martedì 22 settembre 2015

Il dovere dell'intransigenza verso i nuovi assetti istituzionali

È comprensibile che la fronda di dissidenza interna al Pd intenzionata a restare ostinatamente dentro il partito non possa scontrarsi frontalmente col proprio segretario su un tema di assoluta delicatezza- peraltro destinato ad una consultazione referendaria- come la riforma radicale degli assetti istituzionali. Salvo colpi di scena l’intesa verrà raggiunta, e la minoranza dem bene che vada riuscirà solo a rendere vagamente più presentabile quello che si va configurando come un obbrobrioso e caotico assalto agli organi preposti al controllo del potere esecutivo. Da quest’ottica si riescono quindi a capire affermazioni come quelle dell’autorevole bersaniano Miguel Gotor secondo cui
Il senatore Miguel Gotor, autorevole
punto di riferimento dei senatori bersaniani
l’accordo si rende indispensabile «per sconfiggere i veri sabotatori della riforma: Calderoli e Forza Italia che chiede la riforma dell’Italicum che è acquisito» (da Dino Martirano sul «Corriere della Sera» del 09/09/2015, pag.12). Di acquisito, in verità, in questa importante partita si spera ci sia ben poco, sia nel merito che nel metodo.
Nel metodo non solo per le inaudite ingerenze del governo (e del precedente inquilino del Quirinale) sulla regolare discussione parlamentare, ma anche per l’attuale conformazione di Camere scaturite da una legge elettorale che la Corte Costituzionale non ha esitato a definire foriera di 

«un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente» nonché lesiva della «libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare». 

Sebbene sia corretto infatti asserire che a livello strettamente giuridico le Camere «sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare» (Sent n.1/2014, punto 7 del Cons. dir.), non si può dimenticare il fatto che in particolari contesti di natura politica, ad esempio nel periodo che intercorre tra lo scioglimento del Parlamento e il suo rinnovo, le Camere vengono depotenziate dei poteri che travalichino l’«ordinaria amministrazione». Un’ammirevole premura che probabilmente avrebbe
La facciata della sede della Corte Costituzionale
indotto qualsiasi Capo dello Stato a interpretare la rivoluzionaria sentenza della Consulta come una delegittimazione talmente grave del Parlamento da meritarne l’immediato scioglimento (si vedano a tal proposito G. Scaccia, «Riflessi ordinamentali dell’annullamento della legge n. 270 del 2005 e riforma della legge elettorale», in forumcostituzionale.it, n. 1/2014; oppure A. Pace, «La legittimità del Parlamento» su «La Repubblica» del 10/12/2013; M. Villone, «Legge elettorale. I paletti della Corte segnano la strada» pubblicato su costituzionalismo.it il 16/12/2013; G. Azzariti, «Dopo la decisione della Corte costituzionale sulla legge elettorale. “Blowin’ in the wind”» pubblicato su costituzionalismo.it il 10/12/2013; M. Villone, «Italicum, al danno di oggi si aggiunge quello futuro», da «il manifesto» del 05/05/2015). 

Se per motivi contradditori si è scelto invece di lasciare inalterate le funzioni parlamentari, appare quasi provocatoria la volontà d’imporre a questo stesso Parlamento l’approvazione di una riforma destinata ad alterare 47 articoli (circa un terzo) della Carta fondamentale dello Stato, peraltro in un contesto in cui il governo non esita, per usare le parole del senatore Mario Mauro, a «condire i ricatti con molte offerte» ai singoli esponenti della Camera Alta pur di raggranellare una striminzita maggioranza necessaria per il via libera alla riforma (si veda M. Guerzoni sul «Corriere della Sera» del 10/09/2015, pag.13).
Riforma destinata probabilmente a rimanere negli annali come il perfetto compimento di un processo politico che da anni avvolge il dibattito pubblico (come ammise peraltro uno dei maggiori tutori tecnici del testo: «Il nuovo sistema elettorale [abbinato a quello costituzionale, ndr.] si colloca nell’alveo dei sistemi che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica», R. D’Alimonte, sul «Sole 24Ore» del 21/01/2014; indicativa anche l’esclamazione del senatore Calderoli di fronte alla proposta di legge elettorale: «Questa legge sembra la mia», dal «Corriere della Sera» del 21/01/2014) con un ossessivo mantra che vede negli spazi di partecipazione democratica la causa dell’instabilità e della millantata inconcludenza dei governi italiani rifiutando per motivi elettoralistici e di dottrina economica (le vicende greche dei mesi scorsi hanno dimostrato con rara lucidità l’incompatibilità tra partecipazione popolare e concentrazione della ricchezza) di constatare come sia al contrario la carenza di strutture organizzative- in primis i partiti- idonee alla rappresentanza e al confronto coi cittadini a rendere le rappresentanze parlamentari succubi di pulsioni disgregatrici e facili prede del canto delle sirene lobbistiche e corporative. Il potere esecutivo- trovandosi tra le mani e usufruendone in maniera straordinaria strumenti quali decretazioni d’urgenza, votazioni di fiducia, maxi emendamenti e leggi delega- non va quindi interpretato, al contrario di come si vorrebbe far credere, una carica troppo debole e di conseguenza meritevole di un potere egemonico e antidemocratico su praticamente tutti gli organi di garanzia: è al contrario il mancato raccordo (o un raccordo anomalo, come avveniva nei primi decenni della Repubblica) tra le istanze di cittadini organizzati e le forze politiche di riferimento a rappresentare la causa di un sistema istituzionale considerato quasi unanimemente immaturo.

