Prima o poi, come si suol dire, i
nodi vengono al pettine: nonostante l’interessato ripetersi di rinvii e lo
spasmodico protrarsi di tecniche di rimando, dopo anni la questione pare essere
giunta alla sua conclusione lasciando all’attuale governo la patata bollente di
un deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia europea per non aver fatto
pagare ai propri allevatori irrispettosi delle quote latte una multa di almeno
1,3 miliardi di euro. Una vicenda che racchiude in sé molti tra i guai del
mondo contemporaneo: il bizantinismo e la sospetta assurdità delle normative
vigenti, la promiscuità tra interessi politici e interessi di categoria, la
spudorata attività lobbistica e l’inconsistenza decisionale di una classe
dirigente a cui basta lo sventolio di una lieve minaccia o il sussurrio di una
pressione per dimenticare la propria mansione e scaricare disinvoltamente sulla
massa ignara di cittadini onesti un costo, il più delle volte economico,
spropositato e profondamente ingiusto.
La vicenda comincia nel 1984,
quando l’Unione Europea stabilisce dei limiti (le «quote») di produzione di
latte a cui ogni paese deve sottostare pur di garantire un’omogeneità a livello
continentale. Eccedere nella produzione comporta una multa per l’allevatore,
solitamente di portata non indifferente per il bilancio aziendale. Già nella
fase iniziale, la vigile attenzione degli interessi più svariati comincia a far
sentire il suo fiato sul collo: l’allora commissario europeo all’Agricoltura, Paul
Daslager, si adopera anima e corpo affinché il suo paese (la Danimarca) nonché
il resto dell’Europa settentrionale possa godere della fetta di torta più
consistente. Avviene così che fino al 2009 all’Olanda era concessa una
produzione di 112 milioni di quintali, mentre all’Italia (pur disponendo del
quadruplo di abitanti) era imposto il limite di 105. Imposto, però, è un
vocabolo che suona assai indigesto per i circa 110mila allevatori che nel 1995
risultavano titolari di quote latte, tanto più quando al governo arriva un
partito, la Lega Nord, che nel latte (o meglio, nei suoi produttori) ha visto
uno dei suoi più fedeli carburanti elettorali.
Tanto per rendere più chiara la
questione, in quegli anni arriva a sbarcare in Parlamento Giovanni Robusti, che
di lì a poco raggiungerà l’apice dei Cobas del latte non prima però di aver
fondato, nel 1998, una società di consulenze agricole (la Cesia) tra i cui
azionisti più importanti figurava Fin Group, la finanziaria del partito
nordista. Come di consueto, i problemi giudiziari (sia ordinari che contabili)
del Robusti non impediranno a quest’ultimo di continuare a rimanere un
importante punto di congiunzione tra la lobby degli allevatori refrattari al
rispetto delle regole e la Lega Nord, la quale difatti assicurerà al leader
sindacale, siamo nel 2008, una comoda poltrona all’Europarlamento.
Non è probabilmente una
coincidenza il fatto che uno degli ultimi atti del primo esecutivo Berlusconi,
ancora per poco alleato di Bossi, sia stato quello di cancellare con un colpo
di penna le multe per gli allevatori che nell’arco del decennio (il decreto
risale al dicembre 1994) abbiano sforato le direttive comunitarie. Un regalo
natalizio per i detentori delle quote ma un sonoro pezzo di carbone per tutti
gli altri cittadini, visto che si stabilisce che le sanzioni verranno
generosamente pagate (parliamo dell’equipollente di circa due miliardi di euro)
dalle casse pubbliche.
In compenso, questa la promessa,
una manovra del genere non sarebbe più dovuta accadere. Si giurò che da allora
in avanti gli allevatori si sarebbero assunti i loro oneri senza mettere in mezzo
la collettività.
Ovviamente le cose si misero
diversamente: timorose di non compromettere i rapporti con una succulenta
categoria come gli allevatori e ben oliate dalle pressioni lobbistiche di
Robusti&co. (come dimenticare le autostrade imbottite di trattori o
insozzate di latte e liquami?), le forze politiche di ogni colore politico
tacquero di fronte alla spregiudicatezza della categoria. Come scrive il
cronista Sergio Rizzo, «i più furbi, servendosi di cooperative fantasma,
trasmigravano da Cuneo a Udine, inseguiti dai magistrati e lasciando dietro di
sé milioni da pagare dopo aver sforato allegramente le quote di produzione che
allora si compravano e vendevano. L’andazzo continuò per anni, con i furbetti
che si arricchivano e gli allevatori onesti che si impoverivano».
