Tendenzialmente, l’elettorato
italiano non si lascia affascinare né dai richiami egualitari della sinistra
tradizionale (le sporadiche volte che ha vinto le elezioni, tale schieramento aveva
come candidato premier un bonario cattolico come Prodi), e nemmeno dalla furia
di chi promette rivoluzioni o cambiamenti radicali. Nonostante tutto, la larga parte
della massa elettorale continua a definirsi moderata, preoccupata del proprio
conto in banca che, nel bene o nel male, continua a possedere, imbestialita sì
con la classe dirigente ma nel frattempo refrattaria a soluzioni troppo
radicali.
Una porzione di elettorato il cui
primo desiderio è la riduzione della pressione fiscale, attuata possibilmente
non con una lotta all’evasione fiscale (vista come un simpatico vezzo) ma
possibilmente con un attacco senza mezzi termini ai privilegi e alla corruzione
della classe politica. Imbevuta delle varie denunce sciorinate nei salotti
televisivi e fine conoscitrice di ogni singola pagina dell’(ottimo) libro «La
Casta», questa schiera di cittadini elettori nutre il fermo convincimento che
la causa di tutti i guai del mondo sia da far risalire alle gozzoviglie del
Parlamento. Riduci le auto blu e sconfiggerai la disoccupazione giovanile.
Elimina le spese della buvette di Montecitorio e il dissesto idrogeologico sarà
solo un brutto ricordo. La mafia? Detto fatto, riduciamo lo stipendio ai
barbieri di palazzo Madama ed è tutto sistemato.
Assai indicativo a tal riguardo
un sondaggio dell’Ipsos condotto nell’aprile del 2012. Alla domanda: «Cosa deve
essere tagliato della spesa pubblica?» ben il 57% del campione discettava
disinvoltamente di sprechi e inefficienze pubbliche. All’interno di questo
settore scopriamo che la stragrande maggioranza (l’83%) nutriva la
convinzione che ridurre i parlamentari e i costi della politica sia
praticamente sufficiente a farci dimenticare i dissesti delle finanze
pubbliche, il 48% si scagliava contro gli stipendi dei dirigenti di Stato e il
37% ci aggiungeva la sforbiciata degli enti inutili. Probabilmente non basterà
spiegare a questi intervistati che i pur rivoltanti sprechi pubblici
corrispondono ad una quota di denaro pubblico consistente sì, ma sicuramente
non tale da rimettere in carreggiata il Paese. A dirla tutta, a questa fascia
di elettorato non interessa granché (anzi, può darsi pure che lo auspichi) che
un taglio alla spesa pubblica sufficiente da rendere cospicuamente più leggero
il carico fiscale debba intaccare ulteriormente i servizi e le protezioni sociali.
L’importante è che non si vada ad urtare i propri interessi e che non ci si
azzardi a scalfire le piccole e grandi illegalità quotidiane.
Una corrente di pensiero ben
consolidata, sostenuta vigorosamente da non pochi editorialisti e commentatori
di ogni genere, rintuzzata dalle insistenti richieste che arrivano dalle
istituzioni sovranazionali, ben assimilata da una quota non indifferente di
lobby e dai più disparati gruppi di pressione. Rispettabile, sia chiaro.
Marcatamente di destra, indubbiamente.
Eppure attualmente questa base
moderata si ritrova priva di un vero punto d’appoggio politico. La feroce lotta
che le forze politiche conducono pur di accaparrarsi questa succulenta fetta di
elettorato non fa altro che disorientare questa massa, confusa come una
damigella con decisamente troppi e decisamente troppo chiassosi pretendenti.
