È comprensibile che la fronda di
dissidenza interna al Pd intenzionata a restare ostinatamente dentro il partito
non possa scontrarsi frontalmente col proprio segretario su un tema di assoluta
delicatezza- peraltro destinato ad una consultazione referendaria- come la
riforma radicale degli assetti istituzionali. Salvo colpi di scena l’intesa
verrà raggiunta, e la minoranza dem bene che vada riuscirà solo a rendere
vagamente più presentabile quello che si va configurando come un obbrobrioso e
caotico assalto agli organi preposti al controllo del potere
esecutivo. Da quest’ottica si riescono quindi a capire affermazioni come quelle
dell’autorevole bersaniano Miguel Gotor secondo cui
l’accordo si rende
indispensabile «per sconfiggere i veri sabotatori della riforma: Calderoli e
Forza Italia che chiede la riforma dell’Italicum che è acquisito» (da Dino Martirano sul «Corriere della Sera» del 09/09/2015, pag.12).
Di acquisito, in verità, in questa importante partita si spera ci sia ben poco,
sia nel merito che nel metodo.
Il senatore Miguel Gotor, autorevole punto di riferimento dei senatori bersaniani |
Nel metodo non solo per le
inaudite ingerenze del governo (e del precedente inquilino del Quirinale) sulla
regolare discussione parlamentare, ma anche per l’attuale conformazione di
Camere scaturite da una legge elettorale che la Corte Costituzionale non ha
esitato a definire foriera di
«un’alterazione profonda della composizione della
rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura
dell’ordinamento costituzionale vigente» nonché lesiva della «libertà di scelta
degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che
costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare».
Sebbene
sia corretto infatti asserire che a livello strettamente giuridico le Camere
«sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in
alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare» (Sent n.1/2014, punto 7 del Cons. dir.), non si può dimenticare il fatto che in particolari contesti di natura
politica, ad esempio nel periodo che intercorre tra lo scioglimento del
Parlamento e il suo rinnovo, le Camere vengono depotenziate dei poteri che
travalichino l’«ordinaria amministrazione». Un’ammirevole premura che
probabilmente avrebbe
indotto qualsiasi Capo dello Stato a interpretare la
rivoluzionaria sentenza della Consulta come una delegittimazione talmente grave
del Parlamento da meritarne l’immediato scioglimento (si vedano a tal proposito G. Scaccia, «Riflessi ordinamentali dell’annullamento della legge n. 270 del 2005 e riforma della legge elettorale», in forumcostituzionale.it, n. 1/2014; oppure A. Pace, «La legittimità del Parlamento» su «La Repubblica» del 10/12/2013; M. Villone, «Legge elettorale. I paletti della Corte segnano la strada» pubblicato su costituzionalismo.it il 16/12/2013; G. Azzariti, «Dopo la decisione della Corte costituzionale sulla legge elettorale. “Blowin’ in the wind”» pubblicato su costituzionalismo.it il 10/12/2013;
M. Villone, «Italicum, al danno di oggi si aggiunge quello futuro», da «il manifesto» del 05/05/2015).
La facciata della sede della Corte Costituzionale |
Se per motivi contradditori si è scelto invece di lasciare inalterate le
funzioni parlamentari, appare quasi provocatoria la volontà d’imporre a questo
stesso Parlamento l’approvazione di una riforma destinata ad alterare 47
articoli (circa un terzo) della Carta fondamentale dello Stato, peraltro in un
contesto in cui il governo non esita, per usare le parole del senatore Mario
Mauro, a «condire i ricatti con molte offerte» ai singoli esponenti della
Camera Alta pur di raggranellare una striminzita maggioranza necessaria per il
via libera alla riforma (si veda M. Guerzoni sul «Corriere della Sera» del 10/09/2015, pag.13).
Riforma destinata probabilmente a
rimanere negli annali come il perfetto compimento di un processo politico che
da anni avvolge il dibattito pubblico (come ammise peraltro uno dei maggiori tutori
tecnici del testo: «Il nuovo sistema elettorale [abbinato a quello
costituzionale, ndr.] si colloca nell’alveo dei sistemi che hanno
caratterizzato la Seconda Repubblica», R. D’Alimonte, sul «Sole 24Ore» del 21/01/2014;
indicativa anche l’esclamazione del senatore Calderoli di fronte alla proposta
di legge elettorale: «Questa legge sembra la mia», dal «Corriere della Sera» del 21/01/2014) con un ossessivo mantra che vede negli spazi di partecipazione democratica la
causa dell’instabilità e della millantata inconcludenza dei governi italiani
rifiutando per motivi elettoralistici e di dottrina economica (le vicende
greche dei mesi scorsi hanno dimostrato con rara lucidità l’incompatibilità tra
partecipazione popolare e concentrazione della ricchezza) di constatare come
sia al contrario la carenza di strutture organizzative- in primis i partiti-
idonee alla rappresentanza e al confronto coi cittadini a rendere le
rappresentanze parlamentari succubi di pulsioni disgregatrici e facili prede del
canto delle sirene lobbistiche e corporative. Il potere esecutivo- trovandosi
tra le mani e usufruendone in maniera straordinaria strumenti quali
decretazioni d’urgenza, votazioni di fiducia, maxi emendamenti e leggi delega-
non va quindi interpretato, al contrario di come si vorrebbe far credere, una
carica troppo debole e di conseguenza meritevole di un potere egemonico e
antidemocratico su praticamente tutti gli organi di garanzia: è al contrario il
mancato raccordo (o un raccordo anomalo, come avveniva nei primi decenni della
Repubblica) tra le istanze di cittadini organizzati e le forze politiche di
riferimento a rappresentare la causa di un sistema istituzionale considerato
quasi unanimemente immaturo.
