venerdì 27 febbraio 2015

La pericolosa indulgenza verso l'evasione



È difficile trovare argomenti che mettano d’accordo non solo gli eletti delle varie forze politiche, ma anche i loro elettori e molto spesso persino i principali mezzi di comunicazione. L’evasione fiscale è uno di questi: vige una tacita sottovalutazione del problema, lo s’inscrive unicamente come pratica di sopravvivenza, si finge di considerarlo un male minore, lo si scavalca agevolmente smuovendo la sempreverde predica contro i membri del Parlamento («sono loro gli unici a rubare!») e in fin dei conti si finisce per ritenerlo un vezzo di cui giustamente usufruisce chi, a meno che non sia un politico, se lo può permettere.
La soluzione, comunque la si pensi e in qualsiasi versante ci si trovi, è una sola: ridurre le tasse, in modo tale che pagarle diverrebbe una pratica piacevole. «Soltanto una riduzione della pressione fiscale», questo un passaggio dell’editoriale di Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera» del 22 luglio 2012, «può spingere l’evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell’evasione», e tendenzialmente gli italiani la pensano come lui. Ma è davvero così? Alessandro Santoro, docente universitario a Milano Bicocca che vanta tra i suoi trascorsi una consulenza al ministero delle Finanze, in un saggio appositamente intitolato «L’evasione fiscale» arriva ad una conclusione assai diversa: «Il confronto internazionale indica che i paesi dove il livello delle aliquote è da sempre più elevato del nostro sono invece caratterizzati da livelli di evasione molto più ridotti. Ad esempio, secondo i dati riportati in uno studio di qualche anno fa da Alesina e Marè, alla metà degli anni Novanta l’evasione in Norvegia o in Svezia era pari o di poco superiore al 10 per cento del Pil, un livello inferiore alla metà di quello italiano, a fronte di una pressione tributaria ben superiore». Si prosegue con un'affermazione interessante: «L’evasione non sembra un fenomeno recente in Italia: sempre Alesina e Marè ricordano che gli italiani evadevano molto anche quando le aliquote, e la pressione tributaria complessiva, erano ben al di sotto della media europea.» Ed effettivamente si rimane non poco stupiti nel notare come, secondo una ricerca redatta nel 2011 da Contribuenti.it, la Svezia pur godendo di una pressione fiscale monstre del 56,4% conosca un’evasione fiscale che l’Italia se la sogna di notte, ossia del 7,6%.
Evidentemente non è l’ammontare del carico di tasse la causa scatenante dell’insanabile dissapore di una quota non indifferente di cittadini nei riguardi dei propri adempimenti fiscali. La radice del problema va ricercata altrove, e a tal proposito di grande ausilio risulta un rapporto del 2012 redatto dalla Confcommercio, «Una nota sulle determinanti dell’economia sommersa». Adoperando dati della Banca Mondiale del World Economic Forum, vengono presi in esame i quattro fattori ritenuti più determinanti nel diffondersi anomalo dell’evasione fiscale: il rapporto con lo Stato (ossia la percezione che si ha sul modo in cui vengono impiegati i proventi delle tasse), la difficoltà negli adempimenti fiscali (oneri burocratici, repentini cambiamenti di regole, scadenze ballerine etc.), il carico fiscale e la capacità delle amministrazioni (soprattutto giudiziarie) nello sgominare le attività illecite.
Partendo dal primo punto, se la fiducia che gli italiani hanno dello Stato (assai scarsa, visto che siamo al terz’ultimo posto su ventisei e all’ottantesimo posto su 142 nella classifica del Wef) divenisse paragonabile a quella dei belgi risparmieremmo 38 miliardi di euro di sommerso, facendo calare questo tipo di economia al 17,5% del Pil.
Dal punto di vista delle normative fiscali, se queste raggiungessero la fluidità e la chiarezza che contraddistinguono l’amministrazione della Danimarca, il sommerso subirebbe una riduzione tale da farlo arrivare al 13,9% con un risparmio per le casse dello Stato di ben 14 miliardi.
Se il sistema giudiziario possedesse l’efficienza e la rapidità di un paese come gli Stati Uniti, il sommerso non supererebbe il 12,2% con un guadagno per le casse del fisco di 56 miliardi.
