George Orwell c’insegna che i
detentori del potere, se intendono accrescere il loro consenso e la loro
supremazia, hanno sempre tra i loro maggiori pensieri il desiderio d’impoverire
il vocabolario dei loro sudditi. È una strana alchimia sociologica: maggiore
capacità espressiva significa generalmente maggiore apertura mentale, e di
conseguenza maggiore libertà di pensiero. Non sorprende quindi se i leader più
ferrati nella comunicazione adottino il concetto opposto, ossia quello di trasmettere
il minor vocabolario possibile in modo da appiattire i princìpi, in modo da
neutralizzare i concetti più ostici, in modo da banalizzare la visione della
società.
L’Italia, da questo punto di
vista, possiede anche «una marcia in più»: nel nostro Paese, infatti, la
complicazione del linguaggio è stata (ed è tuttora) una formidabile pratica
adottata dai burocrati (di fatto i veri padroni della nostra penisola) per
abbindolare i cittadini-sudditi, lasciar prosperare la corruzione e soprattutto
mantenere inalterato il loro immenso e sotterraneo potere. Un esempio? Ecco
cosa scrisse nel 2010 Vincenzo Lissa, segretario generale al Comune di Ariano
Irpino, rivolgendosi al sindaco del suddetto comune: «Ho letto lo scritto
emarginato in epigrafe con tutta l’attenzione che ha meritato. Nulla più.
Vediamo elenticamente perché. Da essa viene in emersione una apodittica
concezione del diritto immaginato come un’astrazione da investire
acriticamente. Infatti è meridianamente epifanica l’indifferenza contenutistica
che implica meccanicisticamente un calco a rime obbligato: la devozione al
culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico» arrivando al punto in
cui «non si può non rilevare la panie della scepsi»…insomma, il fantasma
dell’Azzecca-Garbugli continua ad aggirarsi indisturbato nella vita quotidiana
degli italiani, contribuendo a far dilagare (forse inconsciamente) il concetto
che il «parlar chiaro», furbescamente strumentalizzato da certe figure
politiche per abbandonarsi all’estremo opposto della banalità populista, sia
sinonimo di amministrazione efficiente e trasparente. Matteo Renzi ci sguazza
leggiadramente in questa semplificazione al limite dell’infantilismo; anzi, è
diventata essa stessa il simbolo della sua carriera politica. Sono state le
parole d’ordine a far conoscere Renzi, a renderlo urticante o irresistibile a
seconda degli appetiti. Vediamo le principali (probabilmente le uniche):
Rottamazione
29 agosto 2010, intervista a «La Repubblica »: «Dobbiamo
liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio
distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani…Basta. È il momento della
rottamazione. Senza incentivi».
Lo si può affermare
scientificamente: la figura del «rottamatore» è comparsa ufficialmente nella
lingua italiana soltanto grazie a Renzi. Lo testimonia il Dizionario Treccani,
che ha inserito tale vocabolo solamente nel 2012; esattamente nell’anno in cui
il dibattito sulla «rottamazione» si faceva incandescente contrapponendo coloro
che ritenevano tale sostantivo una recrudescenza squadrista e coloro che lo
ritenevano una semplice goliardata utile per smuovere le acque del partito. Un
dibattito a tratti aspro, che ha raggiunto il suo apice su «l’Unità» del 16
ottobre, quando Michele Prospero scrisse un pezzo in prima pagina il cui titolo
era «Rottamazione, idea fascistoide».
Guardando questa discussione col
senno di poi, si può affermare senza problemi che «rottamazione» è la parola più
riuscita del lessico renziano. Ha sicuramente un forte retrogusto demagogico, ma
sentite cosa ha scritto recentemente Romano Prodi in un articolo passato
inosservato: «Il concetto di rottamazione mi ha interessato fin da quando ero
ragazzo, proprio perché la prima fase dello sviluppo economico postbellico si è
ampiamente fondata sulla rottamazione. L’enorme quantità dei residui militari
lasciati dall’esercito americano è stata acquistata, smontata e ricomposta in
modo da costituire il primo nucleo di una nuova elementare struttura
produttiva. Da tre camion “Dodge” residuati di guerra se ne ricavava uno
pienamente efficiente e si utilizzavano le parti ancora funzionanti degli altri
due come pezzi di ricambio. Il guadagno del “rottamatore” consisteva proprio
nell’utilizzare quanto più si poteva dei vecchi mezzi, vendendo una marmitta,
una batteria, un argano o una gru a coloro che volevano intraprendere qualche
iniziativa. Innumerevoli sono le storie di imprese generate dalla rottamazione
che tuttora prosperano, come la
Fagioli o la
Brevini , la prima costruita su un vecchio Dodge e la seconda
smontando gli ingranaggi delle spolette delle bombe americane. E molti paesi
hanno fondato sulla rottamazione la propria rinascita economica». La frase
successiva suona come un ammonimento: «Non si tratta naturalmente di un
processo elementare perché il buon rottamatore non solo deve conoscere bene
l’arte dello smontaggio ma deve anche sfruttare bene le risorse che questo
processo gli riserva perché, è utile ripeterlo, proprio in questo sta il suo
guadagno».
A ognuno le proprie conclusioni.
