«Sono tantissimi i nostri che dicono: ma perché dobbiamo
andare al governo ora? Ma chi ce lo fa fare? Ci sono anch’io tra questi, nel
senso che nessuno di noi ha mai chiesto di andare a prendere al governo».
Questo, incredibile a dirsi, era il ragionamento che Matteo Renzi spiegava ai
giornalisti meno di una settimana fa. Gli faceva eco la sua angelica discepola,
Maria Elena Boschi: «Il mio augurio è che Renzi diventi Presidente del
Consiglio attraverso l’investitura popolare». Più categorico un altro membro
della nuova segreteria, Davide Faraone: «Chi propone Matteo premier, lo fa con
lo spirito di quei democristiani che volevano far fuori un leader e lo
promuovevano a Palazzo Chigi».
Poi, d’improvviso, il repentino cambio di rotta. Renzi, di
punto in bianco, esige la poltrona di Letta. Proprio lui, che tutte le
mediazioni e i cavilli legislativi li guardava con il distacco di una bambina
schizzinosa, proprio lui che il governo di larghe intese lo viveva come un
impiccio e un motivo d’imbarazzo per il partito. Non vi sono, inoltre, dei
motivi di interesse personale a spingere il sindaco a Palazzo Chigi: fare il
Presidente del Consiglio senza un mandato popolare in un governo che include
elementi della destra ex-berlusconiana non è la posizione più ambita
all’interno del Pd. E allora a cosa si deve questa conversione? Il sospetto è
che, in qualche modo, il sindaco sia stato sospinto da un’onda partita da tutti
gli organi politici-imprenditoriali del Paese. Nelle ultime settimane si è
consumato un vero e proprio ammutinamento nei confronti dell’esecutivo.
Il segnale più esplicito era partito da Confindustria.
Squinzi aveva detto chiaro e tondo che, se il governo si fosse presentato al
direttivo «con la bisaccia vuota», «tanto varrebbe andare a votare». Una
posizione dura, ben descritta da Cicchitto del Ncd: «Non si è mai visto un
presidente di Confindustria trattare così un Presidente del Consiglio. La
verità è che si sono schierati con Renzi. Vogliono la staffetta a Palazzo
Chigi». Sorprendentemente, la
Cgil non sembrerebbe pensare cose molto diverse rispetto a
Squinzi.
Nel mondo imprenditoriale anche le grandi aziende pubbliche,
in particolare Scaroni dell’Eni, erano settimane che bramavano per un governo
Renzi. Lo stesso Scaroni, prima di un’apparizione a «Porta a Porta», si era avvicinato al
segretario dem dicendogli tranquillamente: «Matteo, hai visto quello schema che
ti ho mandato? Se c’è qualcosa che non si capisce, chiamami…» il riferimento, fin troppo esplicito, è al cambio dei vertici delle aziende pubbliche (tra
questi Eni, Enel e Finmeccanica) che si consumerà questa primavera. Il sindaco,
agli occhi di Scaroni, rappresenta indubbiamente una garanzia maggiore sugli
incarichi da assegnare.
Queste le posizioni del mondo economico. Nel mondo della
politica la storia è più complessa: nelle ultime settimane i rapporti tra Letta
e Renzi erano ai minimi termini. L’incomunicabilità era totale. Letta stava
preparando un nuovo programma («Impegno 2014») corredato da una nuova squadra
di governo. Renzi, da parte sua, non si fidava. Voleva un cambiamento vero,
audace. I propositi di Letta venivano liquidati (sebbene non ufficialmente) come
«un misero rimpastino». Per questo motivo, il sindaco cercava di rinviare per
il maggior tempo possibile la presentazione del nuovo programma: prima bisogna
aspettare che le riforme superino il primo scoglio in Aula, poi bisogna
discutere i vari punti del programma nella Direzione del partito, e solo allora
si può fare un patto di governo solido e duraturo. In poche parole, il
programma per il 2014 sarebbe stato messo in moto solo a metà dell’anno. Questa
situazione stava irrimediabilmente portando alla palude, all’immobilismo più
deleterio, un immobilismo rischioso dal punto di vista del consenso popolare in
particolar modo per il Pd.
Fin dall’inizio di febbraio la «minoranza interna» al
partito (in particolare la fronda bersanian-dalemiana) preme affinché il
segretario assuma l’incarico di governo in modo da porre fine a questo logoramento.
Le chiacchiere iniziano a circolare, anche Alfano sembra persuaso:
l’immobilismo può uccidere anche lui. Serve assolutamente un cambio di passo,
un cambio di passo che dev’essere condiviso da tutto il Pd. Se il Pd non è
compatto, il Ncd non ha motivo di collaborare col governo. Voci di corridoio
dicono che Alfano, all’inizio della scorsa settimana, abbia pronunciato in
Transatlantico le seguenti parole: «Noi vogliamo tanto bene a Letta, ma
vogliamo più bene a noi stessi…»
Per le medesime ragioni, anche i partitini di centro (ora
sbriciolati in una caterva di frazioni) auspicano un cambio repentino. Come se
non bastasse, i parlamentari di praticamente tutta la scena politica iniziano
anch’essi a convincersi che la cosa migliore sia la «staffetta»: un governo
Renzi si prospetta più duraturo e compatto, il soggiorno a Roma è garantito per
più tempo.
