Sono buonista e me ne vanto.
Soffro di questa repellente patologia non solo a causa di quelli che oramai
sono considerati generalmente fumosi principi retorici (la dignità dell’Uomo
come obiettivo prioritario rispetto sia al calcolo costo-tornaconto, sia
all’appartenenza nazionale), ma anche per motivi pratici che ahimè faticano ad
emergere nel dibattito quotidiano e di cui mi accingo a tracciare una breve
disamina.
Abbiamo imparato a conoscere la
pragmatica schiettezza della cancelliera teutonica Angela Merkel, e se questa
arriva a dichiarare pubblicamente che «la questione migratoria è la sfida più
grande per
1. Un fenomeno globale, di cui
l’Italia occupa una ristretta frazione
L’estensione temporale è
fondamentale in quanto questo frenetico formicolio globale risente
direttamente
dell’eccezionale sconquasso demografico avvenuto negli ultimi decenni e,
nonostante la frenata degli ultimi anni, le previsioni più ottimiste (quelle
secondo cui non si verificheranno nuovi aumenti incontrollati di nascite)
asseriscono che nel 2050 il pianeta Terra ospiterà il doppio della popolazione
attualmente residente. Trend comunque incontrollabile sul lungo periodo se
consideriamo l’enorme schizofrenia demografica di paesi come l’Egitto che in
nemmeno due generazioni ha visto la sua popolazione passare da 40 milioni a
quasi 90 milioni di abitanti (secondo alcune stime si sarebbero addirittura
superati i 100 milioni), oppure come l’Etiopia che attualmente ne ospita 96,
oppure come la Repubblica Popolare del Congo (77 milioni), oppure come la
Nigeria, la quale avrebbe addirittura superato la soglia dei 177 milioni di
abitanti, numero di gran lunga superiore a quello della Russia, giusto per dare
un’idea del peso globale (si veda il «World Factbook 2015», curato dalla Cia).
Oggetti raccolti dall'associazione Askavusa e fotografati da Davide Monteleone (dal Corriere della Sera dell'08/06/2015) |
Una crescita che, rimanendo con
la prospettiva ottimistica di una crescita demografica tutto sommato
controllata degli ultimi anni, sarebbe oltretutto assai poco omogenea: volendo
adoperare un significativo esempio molto generico si possono porre a confronto
le previsioni della Germania (nazione più popolata d’Europa) e della Nigeria
(nazione più popolata dell’Africa): tralasciando la questione migratoria gli
abitanti tedeschi subirebbero un calo del 18% (il crollo diventa di un quarto
se si considera la fascia d’età media dei migranti, quella tra i venti e i
quarant’anni) compensata da un numero di nigeriani superiore del 141% (lo
schizzo è di un +167% per gli adulti della fascia d’età 20-40 anni). Se questi
dati vengono abbinati al contesto economico di una Germania che tra il 1990 e
il 2013 ha visto passare il reddito procapite da 16mila a 22mila dollari e
quello della Nigeria incrementato da 1100 a 2100 (con un divario assoluto
portato da 15mila a 20mila dollari) possiamo farci un’idea non solo di quale
direzione stia prendendo il pianeta ma delle prospettive anche dal punto di
vista del fenomeno migratorio.
(dal Corriere della Sera del 29/08/2015) |
Una situazione, comunque, in cui
l’Italia è coinvolta tutto sommato marginalmente: come dimostra la mappa
pubblicata da Dan Smith in «The State of the World» (Oxford 2014, New Internationalist, pag.26) il nostro Paese è tra le zone mondiali meno raggiunte dai migranti.
I punti più coinvolti (quelli con
una popolazione d’immigrati che costituisce più del 30% della popolazione)
risultano essere infatti quelli del Golfo Persico, il Brunei e la Guyana. Ad
ospitare più del 20% d’immigrati provvedono invece Canada, Stati Uniti, Arabia
Saudita, Australia, Libia e solo qualche sporadico Stato dell’Europa
centro-settentrionale.
