può rappresentare lo slogan emblematico- peraltro totalmente infondato se si considera che quasi sempre i resti sono rinvenuti casualmente- di questo fanatico culto del «fare» a discapito di tutto, compresa la preziosa bellezza del nostro passato.
Qualcuno risponderà che in realtà questo governo, più che nel «fare», si è distinto nel «voler fare» e nella promessa momentaneamente appagante per una fetta di elettorato ignaro della reale inconsistenza delle azioni annunciate. Vero in parte, dato che in casi di non secondaria rilevanza questo esecutivo si è dimostrato al contrario uno dei più voraci attuatori di alcuni sconcertanti progetti, sapientemente camuffati (ed è questa la reale astuzia comunicativa del premier) da battaglie sacrosante per la vita dei cittadini.
Il caso più eclatante è quello rappresentato da uno dei tanti decreti, nello specifico stiamo parlando dello «Sblocca-Italia», il quale con la scusa di rendere meno ossessiva la pedanteria degli apparati burocratici della pubblica amministrazione spalanca le porte alla legalizzazione dei più nefasti interventi sul territorio. La regola del silenzio-assenso (ossia il fatto che la mancata risposta da parte della pubblica amministrazione costituisce automaticamente una risposta affermativa alle proprie richieste) viene disinvoltamente applicata nei riguardi di praticamente ogni sorta di desiderio infrastrutturale. L’articolo 6 del decreto, per esempio, elimina totalmente l’autorizzazione paesaggistica prescritta dal Codice dei Beni Culturali per ogni posa di cavi per le telecomunicazioni. Sulla stessa linea, l’articolo 25 espande la regola del silenzio-assenso anche per «interventi minori privi di rilevanza paesaggistica», l’articolo 17 toglie di mezzo la «denuncia di inizio attività» mettendo al suo posto una palliativa e indiscutibile «dichiarazione certificata» redatta dal costruttore e inserendo un bizzarro «permesso di costruire convenzionato» la cui finalità è quella di non porre alcun freno nelle decisioni prese di comune accordo tra costruttore e autorità municipali. Poco oltre s’istituisce invece la figura onnipotente del Commissario straordinario unico per la costruzione delle nuove tratte ferroviarie, il cui appoggio verso queste infrastrutture è semplicemente incontrastabile, fosse anche da parte della Soprintendenza dei Beni Culturali, la cui contrarietà deve comunque essere espressa aggiungendo «specifiche indicazioni necessarie ai fini dell’assenso».
Questi, oltretutto, sono solo alcuni esempi, forse nemmeno i più sconvolgenti se si considera inoltre il fatto che in un passato nemmeno troppo lontano azioni analoghe provocavano una possente mobilitazione da parte della cittadinanza. Ai giorni nostri, invece, tutto ciò pare non avere più importanza, tantomeno tra i più ferrei sostenitori del governo la cui ossessione per il «fare» non vuole tenere conto del fatto che, almeno qualche volta, l’azione può essere deleteria e pericolosamente regressiva. Può anche portarci a schiantare, e in quel caso avremo assai poco di cui estasiarci. 

mercoledì 4 marzo 2015

Latte alle ginocchia



Prima o poi, come si suol dire, i nodi vengono al pettine: nonostante l’interessato ripetersi di rinvii e lo spasmodico protrarsi di tecniche di rimando, dopo anni la questione pare essere giunta alla sua conclusione lasciando all’attuale governo la patata bollente di un deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia europea per non aver fatto pagare ai propri allevatori irrispettosi delle quote latte una multa di almeno 1,3 miliardi di euro. Una vicenda che racchiude in sé molti tra i guai del mondo contemporaneo: il bizantinismo e la sospetta assurdità delle normative vigenti, la promiscuità tra interessi politici e interessi di categoria, la spudorata attività lobbistica e l’inconsistenza decisionale di una classe dirigente a cui basta lo sventolio di una lieve minaccia o il sussurrio di una pressione per dimenticare la propria mansione e scaricare disinvoltamente sulla massa ignara di cittadini onesti un costo, il più delle volte economico, spropositato e profondamente ingiusto.
La vicenda comincia nel 1984, quando l’Unione Europea stabilisce dei limiti (le «quote») di produzione di latte a cui ogni paese deve sottostare pur di garantire un’omogeneità a livello continentale. Eccedere nella produzione comporta una multa per l’allevatore, solitamente di portata non indifferente per il bilancio aziendale. Già nella fase iniziale, la vigile attenzione degli interessi più svariati comincia a far sentire il suo fiato sul collo: l’allora commissario europeo all’Agricoltura, Paul Daslager, si adopera anima e corpo affinché il suo paese (la Danimarca) nonché il resto dell’Europa settentrionale possa godere della fetta di torta più consistente. Avviene così che fino al 2009 all’Olanda era concessa una produzione di 112 milioni di quintali, mentre all’Italia (pur disponendo del quadruplo di abitanti) era imposto il limite di 105. Imposto, però, è un vocabolo che suona assai indigesto per i circa 110mila allevatori che nel 1995 risultavano titolari di quote latte, tanto più quando al governo arriva un partito, la Lega Nord, che nel latte (o meglio, nei suoi produttori) ha visto uno dei suoi più fedeli carburanti elettorali.
Tanto per rendere più chiara la questione, in quegli anni arriva a sbarcare in Parlamento Giovanni Robusti, che di lì a poco raggiungerà l’apice dei Cobas del latte non prima però di aver fondato, nel 1998, una società di consulenze agricole (la Cesia) tra i cui azionisti più importanti figurava Fin Group, la finanziaria del partito nordista. Come di consueto, i problemi giudiziari (sia ordinari che contabili) del Robusti non impediranno a quest’ultimo di continuare a rimanere un importante punto di congiunzione tra la lobby degli allevatori refrattari al rispetto delle regole e la Lega Nord, la quale difatti assicurerà al leader sindacale, siamo nel 2008, una comoda poltrona all’Europarlamento.
Non è probabilmente una coincidenza il fatto che uno degli ultimi atti del primo esecutivo Berlusconi, ancora per poco alleato di Bossi, sia stato quello di cancellare con un colpo di penna le multe per gli allevatori che nell’arco del decennio (il decreto risale al dicembre 1994) abbiano sforato le direttive comunitarie. Un regalo natalizio per i detentori delle quote ma un sonoro pezzo di carbone per tutti gli altri cittadini, visto che si stabilisce che le sanzioni verranno generosamente pagate (parliamo dell’equipollente di circa due miliardi di euro) dalle casse pubbliche.
In compenso, questa la promessa, una manovra del genere non sarebbe più dovuta accadere. Si giurò che da allora in avanti gli allevatori si sarebbero assunti i loro oneri senza mettere in mezzo la collettività.
Ovviamente le cose si misero diversamente: timorose di non compromettere i rapporti con una succulenta categoria come gli allevatori e ben oliate dalle pressioni lobbistiche di Robusti&co. (come dimenticare le autostrade imbottite di trattori o insozzate di latte e liquami?), le forze politiche di ogni colore politico tacquero di fronte alla spregiudicatezza della categoria. Come scrive il cronista Sergio Rizzo, «i più furbi, servendosi di cooperative fantasma, trasmigravano da Cuneo a Udine, inseguiti dai magistrati e lasciando dietro di sé milioni da pagare dopo aver sforato allegramente le quote di produzione che allora si compravano e vendevano. L’andazzo continuò per anni, con i furbetti che si arricchivano e gli allevatori onesti che si impoverivano».
Finché, con il trionfo di Berlusconi alle elezioni politiche del 2008, per gli allevatori si avvera il sogno più celestiale: un leghista, per la precisione si tratta di Luca Zaia, finito al vertice del ministero dell’Agricoltura. Per salvare capra e cavoli e non scontentare nessuno, Zaia affronta la questione con una mossa astuta. Prima emana un provvedimento che obbliga, pur gradualmente, il pagamento delle multe per gli allevatori detentori delle quote (scesi ora a poco più di 43mila), ma poco dopo affida all’arma dei Carabinieri nientemeno che un’inchiesta destinata a produrre un esito sconvolgente. Stando a quanto risultato, infatti, pare che le istituzioni fossero in possesso di dati totalmente fuorvianti circa il settore lattiero-caseario nel nostro Paese. Tutto l’universo delle quote latte finisce per essere messo in discussione, mentre nel frattempo l’effetto dinamitardo dell’inchiesta costringe le Procure a indagare sui motivi della palese divergenza dei numeri (si sospetta ad esempio, considerato il numero di vacche ben al di sotto di quello registrato, un traffico clandestino di latte proveniente dall’estero per rimpinguare le produzioni casearie). Che la Lega abbia argutamente bluffato quando prometteva «il pagamento oneroso sulle multe» lo si nota anche dall’epurazione del senatore Dario Fruscio come capo dell’Agenzia adibita al pagamento delle multe delle quote latte, colpevole (pur professando la fede leghista) di essere troppo rigoroso nei confronti degli allevatori coinvolti nella vicenda.
Come accade fin troppo spesso, la confusione è divenuta la migliore alleata della conservazione a tal punto che da quando è sbucata fuori quella dirompente inchiesta la questione delle quote ha conosciuto il più fondato pretesto per non venir affrontata, in nessuno dei vari cambi di governo e nemmeno in seguito alle pressioni (spesso corredate dalla minaccia di ulteriori sanzioni) delle istituzioni comunitarie. Ancora nell’ottobre 2014 la Corte dei Conti era costretta a concludere che «lo stato dei recuperi è fermo perché la riscossione esattoriale non è stata attivata».
Solo il recente deferimento alla Corte di giustizia europea ha obbligato l’attuale ministro Martina all’amaro compito di spedire (alla buon’ora!) le cartelle esattoriali agli allevatori, proprio a ridosso della fine delle quote latte, prevista per il primo aprile.
L’accumularsi pluriennale delle multe ha raggiunto vette da capogiro: senza contare il condono attuato dal primo governo Berlusconi, attualmente parliamo di circa due miliardi e mezzo che in teoria dovrebbero essere a carico degli allevatori, ma in pratica su 330 milioni la magistratura ha già disposto che vengano pagati dalla collettività, per altri 466 milioni è stata chiesta la rateizzazione, su 532 milioni è attivo il contenzioso, 815 milioni sono in dirittura d’arrivo (o almeno si spera) mentre 108 milioni, per una ragione o per l’altra, sono ormai irrecuperabili. Tirando le somme, allo stato attuale gli allevatori hanno sborsato per le multe non più di 286 milioni. In compenso, i comuni cittadini italiani che delle quote latte probabilmente non sanno nulla sono stati costretti a sborsare finora (e sottolineo finora) 4.208.433.627 euro, il che significa all’incirca 70 euro a cranio (compresi vecchi e bambini), oppure qualcosa come il totale dell’Imu sulla prima casa, oppure anche come la somma che i corsi di formazione siciliani hanno fagocitato da una decina d’anni a questa parte. Uno spreco additato spesso e volentieri come simbolo del degrado meridionale da quegli stessi nordisti che, almeno fino a qualche mese fa, vantavano una mai provata superiorità in termini di oculatezza.