Passerà l’angosciante
perturbazione, i volontari torneranno alla vita di sempre, l’acqua putrida che
ha invaso le strade si prosciugherà, le lacrime degli alluvionati evaporeranno,
l’inchiostro dei quotidiani verrà adoperato per altre vicende, le gole disturbate
dai discorsoni (e dagli sbraiti) di politici ed «esperti» di ogni risma si
ammansiranno, i negozi deturpati verranno ripuliti, le scuole riapriranno e
tutti torneranno alla loro vita, alla vita di sempre, alla vita di tutti i
giorni. Le alluvioni rimarranno un incubo effimero e passeggero, relegato ad un
passato che è meglio dimenticare. L’Italia continuerà ad assassinare se stessa,
come se nulla fosse accaduto. Il suo terreno verrà visto solo come un’ottima
piattaforma ove speculare e cementificare: il divoramento del terreno fertile e
l’invasione barbarica del cemento proseguiranno spavaldi e arzilli, senza che
nessuno si appresti ad ascoltare gli studiosi che da anni ci avvertono che il
consumo del suolo nel nostro Paese, nonostante l’elevata presenza di montagne,
si colloca al doppio della media europea. La Germania , pur disponendo
di una popolazione nettamente maggiore della nostra e di un’economia
industriale all’avanguardia, ha consumato il proprio territorio per una
percentuale che non va oltre il 6,8%; la media europea non supera il 4,3%
mentre noi, per l’appunto, ci collochiamo notevolmente più in alto di tutti
andando oltre l’8%. E mentre, secondo Legambiente, la frenetica speculazione
edilizia ci ha fatti arrivare al punto che nella sola città di Roma ci siano
qualcosa come 250mila case vuote, l’agricoltura è costretta a ritagliarsi un
ruolo sempre più marginale tanto da non riuscire a sopperire nemmeno al 75% del
fabbisogno nazionale. Non potrebbe essere altrimenti, se si considera che in quarant’anni
sono stati inghiottiti cinque milioni di ettari, qualcosa come Lombardia,
Liguria ed Emilia-Romagna messe insieme. Ogni giorno cento ettari di terreno
fertile si trasformano in cemento. La Liguria , in particolar modo, è non a caso una
delle regioni che ha subito la maggiore speculazione: secondo il dossier
«Cemento Spa» del 2012 redatto da Legambiente, è il territorio con maggiori
infrazioni accertate nel ciclo del cemento (da solo rappresenta il 25,2% delle
infrazioni di tutto il nord-Italia), e allo stesso tempo (una semplice
coincidenza?) è uno dei territori del settentrione con maggiori infiltrazioni
mafiose (dei tre comuni del nord sciolti per mafia due sono liguri).
Eppure addebitare i disastri
ambientali alla sola cementificazione sarebbe eufemistico: è il discorso più
generale dell’incuria dell’uomo verso il territorio a dare la maggiore spinta
al proseguire ininterrotto di disastri, un’incuria che passa anche per
sottigliezze, che forse sottigliezze non sono, quali l’abbandono delle montagne
e delle campagne appenniniche in particolar modo. A titolo di esempio, uno
studio del Dps (Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica) ha
certificato che dal 1971 a
oggi le zone superiori ai 600
metri d’altezza hanno perso in Emilia-Romagna il 52%
della popolazione, in Veneto il 33,3% e in Molise il 46,9%. Un esodo. Tanto per
rimanere nei territori più recentemente colpiti, il territorio della Liguria è
composto per il 70% da boschi di latifoglie (specie castagni antichi) che fino
a cinquant’anni fa venivano accuditi e sfruttati economicamente dalle
popolazioni locali: si passavano settimane a raccogliere le castagne, poi si
accumulavano i ricci e le foglie e gli si dava fuoco. Il bosco rimaneva pulito.
Ora che i liguri hanno pian piano abbandonato quest’attività, il bosco è
rimasto incustodito, le foglie si sono stratificate per anni le une sulle altre
e così, quando arriva la pioggia, il terreno del bosco non riesce più ad
assorbire l’acqua, la quale scorre indisturbata, passa sopra il tappeto di
foglie per scendere a valle, imbottire i torrenti e provocare i disastri.