L’Italia (col suo 8,3%) si
colloca tra le nazioni (la gran maggioranza) meno esposte al fenomeno, con un
numero di migranti inferiore al 10% della popolazione.
Infatti, ciò che agli xenofobi
risulta di ardua comprensione è il dato di fatto che l’Italia rappresenta solo
una trascurabile briciola di terra se paragonata all’intensità e alla vastità
del fenomeno di chi
fugge: tra il 1990 e il 2013 il numero di migranti globali è
aumentato del 50,2%, arrivando al punto che nel 2013 (dati dell’Alto
commissariato Onu per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale dei
migranti) sono state almeno 232 milioni le persone che hanno lasciato la
propria terra (in Italia gli immigrati ospitati non superano i sei milioni),
ossia il 3,2% della popolazione mondiale riversatasi per la stragrande
maggioranza (l’86%) in paesi poveri e il 25% addirittura nei paesi «meno
sviluppati» del pianeta.
I propagatori della buffa
immagine di un’Italia assaltata da una compagine di africani farebbero meglio
ad occupare il proprio tempo guardando quali sono i maggiori paesi che
accolgono persone in fuga da guerre e persecuzioni: Pakistan (1,6 milioni),
Turchia (1,59 milioni), Libano, Iran (868mila), Siria (476mila), Etiopia,
Giordania (bisogna aspettare un po’ per vedere uno stato europeo, la Germania,
con quasi 600mila rifugiati; seguito però subito dopo dai 564mila rifugiati
accolti dal Kenya- si veda Consiglio italiano per i rifugiati).
Il continente asiatico in totale
accoglie 71 milioni d’immigrati, il continente africano 19 milioni e il Sud
America 9 milioni. Di fronte a questa situazione, si capisce bene come i 72
milioni che si trova ad accogliere l’Europa non hanno nulla di eccezionale nel
contesto mondiale (si veda «International Migration 2013», Nazioni Unite).
Inoltre, l’incubo del «nero» che
ci assale alle porte evapora in un battito di ciglia se consideriamo che
l’Africa è il continente che, dopo l’Oceania, vede al suo interno meno persone
lasciare la propria terra (F. Pastore, «Flussi migratori: guardare oltre l’orizzonte immediato», dossier Ispi «Rifugiati, una crisi non solo europea», 19/06/2015) e che paradossalmente in certi contesti subisce una pressione
migratoria superiore a quella italiana (in Gambia il 17% della popolazione è
composto da immigrati). Le terre più dilaniate da persone in fuga sono infatti
principalmente Siria (3,88 milioni), Afghanistan e Somalia («World at War», Rapporto «Global Trends» dell’Unhcr sulle migrazioni forzate nel 2014).
Ma visto che l’immigrazione dal
continente africano è quella che ci coinvolge più direttamente, su quella
occorre concentrarsi.
(da Limes-rivista italiana di geopolitica, 06/2015) |
2. Fuggire dai failure-states è
l’unica possibilità di una vita dignitosa
L’Italia non è un paese attraente
dal punto di vista economico. Pare una banalità, ma coloro che si ostinano a
berciare contro l’«ondata clandestina» sarebbe opportuno venissero a conoscenza
che nella nostra penisola l’immigrazione cosiddetta «economica» è una realtà di
cui si è persa quasi memoria, rimpiazzata da un flusso migratorio che vede per
la prima volta l’Italia come un paese in grado di tutelare i diritti umani
verso profughi e perseguitati. Comunque non a livelli così preoccupanti se si
considera che delle 170mila persone sbarcate in Italia nel 2014,
attualmente
più di 100mila non si trovano più sul nostro territorio. Dirò di più: se a
questo fenomeno andiamo ad aggiungere i migranti di vecchia data che a causa
delle difficoltà della recessione hanno optato per altre mète o hanno scelto il
ritorno nella terra natia, se andiamo ad aggiungere l’esercito di giovani
italiani che si reca all’estero alla ricerca di esperienze lavorative (nel solo
2013 le partenze sono state 95mila, come non accadeva da quasi cinquant’anni) e
se andiamo ad aggiungere gli anziani che pur di aumentare il loro potere
d’acquisto si trasferiscono in paesi quali il Marocco (solo in Lombardia questo
fenomeno riguarda quasi 30mila cittadini) il saldo migratorio potrebbe
addirittura risultare negativo (e un’invasione a saldo negativo mi sembra non
si sia mai vista) tant'è vero che nel 2013 l’Istat era arrivata a stimare 307mila
immigrati, 43mila in meno (-12,3%) rispetto al 2012 («Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente», Istat, 09/12/2014).
