mercoledì 9 settembre 2015

Quale «guerra di religione»? L'Isis è una questione politica (che fa comodo a molti)

Noi occidentali non abbiamo capito nulla del fenomeno Isis: presi come siamo da un’inossidabile smania egocentrica, fatichiamo molto a comprendere che il Dāʽiš (questo il vero acronimo arabo) non è un potente esercito di bigotti finalizzato alla distruzione del mondo giudaico-cristiano, come i sagaci propagandisti in completo nero ci fanno credere. Si tratta più semplicemente di un fenomeno a cavallo tra business criminale e desideri egemonici sul dār al-islām sapientemente manovrati
ove il contributo e il sostegno degli «infedeli» non solo vengono tollerati ma argutamente alimentati. A partire dalle organizzazioni mafiose coinvolte nei vari traffici illeciti- droga, reperti artistici e non ultimo il succulento business dei migranti- visto che anche alle latitudini più imprevedibili quella degli affari è una mentalità ben collaudata. Ma anche potenti istituzioni nazionali a cui la presenza di un Califfato nel decisivo territorio del «Siraq» può portare giovamento, compresi gli «infedeli» per eccellenza: quegli Stati Uniti desiderosi di creare un equilibrio nell’intricato mondo mediorientale in modo da poter concentrare tutte le proprie energie sul ben più decisivo terreno di gioco cinese (tanto più se si considera la sempre meno rilevante questione petrolifera da parte di un paese a cui le estrazioni d‘idrocarburi da scisti consegneranno di qui a pochi anni un importante peso energetico).

Dal momento in cui il sogno dell’egemonia nel mondo islamico dei Fratelli Musulmani (una strana forma di conciliazione tra religione e democrazia) è stato definitivamente archiviato dal colpo di stato consumato in Egitto nell’estate 2013 ad opera soprattutto dei sauditi, il principale obiettivo dell’amministrazione statunitense nell’area sta nel dar vita ad un equilibrio in cui l’eguale peso strategico di Egitto, Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran possa garantire una relativa
Il presidente iraniano Hasan Rohani
tranquillità e di conseguenza un’ingerenza degli Usa nell’area che si limiti a garante di ultima istanza
(una teoria sostenuta peraltro in «World Order», l’ultima opera di H.A. Kissinger, London 2014, Allen Lane, pagg.371-374). Solo tenendo a mente questo obiettivo si riesce a comprendere la reale natura del tanto storico quanto ambito accordo sul nucleare iraniano: da un lato la Repubblica sciita viene ripulita dall’immagine di pericoloso fattore destabilizzante ottenendo quindi lo status di potenza autorevole, e dall’altro l’eliminazione delle sanzioni garantisce all’Iran la concreta possibilità di giocare un ruolo determinante nei mercati internazionali.
In questo contesto lo spaventoso conflitto in Siria svolge un ruolo fondamentale in quanto colpire il regime sciita di Baššār al-Asad significa colpire il suo solido alleato iraniano (anch’esso sciita), il quale tramite la bocca dell’ex-presidente Rafsanjani ha già fatto capire un paio d’anni fa quanto la partita di Damasco sia fondamentale per la Repubblica di Teheran: 

«Dobbiamo possedere la Siria. Se la catena dal Libano [gli Ḥizbullāh fanno parte dell’orbita iraniana, ndr.] all’Iran sarà tagliata, accadranno cose pessime» (da K. Sadjapour e B. Ben Talebou, «Iran in the Middle East: Leveraging Chaos», da «Fride», 27/05/2015).