Gufi
28 marzo 2014: «C’è un esercito
di gufi che spera che l’Italia vada male», 20 maggio 2014: «I gufi sono i
peggiori direttori commerciali dell’Italia», 20 luglio 2014: «I gufi, le
riforme, i conti non mi preoccupano», 1 settembre 2014: «Gufi o non gufi,
arriveremo a destinazione».
Una domanda a questo punto è
d’obbligo: chi sono questi «gufi»? Di preciso, nessuno lo sa (l’analisi è
formalmente bandita dal pensiero renziano), a livello superficiale, quello su
cui naviga la barca del renzismo, trapela che i gufi sono in buona sostanza
oppositori, critici, scettici e titubanti del fenomeno Renzi, meglio se di
sinistra. Tutti insieme, tutti in un unico calderone: dai burocrati di Stato
all’opinionista del quotidiano, da Corrado Passera all’avventore del bar del
paese, dalla Meloni alla Spinelli, da Borghezio a Civati, da Ostellino a
Rodotà, da chi esprime una critica in buona fede a chi effettivamente vuole
frenare qualsiasi tentativo di riforma. Non esistono distinzioni di sorta, i
«gufi» sono un’entità metafisica su cui scaricare tutte le responsabilità di
quanto avvenuto nell’Italia degli ultimi anni, e per macchiarsi di una simile
colpa basta soltanto esprimere anche la più lieve forma di tentennamento nei
riguardi del premier. Eppure, che ci crediate o no, la «gufi-mania» non è una
trovata originale di Renzi. Qualche anno fa un noto uomo politico inveiva negli
studi di «Porta a Porta»: «Tutti questi signori, D’Alema in testa, sono dei
veterocomunismi che usano metodi stalinisti. E sono dei vecchi gufi!» Volete
sapere di chi si tratta? Forse lo avete già capito: è Silvio Berlusconi.
Proseguendo la ricerca, si scopre però come la figura del perfido rapace
notturno sia apparsa oscura e minacciosa anche in altre occasioni della vita
politica degli ultimi anni: «I gufi dicevano che la crisi avrebbe spazzato via
l’Italia, invece il sistema ha tenuto meglio degli altri», sentenziava nel
gennaio 2010 Giulio Tremonti. E contro i «soliti gufi» ha avuto modo di
sfogarsi anche un altro berlusconiano DOC, Renato Brunetta.
A me è venuto un dubbio: non è
che per caso le ingiurie contro i «gufi» rientrino anch’esse nel patto del
Nazareno?
Professoroni
31 marzo 2014, intervista al
«Corriere della Sera»: «Si può essere in disaccordo con i professoroni o
presunti tali, con i professionisti dell’appello, senza diventare
anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire “non
sono d’accordo”, lo accusano di violare la Costituzione o
attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o
Zagrebelsky».
Vi è una particolare categoria di
«gufi» che merita un suo particolare epiteto: i «professoroni». Anche qui sorge
la domanda: di chi si tratta? E anche qui la risposta si presta a molteplici
ipotesi: si tratta solo dei giuristi firmatari dell’appello contro la «svolta
autoritaria» o si tratta, più in generale, di un attacco al mondo culturale?
Rimane il fatto che, dispiace dirlo, anche in questo caso l’attacco non brilla
per originalità; lo scontro tra gli intellettuali e la politica, difatti, è una
saga che accompagna la storia mondiale da un bel po’ di tempo: Napoleone
Bonaparte si scagliava contro gli «idéologues», il ferreo ministro degli
Interni centrista Mario Scelba inveiva contro il «culturame di certuni»,
Bettino Craxi definì lo storico Ernesto Galli della Loggia «intellettuale dei
miei stivali», un epiteto ben presto sostituito da «politologo da bar», firmato
da Silvio Berlusconi. Una contrapposizione che non attraversa soltanto la
storia, ma la stessa esistenza dell’attuale premier: prima le discussioni con
un insegnante missino ai tempi del liceo, poi l’insofferenza verso il mondo
universitario («tanta parte dei docenti e dei loro collaboratori» vive di
«piccolezze») culminata con un sonoro alterco al momento della discussione
della tesi, poi «la lotta contro le baronie» nel periodo della presidenza alla
Provincia di Firenze che vede il suo zenith quando lo spavaldo signorino arriva
ad invocare il dimezzamento «di botto» e «d’imperio» di tutte le università
italiane, poi ancora la sua stizza verso «la lobby dei docenti» che «condiziona
spesso le nostre scelte», arrivando alla lunga sequela di schiaffi alle
sovrintendenze (l’ennesimo corpo intermedio d’abbattere): dapprima l’accusa che
i beni culturali sono trattati come «un giochino per dotti professori cresciuti
a pane e libri», poi l’auspicio che la politica «tolga a baronie e
sovrintendenze la regia di questi settori». Insomma, la battaglia contro un
certo mondo ha radici salde e profonde nella mentalità renziana. Eppure il
termine «professoroni» rappresenta una novità assoluta. Uno sberleffo a metà
strada tra Lucignolo e Rugantino, dal sapore antico, confermato in questo senso
da un passo de «L’uomo medievale» (J. Le Goff, Laterza, 1993): «Mentre
“magister” indica sempre una qualità di elevatezza morale e dignità indiscussa,
“professor” sovente reca con sé una traccia di ironia verso la boria e la
presunzione di personaggi che confidano troppo nel loro sapere». Una
definizione che calza a pennello con la concezione renziana dell’universo
culturale.
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