Finché, con il trionfo di
Berlusconi alle elezioni politiche del 2008, per gli allevatori si avvera il
sogno più celestiale: un leghista, per la precisione si tratta di Luca Zaia,
finito al vertice del ministero dell’Agricoltura. Per salvare capra e cavoli e
non scontentare nessuno, Zaia affronta la questione con una mossa astuta. Prima
emana un provvedimento che obbliga, pur gradualmente, il pagamento delle multe
per gli allevatori detentori delle quote (scesi ora a poco più di 43mila), ma
poco dopo affida all’arma dei Carabinieri nientemeno che un’inchiesta destinata
a produrre un esito sconvolgente. Stando a quanto risultato, infatti, pare che
le istituzioni fossero in possesso di dati totalmente fuorvianti circa il
settore lattiero-caseario nel nostro Paese. Tutto l’universo delle quote latte finisce
per essere messo in discussione, mentre nel frattempo l’effetto dinamitardo
dell’inchiesta costringe le Procure a indagare sui motivi della palese
divergenza dei numeri (si sospetta ad esempio, considerato il numero di vacche
ben al di sotto di quello registrato, un traffico clandestino di latte
proveniente dall’estero per rimpinguare le produzioni casearie). Che la Lega
abbia argutamente bluffato quando prometteva «il pagamento oneroso sulle multe»
lo si nota anche dall’epurazione del senatore Dario Fruscio come capo dell’Agenzia
adibita al pagamento delle multe delle quote latte, colpevole (pur professando
la fede leghista) di essere troppo rigoroso nei confronti degli allevatori coinvolti
nella vicenda.
Come accade fin troppo spesso, la
confusione è divenuta la migliore alleata della conservazione a tal punto che
da quando è sbucata fuori quella dirompente inchiesta la questione delle quote
ha conosciuto il più fondato pretesto per non venir affrontata, in nessuno dei
vari cambi di governo e nemmeno in seguito alle pressioni (spesso corredate
dalla minaccia di ulteriori sanzioni) delle istituzioni comunitarie. Ancora
nell’ottobre 2014 la Corte dei Conti era costretta a concludere che «lo stato
dei recuperi è fermo perché la riscossione esattoriale non è stata attivata».
Solo il recente deferimento alla
Corte di giustizia europea ha obbligato l’attuale ministro Martina all’amaro
compito di spedire (alla buon’ora!) le cartelle esattoriali agli allevatori,
proprio a ridosso della fine delle quote latte, prevista per il primo aprile.
L’accumularsi pluriennale delle
multe ha raggiunto vette da capogiro: senza contare il condono attuato dal
primo governo Berlusconi, attualmente parliamo di circa due miliardi e mezzo
che in teoria dovrebbero essere a carico degli allevatori, ma in pratica su 330
milioni la magistratura ha già disposto che vengano pagati dalla collettività,
per altri 466 milioni è stata chiesta la rateizzazione, su 532 milioni è attivo
il contenzioso, 815 milioni sono in dirittura d’arrivo (o almeno si spera)
mentre 108 milioni, per una ragione o per l’altra, sono ormai irrecuperabili.
Tirando le somme, allo stato attuale gli allevatori hanno sborsato per le multe
non più di 286 milioni. In compenso, i comuni cittadini italiani che delle
quote latte probabilmente non sanno nulla sono stati costretti a sborsare
finora (e sottolineo finora) 4.208.433.627 euro, il che significa all’incirca
70 euro a cranio (compresi vecchi e bambini), oppure qualcosa come il totale
dell’Imu sulla prima casa, oppure anche come la somma che i corsi di formazione
siciliani hanno fagocitato da una decina d’anni a questa parte. Uno spreco
additato spesso e volentieri come simbolo del degrado meridionale da quegli
stessi nordisti che, almeno fino a qualche mese fa, vantavano una mai provata
superiorità in termini di oculatezza.
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