Con l’inevitabile tramonto
politico di Silvio Berlusconi, incarnazione e primo aedo di questa
considerevole pattuglia, con naturale accanimento lo schieramento autodefinitosi
di destra si abbandona ad una diatriba senza esclusione di colpi per decidere
chi ne deve ereditare la primazia. C’è Raffaele Fitto, democristiano dalla cute
agli alluci la cui instancabile posizione anti-governativa sembra mirata più
all’esasperazione del conflitto interno al partito che ad autentica
convinzione. C’è Corrado Passera, che riecheggia la stagione dei tecnici
prestati alla politica (perché, in fin dei conti, a detta di molti per far
quadrare i conti pubblici basta un contabile senza troppi fumi ideologici in
testa) ottenendo una sporadica ribalta mediatica grazie ad una sequela d’implacabili
attacchi frontali all’esecutivo. C’è una Forza Italia aggrappata al vascello
traballante del vecchio leader, pronta a pendere dalle sue labbra nella
speranza che solo dall’anziana fenice potrà rinascere il centrodestra. C’è
appunto il vecchio leader, Berlusconi, la cui possibilità di vittoria
elettorale è talmente velleitaria da costringerlo una volta per tutte ad
adoperare il peso dei suoi parlamentari esclusivamente per ottenere
contropartite aziendali/giudiziarie/familiari. C’è Flavio Tosi, pronto a
forgiare una Lega paradossalmente antidemagogica, concreta e pronta a
governare.
Rimane indubbio, però, che anche
a sinistra si sia sempre provata una malcelata acquolina in bocca dinnanzi ai
temi fondanti dell’ideologia moderata. Tolto dalla circolazione il temuto
difensore delle tasse Vincenzo Visco, portato un inconsueto Stefano Fassina a
declamare di fronte ad un’estasiata platea di commercianti un tema facilmente
fraintendibile come l’evasione di sopravvivenza, costretto il governo Letta a
passare gran parte del suo tempo appresso ad una pasticciata abolizione dell’Imu
(con uomini del suo esecutivo, come Zanonato, pronti a fare strame dei già
pallidi limiti al contante), anche la sinistra apparentemente più ancorata ai
suoi valori primordiali non ha saputo resistere all’attrazione dell’universo
ideologico dei moderati. Bazzecole, però, se confrontate all’attacco di
artiglieria pesante che Matteo Renzi ha lanciato fin dal suo esordio di
segretario pur di accaparrarsi questa fetta di elettorato. Con risultati
tangibili in pochi mesi, considerato l’inaudito tripudio alle elezioni europee
che ha fatto confluire nel Pd una variegata miscellanea di elettorato
propedeutica del mai dimenticato progetto di «partito della Nazione» pronto ad
accogliere senza remore tutti coloro che dichiarano fedeltà assoluta al suo
segretario, al suo gioviale entusiasmo e alla sua inconsistente visione politica.
Riuscirà il «partito della
Nazione» a mantenere sotto il proprio tetto l’universo moderato per un discreto
periodo di tempo? Per Renzi l’operazione è indispensabile al fine di proseguire
la sua carriera nei palazzi del potere, e a tal scopo il suo nemico più insidioso
non è tanto la frangia più sinistrorsa del suo partito (la cui denigrazione,
anzi, giova al risultato) bensì la possibile ricostruzione di un polo moderato
a lui alternativo. Avversari agguerriti e difficilmente inquadrabili in un’ottica
di governo come Grillo e Salvini non fanno altro che cementare la porzione dei
moderati tra le fila del Pd, regalando al segretario dem la paradisiaca
opportunità di una campagna comunicativa basata sulla contrapposizione tra
forze di governo e forze estremiste antisistema.
Un timore, quello del polo
moderato di centrodestra, comune fra l’altro anche all’arrembante leader leghista,
che si contende con Renzi gli elettori berlusconiani nella speranza (temo vana)
di portarli in un agglomerato melmoso che mescola lepenismo, folklori locali e
Tea Party. Rimane comunque il fatto che Salvini e Renzi condividano
sottotraccia la medesima battaglia finalizzata a tenere ben disgiunti i vari
fronti dell’area popolare, in particolar modo Forza Italia e Nuovo
Centrodestra.
Ci siamo infatti dimenticati dell’altra
variabile, apparentemente secondaria, del gioco dei moderati: quell’Angelino
Alfano che vuole sì a tutti i costi entrare tra i rifondatori del campo, ma si
ritrova incastrato nel capire se la strada gli sarà più agevole seguendo un
politicamente frastornato Berlusconi o un Pd che, pur pesantemente renzizzato,
annovera al suo interno una considerevole fetta di nostalgici del Pci. Scelta
ardua, su cui ad essere sinceri il leader Ncd si concentra fin dai tempi del
governo Letta e che sembrava a portata di mano con la forzosa imposizione della
Consulta di un sistema elettorale proporzionale. Un proporzionale che
teoricamente dovrebbe venir sostituito con l’Italicum prima delle future
elezioni politiche. Teoricamente.
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