Una situazione destinata ad un
repentino mutamento- nel 2014 l’Italia ha visto raggiungere i propri confini da
una quota di profughi 13 volte più numerosa rispetto a quella del 2012- dovuto
ad un imponente flusso di persone imploranti alle porte dell’Europa.
(dal Corriere della Sera del 25/06/2015) |
Una situazione agghiacciante, ove
il dramma dei viaggi della morte- non dimentichiamo che in quindici anni il
Mediterraneo ha sepolto sotto le proprie onde almeno 25mila persone rendendo
questa fetta di mare il più grande cimitero del mondo (si veda in particolare il rapporto dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, «Migration Trends Across the Mediterranean: Connecting the Dots», giugno 2015)- è nient’altro che
il coronamento di uno straziante percorso punteggiato da torture, rapimenti e
barbarie di ogni sorta. Viaggi costosi, oltretutto, e questo li rende ancor più
incomprensibili agli occhi di cittadini atterriti da un fenomeno tanto
traumatizzante quanto inedito: i migranti che ci troviamo di fronte non sono
infatti facilmente inquadrabili in categorie quali profugo di guerra, povero,
perseguitato, bisognoso d’istruzione e via discorrendo. Questo nuovo incessante
flusso impone categorie nuove, discutibili e discusse, in cui le definizioni di
profugo e migrante s’intrecciano fino a confondersi.
(dal Corriere della Sera del 13/06/2015) |
Vediamo parecchi siriani,
succubi di una guerra talmente spietata e incontrollabile da vedere porzioni di
territorio sempre più estese conquistate dal jihadismo più invasato. Vediamo
quasi altrettanti eritrei, provenienti da un paese tanto povero quanto saccheggiato
da un conflitto con l’Etiopia che arriva a coinvolgere persino i bambini.
Vediamo i maliani in fuga da una guerra civile che combinata con la povertà
estrema vede perennemente in agguato la minaccia truce dell’estremismo
islamico. Non mancano i nigeriani costretti ad assistere alla guerriglia di
Boko Haram. Poi c’è il Gambia, paese paradigmatico per spiegare come l’Occidente,
tramite il braccio del Fondo monetario internazionale, abbia affondato una
nazione nella melma più disperata (l’Economic Recovery Program «fece molto poco
per i gambiani, specialmente agli agricoltori delle aree rurali che godevano
dei sussidi per l’acquisto dei semi e dei fertilizzanti», si veda Migration Policy Institute, C. Omar Kebbeh, «The Gambia: Migration in Africa’s “Smiling Coast”», 13/08/2013).
Infine non mancano le persone provenienti dai contesti più annosi del Medio
Oriente (Palestina e Libano).
Nazioni configurate dal comun
denominatore della «State failure», ovvero situazioni in cui l’autorità
pubblica legittimata e riconosciuta lascia il posto a scorribande sconnesse di
bande, tribù ed estremismi di ogni genere. Una situazione dove non solo la vita
è in pericolo, ma l’ulteriore permanenza risulta insostenibile a causa
dell’impossibilità di accedere ai servizi essenziali.