La crisi dei partiti (qui riferito al Pd romano) in un grafico pubblicato sul "Corriere della Sera" del 20/06/2015


In tale contesto è indubbio che il bicameralismo paritario- struttura de facto assente in tutte le attuali democrazie- alimenti le intollerabili propensioni dell’attuale sistema parlamentare, ed è altrettanto vero che i padri costituenti (specie quelli di formazione comunista, giustamente convinti che tale assetto sia stato redatto dalla Dc per frenare ogni possibilità di governo autenticamente riformista) se ne siano resi conto già a tempo debito. Basti pensare a Massimo Severo Giannini, il quale già nell’aprile del 1946 propose al proprio partito- il Psi- di adottare la linea del monocameralismo giustificandola con l’osservazione che 

«in tutti i casi in cui la seconda camera non è stata rappresentativa di determinati gruppi o interessi politici essa ha fatto fallimento…D’altra parte, la funzione moderatrice che alcuni attribuiscono alla seconda camera, nella maggioranza dei casi, risponde più ad una affermazione che a una realtà; anzi, molto spesso è una deformazione ottica», 

o addirittura a Piero Calamandrei che nella stessa sede dell’Assemblea costituente fu costretto ad ammettere nel marzo 1947 che «di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto della Costituzione non c’è quasi nulla» arrivando fino a figure del calibro di Mortati (democristiano) e Perassi (azionista) ben consapevoli che foraggiare la debolezza degli esecutivi avrebbe comportato pesanti rischi per la tenuta dell’assetto democratico (si veda, pur arrivando a conclusioni discutibili, S. Cassese sul «Corriere della Sera» del 04/07/2015).

Il momento della firma della Costituzione


Nessuno, però, arrivò ad auspicare un governo onnipotente totalmente privo di legittimazione popolare come si va delineando nell’inaccettabile combinato tra nuova legge elettorale (cosiddetto Italicum) e riforma costituzionale seguendo quello che è stato sagacemente riassunto come l’«idolatria della governabilità, della stabilità, della personalizzazione del potere, tutto ad un uomo solo» (da G. Ferrara, «In un Paese civile», in «Nomos, 3/2013»). Nemmeno nelle altre nazioni democratiche, ove infatti non esiste nessun caso in cui viene conferito un premio di maggioranza del 54% dei seggi della Camera- peraltro di un Parlamento reso di fatto monocamerale dall’ininfluenza di un Senato ridotto a bivacco di consiglieri regionali forse nemmeno eletti- ad una singola forza politica priva del sostegno della maggioranza assoluta degli elettori (si veda G. Sartori, «Io idealista? Tu fuori dai modelli dell’Occidente», dal «Sole 24Ore» del 31/01/2014). A livello generale, il concetto stesso di premio di maggioranza viene attualmente adottato solo a Malta, in Argentina, nella Repubblica di San Marino e in Grecia, ma in quest’ultimo caso il
Il meccanismo del premio di maggioranza dell'Italicum spiegato
sul sito della Camera dei Deputati
confronto con l’Italicum risulta fuorviante se si considera che per accedervi è comunque necessario ottenere 50 seggi su 300 (mentre nella legge elettorale approvata quest’anno il premio scatta sempre, si tratti del primo o del secondo turno); così come fuorviante risulta l’unico precedente di legge elettorale legittima approvata in Italia nel corso del periodo democratico; quella celebre «legge truffa» di cui l’ispiratore, Alcide De Gasperi, sentì comunque il dovere di consolare la Camera affermando che «questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia» (e infatti per accedere al premio era necessario il 50%+1 dei voti).
Taluni obietteranno (come molti giornalisti, tra i quali F. Clementi su «l’Unità» del 23/01/2014) che nei casi di Francia e Inghilterra avviene egualmente un’analoga distorsione del voto popolare, dimostrando in tal modo di non conoscere la base maggioritaria (ben diversa da quella proporzionale dell’Italicum) di questi paesi, la quale non solo permette una concreta vicinanza tra l’elettore e il rappresentante del collegio, ma al contempo non garantisce sempre e comunque vincitori certi (il Regno Unito tra il 2011 e il 2015 è stato governato da una coalizione)- il tutto tralasciando la progressiva insofferenza verso questi sistemi che va serpeggiando dopo l’insorgenza dei partiti antisistema.

(continua)

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