La crisi dei partiti (qui riferito al Pd romano) in un grafico pubblicato sul "Corriere della Sera" del 20/06/2015 |
In tale contesto è indubbio che
il bicameralismo paritario- struttura de facto assente in tutte le attuali democrazie-
alimenti le intollerabili propensioni dell’attuale sistema parlamentare, ed è
altrettanto vero che i padri costituenti (specie quelli di formazione
comunista, giustamente convinti che tale assetto sia stato redatto dalla Dc per
frenare ogni possibilità di governo autenticamente riformista) se ne siano resi
conto già a tempo debito. Basti pensare a Massimo Severo Giannini, il quale già
nell’aprile del 1946 propose al proprio partito- il Psi- di adottare la linea
del monocameralismo giustificandola con l’osservazione che
«in tutti i casi in
cui la seconda camera non è stata rappresentativa di determinati gruppi o
interessi politici essa ha fatto fallimento…D’altra parte, la funzione
moderatrice che alcuni attribuiscono alla seconda camera, nella maggioranza dei
casi, risponde più ad una affermazione che a una realtà; anzi, molto spesso è
una deformazione ottica»,
o addirittura a Piero Calamandrei che nella stessa
sede dell’Assemblea costituente fu costretto ad ammettere nel marzo 1947 che
«di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema
della stabilità del governo, nel progetto della Costituzione non c’è quasi
nulla» arrivando fino a figure del calibro di Mortati (democristiano) e Perassi
(azionista) ben consapevoli che foraggiare la debolezza degli esecutivi avrebbe
comportato pesanti rischi per la tenuta dell’assetto democratico (si veda, pur
arrivando a conclusioni discutibili, S. Cassese sul «Corriere della Sera» del 04/07/2015).
Il momento della firma della Costituzione |
Nessuno, però, arrivò ad
auspicare un governo onnipotente totalmente privo di legittimazione popolare
come si va delineando nell’inaccettabile combinato tra nuova legge elettorale
(cosiddetto Italicum) e riforma costituzionale seguendo quello che è stato
sagacemente riassunto come l’«idolatria della governabilità, della stabilità,
della personalizzazione del potere, tutto ad un uomo solo» (da G. Ferrara, «In un Paese civile», in «Nomos, 3/2013»). Nemmeno nelle altre nazioni democratiche, ove infatti non esiste nessun caso
in cui viene conferito un premio di maggioranza del 54% dei seggi della Camera-
peraltro di un Parlamento reso di fatto monocamerale dall’ininfluenza di un
Senato ridotto a bivacco di consiglieri regionali forse nemmeno eletti- ad una
singola forza politica priva del sostegno della maggioranza assoluta degli
elettori (si veda G. Sartori, «Io idealista? Tu fuori dai modelli dell’Occidente», dal «Sole 24Ore» del 31/01/2014). A livello generale, il concetto stesso di premio di maggioranza viene
attualmente adottato solo a Malta, in Argentina, nella Repubblica di San Marino
e in Grecia, ma in quest’ultimo caso il
confronto con l’Italicum risulta
fuorviante se si considera che per accedervi è comunque necessario ottenere 50
seggi su 300 (mentre nella legge elettorale approvata quest’anno il premio scatta
sempre, si tratti del primo o del secondo turno); così come fuorviante risulta
l’unico precedente di legge elettorale legittima approvata in Italia nel corso
del periodo democratico; quella celebre «legge truffa» di cui l’ispiratore,
Alcide De Gasperi, sentì comunque il dovere di consolare la Camera affermando
che «questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse
sarebbe un tradimento della democrazia» (e infatti per accedere al premio era
necessario il 50%+1 dei voti).
Il meccanismo del premio di maggioranza dell'Italicum spiegato sul sito della Camera dei Deputati |
Taluni obietteranno (come molti
giornalisti, tra i quali F. Clementi su «l’Unità» del 23/01/2014) che nei casi di Francia e Inghilterra avviene egualmente un’analoga
distorsione del voto popolare, dimostrando in tal modo di non conoscere la base
maggioritaria (ben diversa da quella proporzionale dell’Italicum) di questi
paesi, la quale non solo permette una concreta vicinanza tra l’elettore e il
rappresentante del collegio, ma al contempo non garantisce sempre e comunque
vincitori certi (il Regno Unito tra il 2011 e il 2015 è stato governato da una
coalizione)- il tutto tralasciando la progressiva insofferenza verso questi
sistemi che va serpeggiando dopo l’insorgenza dei partiti antisistema.
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento