Dovrebbe essere chiara e ben
definita la differenza tra la velocità ragionata e il culto divinatorio dell’azione
purchessia, tra la consapevolezza di un’urgenza e l’ingorda voracità che non
guarda in faccia a nessuno, tra la ponderata ragionevolezza e la nevrotica
frenesia. Dovrebbe ma non lo è né per Matteo Renzi, né per lo stuolo dei suoi
sostenitori, uniti nella diffusione del verbo dogmatico delle «riforme» e della
«velocità». Due parole che da sole rappresentano degli atti di fede la cui
venerazione porta a vedere con ostentato fastidio non solo ogni obiezione, ma
proprio ogni forma anche embrionale di analisi e di pensiero (oltretutto in uno
schieramento come quello della sinistra, che ha sempre fatto della ragione
opposta al sentimento il cardine della propria azione politica). In un’ottica
tipicamente di destra, e nemmeno di quella liberale, il fare diventa l’unica
cifra di un modello politico, trasformando in tal modo l’azione dal frutto
consequenziale di un ragionamento all’incontrastabile protagonista del proprio
credo.
Renzi piace perché «fa», a prescindere
dal come, dal quando, mosso da quale utilità, spinto da quale interesse e proiettato
verso quale direzione. L’unico connotato degno di nota in questa azione è
rappresentato dalla velocità, dato che soltanto in base ad essa si può valutare
compiutamente la validità del «fare». Il brivido dell’impulso finisce così per
divenire l’unica sostanza e l’unico metro di giudizio, spodestando
violentemente lo spessore culturale e la fondatezza analitica.
Non è una novità: il dover fare «perché
bisogna farlo» ha sempre accompagnato una certa retorica soprattutto in tema di
grandi opere e, più in generale, scelte d’impatto ambientale, ma solitamente ci
si schermiva dietro qualche formula di rito che quantomeno denotava la volontà
di fornire una, pur sommaria, risposta a chi desiderasse capire e ragionare con
il proprio intelletto: «Lo chiede l’Europa», «Dobbiamo raggiungere il progresso»,
«Porterà lavoro» e via di questo passo. Il renzismo invece parte già dal
presupposto che ogni ragionamento è fuori luogo. Di tempo per discuterne ce n’è
stato troppo, ora viviamo nel momento in cui bisogna a tutti i costi girare
pagina e mettersi sotto per agire, agire e agire. Tanto più che, a fare
domande, pare ne manchi sempre di più la voglia all’interno di una società progressivamente più disinteressata e confusa.
Mette quasi i brividi confrontare
questa smania con quanto scriveva più di un secolo fa Filippo Tommaso
Marinetti, uno dei precursori del fascismo. I punti costitutivi del suo «Manifesto
del Futurismo» comprendono:
«1. Noi vogliamo cantare l’amor
del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la
ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad
oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il
movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale,
lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la
magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della
velocità.[…]
7. Nessuna opera che non abbia un
carattere aggressivo può essere un capolavoro».
In quest’ottica, anche la
violenza e la sopraffazione appaiono esaltanti segni di vita se paragonati alla
sonnacchiosa disquisizione sul futuro nostro e dei nostri figli. Del resto, lo
stesso Marinetti compose quest’opera ancora traumatizzato da un violento
incidente stradale. Anche schiantarsi riducendosi «col volto coperto dalla
buona melma delle officine» è degno di lode e fonte di gioia.
Questo vorticoso impasto di
rifiuto del ragionamento, di fervore incondizionato verso ogni forma di azione
e di conseguente imperizia amministrativa non può non rappresentare il brodo di
coltura perfetto, e ricercato, per le categorie che da anni auspicano
vivacemente di accumulare il maggior profitto tramite la deturpazione del
territorio, della cultura e dei beni collettivi.
«Mai più cantieri fermi per
ritrovamenti archeologici» («La Repubblica», 15/08/2014) può rappresentare lo
slogan emblematico- peraltro totalmente infondato se si considera che quasi
sempre i resti sono rinvenuti casualmente- di questo fanatico culto del «fare»
a discapito di tutto, compresa la preziosa bellezza del nostro passato.
Qualcuno risponderà che in realtà
questo governo, più che nel «fare», si è distinto nel «voler fare» e nella
promessa momentaneamente appagante per una fetta di elettorato ignaro della
reale inconsistenza delle azioni annunciate. Vero in parte, dato che in casi di
non secondaria rilevanza questo esecutivo si è dimostrato al contrario uno dei
più voraci attuatori di alcuni sconcertanti progetti, sapientemente camuffati
(ed è questa la reale astuzia comunicativa del premier) da battaglie sacrosante
per la vita dei cittadini.
Il caso più eclatante è quello
rappresentato da uno dei tanti decreti, nello specifico stiamo parlando dello «Sblocca-Italia»,
il quale con la scusa di rendere meno ossessiva la pedanteria degli apparati
burocratici della pubblica amministrazione spalanca le porte alla
legalizzazione dei più nefasti interventi sul territorio. La regola del
silenzio-assenso (ossia il fatto che la mancata risposta da parte della
pubblica amministrazione costituisce automaticamente una risposta affermativa
alle proprie richieste) viene disinvoltamente applicata nei riguardi di
praticamente ogni sorta di desiderio infrastrutturale. L’articolo 6 del
decreto, per esempio, elimina totalmente l’autorizzazione paesaggistica
prescritta dal Codice dei Beni Culturali per ogni posa di cavi per le
telecomunicazioni. Sulla stessa linea, l’articolo 25 espande la regola del silenzio-assenso
anche per «interventi minori privi di rilevanza paesaggistica», l’articolo 17
toglie di mezzo la «denuncia di inizio attività» mettendo al suo posto una
palliativa e indiscutibile «dichiarazione certificata» redatta dal costruttore
e inserendo un bizzarro «permesso di costruire convenzionato» la cui finalità è
quella di non porre alcun freno nelle decisioni prese di comune accordo tra
costruttore e autorità municipali. Poco oltre s’istituisce invece la figura onnipotente
del Commissario straordinario unico per la costruzione delle nuove tratte
ferroviarie, il cui appoggio verso queste infrastrutture è semplicemente
incontrastabile, fosse anche da parte della Soprintendenza dei Beni Culturali,
la cui contrarietà deve comunque essere espressa aggiungendo «specifiche
indicazioni necessarie ai fini dell’assenso».
Questi, oltretutto, sono solo
alcuni esempi, forse nemmeno i più sconvolgenti se si considera inoltre il
fatto che in un passato nemmeno troppo lontano azioni analoghe provocavano una
possente mobilitazione da parte della cittadinanza. Ai giorni nostri, invece,
tutto ciò pare non avere più importanza, tantomeno tra i più ferrei sostenitori
del governo la cui ossessione per il «fare» non vuole tenere conto del fatto
che, almeno qualche volta, l’azione può essere deleteria e pericolosamente
regressiva. Può anche portarci a schiantare, e in quel caso avremo assai poco
di cui estasiarci.
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