Più di un anno fa la Commissione ambiente
della Camera aveva approvato all’unanimità una risoluzione che a leggerla fa
venire i brividi: «Le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o
alluvione) rappresentano circa il 10% della superficie del territorio nazionale
(29.500 chilometri
quadrati) e riguardano l’81,9% dei comuni (6.633); in esse vivono 5,8 milioni
di persone (9,6% della popolazione nazionale), per un totale di 2,4 milioni di
famiglie; in tali aree si trovano oltre 1,2 milioni di edifici e più di due
terzi delle zone esposte a rischio interessa centri urbani, infrastrutture e
aree produttive…La pericolosità degli eventi naturali è senza dubbio
amplificata dall’elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano: oltre
il 60% degli edifici- circa 7 milioni- è stato costruito prima dell’entrata in
vigore della normativa antisismica per le costruzioni e, di questi, oltre 2,5
milioni risultano in pessimo o mediocre stato di conservazione e, quindi, più
esposti ai rischi idrogeologici». Inoltre: «Il progetto Iffi (Inventario dei
fenomeni franosi in Italia), realizzato dall’Ispra e dalle Regioni e Province
autonome, ha censito ad oggi oltre 486mila fenomeni franosi, il 68% delle frane
europee si verifica in Italia…La gravità del problema appare altresì evidente,
se si pensa che, a partire dall’inizio del secolo scorso, gli eventi di
dissesto idrogeologico gravi in Italia sono stati oltre 4.000 e hanno provocato
ingenti danni a persone, case e infrastrutture, ma, soprattutto, hanno provocato 12.600 morti,
mentre il numero dei dispersi e degli sfollati supera i 700mila…Gli effetti
conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi
estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa
ogni 15 anni, prima degli anni ’90, a 4-5 l’anno».
In nome della speculazione e in
nome degli interessi più disparati sono stati abbandonati alla peggiore incuria
anche molti degli incantevoli luoghi d’interesse storico e culturale, i quali
finiscono anch’essi per non resistere di fronte alle prime piogge torrenziali.
Nel silenzio generale, uno studio di Carlo Cacace, Carla Iadanza, Daniele
Spizzichino e Alessandro Trigila dell’Ispra (Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale) ha rivelato che, secondo un primo
censimento, nel nostro Paese ci sono 5.511 beni culturali a rischio frana e
11.155 beni a rischio idraulico. Una realtà che trova, ahimé, cospicue
conferme: da alcuni mesi a questa parte si vanno disfacendo i bassorilievi
della Galleria Umberto I di Napoli, gli affreschi di Santa Maria Nova di
Sillavengo, le mura medievali di Volterra (Pisa), le mura dell’antico stadio
romano di Pozzuoli, il castello medievale di Stigliano (Matera), le mura di San
Vito Chetino (Chieti), la rocca abbaziale di Subiaco, il castello normanno di
Maddaloni, la rocca di Sutera, la «solita» Pompei (secondo il presidente
dell’Osservatorio patrimonio culturale Antonio Irlando «per ogni crollo reso
noto ve ne sono almeno nove di cui non si ha notizia»), le Gualchiere di
Remole, il castello di Frinco (Asti), le mura aureliane di Roma, la cinta
muraria seicentesca di Palmanova (Udine) e moltissime altre perle della nostra
penisola. Il sindaco di Palmanova, Francesco Martines, spiega chiaro e tondo
come questi crolli siano dovuti innanzitutto al menefreghismo generale: «Non è
un caso se lo smottamento [di un tratto della fortificazione seicentesca di
Palmanova, ndr.] ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel
piano di pulizia della vegetazione infestante. Gli alberi e i fichi selvatici
con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai
veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si
caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e
sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali,
i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto…»
Eppure noi cittadini a tutto
questo non prestiamo ascolto, alle grida di dolore che il nostro delicato e
sublime territorio ci rivolge preferiamo tapparci le orecchie e proseguire le
nostre attività quotidiane. Le istituzioni, magari ben indottrinate dalle lobby
e dagli interessi privati più esecrabili, si adeguano a questo andazzo senza
che nessuno si mobiliti o s’indigni: ad esempio, il Fondo Rischio Idrogeologico
è passato nel periodo 2008-2013 da 551 milioni a 84 milioni. La legge di
Stabilità 2014 redatta dal governo Letta lo aveva decurtato portandolo
addirittura a 20 milioni (il 96% in meno rispetto al 2008), e solo la
commozione popolare seguita ai disastri della Sardegna farà innalzare la quota
a 30 milioni, un sedicesimo rispetto a quanto richiesto dalla risoluzione della
Commissione ambiente. E pazienza se poi il conto viene presentato con tutti gli
interessi del caso: sia in termini economici (secondo l’Ance, l’Associazione
dei costruttori, «il costo complessivo dei danni provocati in Italia da
terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di
euro»), sia, come abbiamo visto, in termini di vite umane, di degrado
ambientale e di distruzione del patrimonio artistico. Cerchiamo di ricordarlo
sempre, non soltanto quando il fango sommerge le nostre case.
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