Il sindaco da principio rifiuta e si dimostra ostentatamente
contrario a ogni manovra di palazzo, ma le pressioni aumentano e iniziano a
contagiare anche alcuni «fedelissimi». Il segretario capisce che non c’è
alternativa. Letta è solo, abbandonato e tradito da tutti. La scelta è stata
già fatta.
La sera di domenica 9 febbraio Renzi si convince: a conferma
di ciò vi è una telefonata fatta ad Arcore in cui il sindaco spiega a
Berlusconi che la «staffetta» è compiuta e in cui garantisce al Cavaliere che il cammino delle
riforme non subirà scossoni. Il dado è tratto.
C’è solo un piccolo inconveniente: Letta non vuole saperne
di lasciare l’incarico. Continua a dire che il programma è pronto, che ci sono
stati degli importanti risultati, che non ci sono motivi validi per passare la
mano.
È a questo punto che inizia il vero e proprio dramma per il
premier: nel corso di questa settimana il tradimento diverrà sfacciato, quelli
che credeva fossero dei bastoni solidi su cui appoggiarsi si trasformeranno in
ramoscelli scricchiolanti. Gli viene detto senza mezzi termini che il governo
non può proseguire di questo passo. Lui ribatte (e un fondo di ragione ce l’ha)
che è stato Renzi a voler rimandare alle calende greche il suo programma. Ma
ormai la situazione è chiara. Letta è rimasto solo.
Per tre giorni uomini di ogni corrente del suo partito gli
hanno chiesto le dimissioni. Anche uomini sui quali nutriva una fiducia
incondizionata. Tra questi Cuperlo, ma il colpo maggiore è stato quello di
Franceschini. Letta e Franceschini hanno avuto una lite furibonda in cui, pare,
il premier abbia giurato vendetta dicendo che, nel caso di ripartenza del
governo, Franceschini sarebbe stato escluso dalla squadra. «Giuda» lo hanno
soprannominato i pochissimi parlamentari rimasti fedeli a Letta.
Il Primo Ministro prova disperatamente a chiedere aiuto a
Napolitano durante un breve colloquio tenutosi martedì, ma il Capo dello Stato
non può nulla e non può che ripetere quello che dice da giorni: «Dev’essere il
Pd a decidere la sorte del governo». Se tutto l’arco parlamentare auspica un
cambio di passo il Quirinale è impotente. L’unica cosa che il Colle può
impedire è lo scioglimento delle Camere (con il proporzionale puro in vigore le
urne sarebbero solo una perdita di tempo, e inoltre il governo non è materia
che spetta ai cittadini).
Mercoledì c’è l’incontro più importante: quello tra Letta e
Renzi. Un incontro burrascoso, tant’è vero che all’uscita le due personalità
danno una versione diversa: secondo il sindaco Letta ha capito che non c’è più
nulla da fare, secondo il premier ognuno è rimasto sulle proprie posizioni. Il
Presidente del Consiglio ha ancora un fondo di speranza, ma assomiglia sempre
di più a un Don Chisciotte che sfida i mulini a vento. Fa una mossa disperata,
convinto di smuovere gli animi: alle 18 di mercoledì sfodera il suo programma
in conferenza stampa, a dimostrazione che un progetto esiste, che l’immobilismo
è una scusa, che l’esecutivo può proseguire il suo cammino. Solo una sfiducia
del Parlamento può convincerlo a lasciare la sedia. Letta ci credeva veramente
in qualche miracolo parlamentare: ha addirittura telefonato al convalescente
Bersani, ricevendo la rassicurazione che i parlamentari bersaniani non
avrebbero tradito il governo. Il passare delle ore però lo convince che non è
il caso di mostrare il pugno di ferro, e che un passaggio parlamentare può solo
rappresentare un umiliazione.
Giovedì 13 febbraio inizia la Direzione del Pd che
deve decidere le sorti del governo. Renzi ringrazia Letta per il lavoro svolto
ma, in maniera spicciativa e senza una motivazione chiara, gli chiede un passo
indietro: c’è bisogno di un nuovo governo, che vada avanti fino al 2018 con la
medesima maggioranza di larghe intese. Quasi il 90% della Direzione approva.
Il tradimento è consumato ed è sotto gli occhi di tutti,
indugiare non ha senso.
Venerdì mattina Enrico Letta rassegna (in lacrime) le
dimissioni al Capo dello Stato. Matteo Renzi è destinato a diventare Presidente
del Consiglio, con la stessa litigiosa maggioranza del governo Letta e senza
alcun mandato popolare.
I due «cavalli di razza» del Pd, gli unici due
ex-democristiani che sembravano manovrare le sorti del partito, sono stati
catapultati in una situazione che non immaginavano e nemmeno auspicavano.
Destra e sinistra, imprenditori e sindacati hanno compiuto la loro scelta con
compattezza e determinazione. I diretti interessati non hanno potuto fare altro
che lasciarsi trascinare da questa onda d’urto, i cui esiti sono ancora un’incognita.
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