La caparbia riluttanza delle nazioni del Medio Oriente a concedere una propria fetta di potere in favore dell’Iran sta alla base di praticamente tutte le ultime turbolenze del mondo islamico: la rivolta israeliana contro gli accordi sul nucleare, l’attacco d’Israele contro il filo-iraniano (ma di fede sunnita) Ḥamās proprio in coincidenza coi più importanti colloqui tra Usa e Iran, l’alleanza tra al-Qāʽida e il Dāʽiš, la sintonia in funzione anti-iraniana tra Israele e Arabia Saudita (mezzi dell’esercito israeliano sono persino arrivati a supportare attivamente le operazioni saudite in Yemen- si veda M. Thunderbolt, «Israel Joins Saudi Coalition against Yemen…Uninvited», da «The Daily Israel» del 12/04/2015), persino il disgelo malvisto da Gerusalemme tra sostenitori e contrari della Fratellanza Musulmana è dovuto al convincimento di giocare il tutto e per tutto pur di evitare una rivitalizzazione di Teheran che insidi la propria egemonia sull’area

Da "Limes-rivista italiana di geopolitica", n.03/2015


Ma è la Siria il territorio dove lo scontro di potere anti-iraniano traspare con maggiore chiarezza, un campo di battaglia in cui il sostegno larvato o palese all’opposizione anti-Asad oramai rappresentata largamente dal Dāʽiš viene foraggiata da tutti gli attori mediorientali anti-Teheran,
unendo peraltro vari piccioni con una sola fava: l’Arabia può fare in modo che i soggetti più riottosi trovino la loro valvola di sfogo nel Califfato piuttosto che insidiare l’assetto di potere della dinastia Saʽūd, mentre Israele può non solo realizzare il sogno di Ben Gurion di trovarsi come vicini di casa nazioni deboli ma anche incrementare nell’opinione pubblica le pulsioni islamofobe, quindi anti-palestinesi (è un caso, del resto, che nella prolifica pubblicistica del Dāʽiš non comparino mai attacchi diretti a Israele?). In fin dei conti, di «crescenti interazioni» tra Israele e i gruppi jihadisti siriani era arrivato a parlare perfino il «Telegraph», mentre nel dicembre 2014 un rapporto Undof aveva stimato che nella primavera del 2014 si erano svolti 59 contatti diretti tra soldati di Gerusalemme e gruppi armati del Golan siriano ove il mancato intervento di fronte all’avanzata di al-Nuṣra (affiliato di al-Qāʽida) sui confini israeliani ne rappresenta la prova più schiacciante (il comandante israeliano Aviv Oreg era arrivato a dichiarare al «Sunday Times» che «al-Nuṣra non è affatto l’Is», affermazione indicativa anche se non necessariamente sincera). Risulta quasi sfacciata la convenienza d’Israele di fronte all’avanzata del jihadismo se prestiamo attenzione a quanto afferma Naftali Bennett, leader dell’estrema destra in Israele: 

«L’ascesa dello Stato Islamico e di altri gruppi estremisti in Iraq, Siria e Libano ha reso più evidenti i rischi. Israele non si può permettere scommesse riguardo alla propria sicurezza. Non ci sono seconde possibilità nell’instabile Medio Oriente. Per questo, Israele non si può ritirare ancora da altri territori e non può permettere la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania».

Stante questa situazione, l’interesse degli Stati Uniti è da un lato quello di evitare un conflitto occidentale contro Asad che rischierebbe di compromettere drasticamente i rapporti con l’Iran
(si spiega anche così il mancato intervento degli Usa nel 2013 di fronte al sospetto d’impiego di armi chimiche da parte del regime siriano), ma al contempo si cerca d’impedire che una vittoria di Asad squilibri lo scenario mediorientale a favore di Teheran. Insomma, una Siria con Asad sconfitto rafforzerebbe troppo la coalizione anti-iraniana mentre una Siria con Asad vincitore rafforzerebbe troppo l’Iran.