Invece, se le aliquote fiscali venissero portate al livello della Spagna, il sommerso raggiungerebbe il 16% del Pil con un incasso per lo Stato di 16 miliardi. Attenzione, però, in tal caso il rapporto avverte che come effetto collaterale «si avrebbe una riduzione cospicua di gettito effettivo, perché la diretta riduzione delle aliquote legali sui contribuenti in regole farebbe calare l’imposta pagata da questi ultimi. E tale riduzione supererebbe il maggior gettito derivante dalla minor imposta evasa».
Dando una rapida scorsa a questi dati balza subito agli occhi come la prima causa dell’evasione sia dovuta alla ben riposta convinzione dell’evasore che, ben lungi dal venir punito, le amministrazioni pubbliche e l’apparato statale sono quasi liete del suo comportamento. È la certezza dell’impunità, è la sicurezza nell’avere le spalle coperte, è la conclusione che nessuno oserà torcergli un capello a convincere un cittadino che ne possiede i mezzi e le possibilità a comportarsi da ladro nei confronti delle casse pubbliche, e tutto ciò condito da un’insopportabile vulgata che punta il dito contro una spesa pubblica ritenuta fonte di spreco e di inutile assistenzialismo.
Del resto, chi propone come priorità assoluta la riduzione delle tasse solitamente esibisce come copertura finanziaria una disinvolta e consistente riduzione della spesa pubblica (individuata il più delle volte nelle nefandezze della politica) senza probabilmente avere ben chiaro che da un lato i margini di spreco della spesa, che ci sono ed è quasi doveroso denunciarli, da soli ammontano a una quota tutto sommato trascurabile in confronto al totale degli esborsi pubblici, e dall’altro lato che in sé la spesa pubblica italiana, se depurata dagli interessi pagati sul debito pubblico, è la più bassa del continente (il 45,2% del Pil contro una media dell’Eurozona del 46,8%) e finisce in gran parte a finanziare pensioni e protezioni sociali che finirebbero senza ombra di dubbio per venir profondamente intaccate se si desiderasse far scendere la pressione fiscale di parecchi punti percentuali. Quel che è peggio, è che probabilmente la fetta d’italiani che desidera morbosamente una cospicua riduzione fiscale come risoluzione a tutti i mali (si combatterebbe l’evasione ma, soprattutto, si farebbe dimagrire uno Stato considerato inopportunamente dispendioso) sa benissimo che una manovra del genere minerebbe probabilmente in maniera irreparabile ogni forma di solidarietà collettiva, facendo venir meno quel concetto di Stato assistenziale che nei cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975) ha reso l’Europa un continente prospero e all’avanguardia.
Al giorno d’oggi, come scrive l’economista Innocenzo Cipolletta, non solo «una parte della popolazione con reddito medio relativamente più elevato si sta progressivamente allontanando da chi è veramente povero», ma la nostra società è finita per diventare «una società “dei due terzi”, nel senso che circa i due terzi della popolazione stanno relativamente bene, possono pensare a se stessi e costituiscono una maggioranza assoluta che rifiuta la solidarietà che potrebbe derivare da un aumento delle tasse e della spesa pubblica». Una maggioranza che «disprezza l’intervento pubblico come fonte di spreco, è rosa dall’invidia nei confronti di chi ha di più e pensa che se fosse liberata da tanti impacci sarebbe in grado di risolvere da sola i suoi problemi, salvo poi lagnarsi in continuazione per il degrado della vita civile, l’abbandono dei beni culturali, la crescente insicurezza e così via» facendo in questo modo un grossissimo regalo ai pezzi grossi del mondo finanziario sovranazionale che dalla privatizzazione dei servizi e dal minor fiato sul collo delle istituzioni pubbliche ha solo di che guadagnarci.
E se provassimo a cambiare la prospettiva? E se non fosse l’eccessivo carico fiscale ad aver prodotto l’evasione fiscale ma fosse stata l’evasione fiscale a provocare l’inaccettabile fardello delle tasse? E se non fosse l’eccessiva presenza dello Stato in sé la causa dei nostri mali ma fosse la sua cattiva gestione? E se invece lo smodato indietreggiare dello Stato a favore della speculazione privata fosse stata quella la causa del dissesto economico in corso? E se i partiti politici della Seconda Repubblica fossero stati un completo fallimento perché hanno fatto proprie le pulsioni provenienti dalla massa popolare, in maggioranza indulgente verso l’evasione? Domande che, se venissero elaborate, cambierebbero nettamente il corso della politica. Se venissero elaborate.

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