(da Limes- rivista italiana di geopolitica, 06/2015) |
La necessità della fuga è
testimoniata peraltro dall’alto numero di donne (10,9% quelle soccorse sui
barconi provenienti dalla Libia) e minori (il 13,6%), spesso non accompagnati-
questi ultimi si stimavano fossero più di 12mila nel solo periodo
gennaio-settembre 2014 (si vedano i dati del Viminale). E alternative
all’odissea attraverso il Mediterraneo sono improponibili: raggiungere
legalmente l’Europa ottenendo un visto è impossibile, così come la chiusura
delle frontiere rende assurdo anche solo pensare l’utilizzo di mezzi di linea.
(dal Corriere della Sera del 20/04/2015) |
3. Gli immigrati sono una risorsa
economica, non un costo
Al netto della xenofobia
montante, e tralasciando per un attimo gli sbraiti mediatici, possiamo
affermare tranquillamente che l’integrazione è una realtà esistente.
«L’immigrato lavoratore è descritto in termini molto favorevoli: se ne apprezza
innanzi tutto la disponibilità a collaborare anche al di fuori delle proprie
mansioni; se ne sottolinea la dedizione al
lavoro, la serietà e la motivazione,
che spesso sarebbero superiori a quelle degli italiani; se ne segnalano
l’onestà e la correttezza. Nelle città dove c’è una maggiore familiarità con la
fabbrica (Verona, Milano) il rapporto degli immigrati con i colleghi di lavoro
italiani è descritto in termini molto positivi» (dalla ricerca «L’immigrazione straniera: opportunità, risorse, problemi» a cura di Ipsos Public Affairs e presentata al convegno «Il lavoro è cittadinanza», Milano, 12/11/2013).
Silenziosa, laboriosa, quasi
consueta: la «grande rapidità dell’assimilazione» (si veda G. Dalla Zuanna, «Le
possenti immigrazioni dell’ultimo ventennio hanno danneggiato il nostro
paese?», ivi, pagg.37-53) è un tratto peculiare del nostro paese, e soprattutto
sostenibile a livello di bilancio pubblico se si considera che il calo
d’immigrati registrato nel 2013 ha provocato scompensi al bilancio di un Inps che
ormai vede tra i suoi pilastri i contributi a fondo perduto di molti stranieri.
Non solo: nel 2014 l’8,8% del Pil
è frutto degli immigrati, il saldo attivo dovuto alla loro presenza ammonta per
lo Stato a circa 3 miliardi di euro, talvolta gli immigrati aprendo nuove imprese
riescono a creare lavoro (le partita Iva straniere sono aumentate negli ultimi
cinque anni del 21,3%; ora sono circa 630mila) e la manodopera si accontenta di
salari inferiori (993 euro mensili contro una media degli occupati italiani di
1326 euro).
(dal Corriere della Sera dell'08/06/2015) |
La conclusione la offre la
Fondazione Leone Moressa affermando come queste realtà offrano
«un contributo
fondamentale per l’uscita dalla crisi. Le imprese nate da immigrati non
rappresentano più una nicchia a bassa produttività ma un veicolo utile a creare
sinergie con imprenditori locali e attrarre investimenti esteri» (si veda il sito della Fondazione Moressa; lo studio è stato pubblicato a marzo 2015).
(da Limes- rivista italiana di geopolitica, 06/2015) |
4. Come agire
Un fenomeno strutturale di così
vasta portata richiede un impegno tanto inderogabile quanto complesso. La
presuntuosa pretesa- purtroppo in voga anche tra autorevoli istituzioni europee
del
presente e del passato- che abbassare la saracinesca dei propri confini o,
peggio ancora, che rifiutare il soccorso in mare possano dissuadere i migranti
a partire non tiene conto del dato storico costituito dal fatto che il
proliferare di organizzazioni criminali dedite al fruttuoso traffico di uomini
altro non è che il frutto di una «fortezza Europa» perennemente ostile all’idea
di preoccuparsi dei profughi a partire dalle aree di provenienza.