L’equilibrio del Medio Oriente, tirando le somme, passa anche per una destabilizzazione insolubile di Damasco, e per mantenere la Siria nel caos il Dāʽiš rappresenta un attore indispensabile, la cui sola presenza peraltro impedisce un completo tracollo del regime siriano (oltre, perché no, a garantire nuova linfa vitale ad una forza armata curda sfruttabile in vista di un rafforzamento turco). Anche una nutrita presenza del Dāʽiš in Libia potrebbe tornare utile per smorzare le mire egemoniche di un Egitto che starebbe puntando gli occhi persino su paesi come Marocco e Tunisia.
Alla luce di tutto ciò si riesce a spiegare il fatto che già nel 2012 la Defense Intelligence Agency (Dia) scriveva in un documento quanto fosse importante l’insorgenza di un fenomeno simile (si veda «2012 Defense Intelligence Agency document: West will facilitate rise of Islamic State “in order to isolate the Syrian regime”», DIA Report, 14-L-0552/DIA/287, 12/08/2012; pubblicato online sul sito Levant Report); ma con questo ragionamento si spiegano altresì altri comportamenti sospetti: la pigrizia nella lotta contro il Dāʽiš (si veda G. Friedman, «The Virtue of Subtlety: A U.S. Strategy Against the Islamic State», Stratfor, 09/09/2014), certe interessanti dichiarazioni del generale Petraeus (da L. Sly, «Petraeus: The Islamic State Isn’t Our Biggest Problem in Iraq», «The Washington Post», 20/03/2015), taluni singolari errori in cui le armi che dovevano essere consegnate ai peshmerga curdi sono finite nelle mani del Dāʽiš e la seguente dichiarazione di Muhamad Sadiq Kushki, docente all’Università di Teheran intervistato dall’agenzia «Irna» sulle vicende irachene (per molti aspetti simili a quelle siriane): 

«In generale l’Is agisce negli interessi di Stati Uniti e Israele. Washington ha perso influenza nello scacchiere iracheno e non vuole che l’Iraq svolga un ruolo regionale a favore di Teheran, dunque preferisce che sia coinvolto in diatribe infinite. Israele vedeva nell’avanzata dell’Is la possibilità di indebolire il governo sciita di Baghdad. Ma il problema è che l’avanzata dell’Is e la passività americana hanno costretto gli iracheni a rivolgersi ancor di più all’Iran. L’America se n’è accorta ed è corsa ai ripari, tornando a giocare un ruolo importante in Iraq».

Come se non bastasse, stabilizzare la presenza di un Dāʽiš telecomandato da Washington (operazione peraltro non da escludere stia avvenendo già adesso vista quella che pare un’eliminazione selettiva di determinati leader del movimento, come il responsabile delle risorse energetiche Abū Sayyāf) potrebbe sul lungo periodo favorire il passaggio di gasdotti finalizzati a trasportare il metano iraniano in Europa.

Per una strana congiunzione del destino, l’apparato politico/mediatico europeo, statunitense,
arabo e jihadista pare cantare all’unisono la ritrita immagine di uno scontro religioso in cui la posta in gioco sono da una parte la difesa della cristianità (questo è ciò che il Dāʽiš, abbindolando certi media islamofobi europei, vuole far credere) e dall’altro la difesa della fede sunnita di fronte alla travolgente avanzata del pericoloso sciismo iraniano. A quest’ultimo proposito Hamid Dabashi, docente di studi iraniani alla Columbia University, ha scritto che 

«i regimi al potere in Iran e nei paesi arabi hanno un obiettivo comune: far deragliare la postura rivoluzionaria delle primavere arabe. La contrapposizione tra nazionalismo arabo e persiano e tra sciiti e sunniti è uno stratagemma, un sotterfugio, una viscida tattica diversiva per salvare questi regimi dal loro nemico comune: le aspirazioni democratiche dei loro popoli. Consentendo ai regimi arabi al potere di raggiungere questo obiettivo, l’Iran non è loro nemico, ma il loro più sincero e ardente amico- di fatto il loro tipo ideale, la loro ispirazione» (da H. Dabashi, «Iran: Friend or Foe of Arab Regimes?», da «Aljazeera» del 31/03/2015).

Un monito che vale nel mondo arabo, ma con qualche piccola correzione applicabile tranquillamente anche al nostro continente.

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