Humanitarian Desk è il nome di un
progetto sperimentale che vede coinvolte le Chiese evangeliche, la Comunità di
Sant’Egidio e la Tavola valdese; oltre ad essere totalmente autofinanziato dai
promotori è uno dei pochi progetti sensati a prevedere una garanzia della
tutela dei diritti umani per i profughi prima ancora del tortuoso viaggio sui
barconi della morte, a partire dalla presentazione di una domanda da parte del
richiedente a cui fa seguito il rilascio di un visto con validità territoriale
limitata «per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi
internazionali» (questa la dicitura già prevista dal Regolamento europeo
810/2009 del 13/07/2009, art.24) preludio per l’imbarco su un volo regolare
diretto in un’Europa ove l’auspicio rimane sempre l’equa ripartizione dei
migranti in tutti i Paesi membri (per approfondire).
Paesi accessibili, tutto sommato stabili e
disponibili come Libano e Marocco (soprattutto quest’ultimo) già da ora stanno
predisponendo i primi centri finalizzati al controllo, all’identificazione e alla
programmazione delle partenze in un contesto legale e dignitoso.
(da Limes- rivista italiana di geopolitica, 06/2015) |
Tutto ciò, naturalmente, nella
speranza che questa situazione acceleri il desiderio da parte delle potenze
geopolitiche di stabilizzare le zone di maggior conflitto e garantire alle
proprie popolazioni una situazione economico-sociale stabile per la propria
sopravvivenza. Se non si affrontano questi aspetti (guerra e disuguaglianza)
non sarà possibile attendersi una diminuzione di persone disposte a tutto per partire.
5. Le farneticanti preoccupazioni
«identitarie»
Il Paese che vede tra i suoi massimi
punti di riferimento storici l’emigrante Giuseppe Garibaldi e il profugo Dante
Alighieri- colui che imparò ben presto «come sa di sale/ lo pane altrui, e come
è dure calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Paradiso, XVII)- dovrebbe
aver acquisito la
consapevolezza che la propria identità nazionale (ammesso che questa espressione significhi davvero qualcosa) vede nel confronto tra culture
una delle sue più importanti peculiarità.
Il primo e più meritevole
ministro per l’Integrazione che i governi italiani abbiano avuto, Andrea
Riccardi, ha ben affrontato la questione:
«L’integrazione italiana è, finora,
la somma di milioni di adozioni. Pensando all’eccezionalità dell’adozione
romana nel quadro della storia antica (per cui si poteva diventare facilmente
cittadini dell’impero) vorrei dare al nostro modello integrativo il nome di
modello “latino”. In esso tutto si tiene: la storia, il presente, il futuro. L’italianità
è il rapporto con l’alterità. In esso confluiscono la comunicatività partecipe
dei nostri contesti urbani (si veda il ruolo dei paesi in parte spopolati), la
forza di una urbanitas colta e curiosa del mondo, una pietas cristiana. Certo,
questo modello vuol dire un’integrazione poco istituzionale e molto familiare,
con uno Stato poco al passo coi tempi. […] Resta decisivo il passaggio da una
cultura diffusa a una politica di Stato. L’integrazione necessita di una regia
pubblica» (da A. Riccardi, «L’Europa dei migranti. Modelli di integrazione», in «Integrazione. Il modello Italia», pagg.89-109; in particolare pagg.105-109).
(dal Corriere della Sera del 18/07/2015) |
Il miglior modo per proteggere l’«italianità»
risiede proprio nel riconoscersi in principi comuni e ben definiti, di cui l’accoglienza
ne rappresenta non solo tra i più tradizionali ma anche tra i più attualmente
attivi. Il resto sono chiacchiere.
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