martedì 27 ottobre 2015

Chi ha paura del pensiero critico?

Nonostante la bramosia della costruzione di un pensiero uniforme a livello di società sia insita in qualsiasi struttura di potere, la sistematicità con cui l’attuale esecutivo coltiva l’ossessione del controllo sul dissenso merita una discussione più approfondita per capire quale forma di Paese sta venendo brutalmente plasmata. Dal governo, ovviamente, ma anche dai suoi mentori assiepati nei consigli di amministrazione o nell’assortita serie di think-tank capillarmente concentrata nel mantenimento dell’egemonia culturale dei dogmi neoliberali – dall’Adam Smith Institute alla Heritage Foundation, dalla Société Mont-Pelerin all’Istituto Aspen, dalle Bildeberg Conferences alla Tavola Rotonda degli Industriali Europei.

Un ricco vivaio a cui da un lato la cospicuità dei mezzi finanziari e dall’altro la pigrizia della controparte nel tentare una risposta specularmente vivace (attualmente le uniche riviste di pensiero critico di discreta diffusione sono le anglosassoni «Monthly Review» e «New Left Review») ha concesso dapprima il controllo dell’informazione di massa, poi il quasi monopolio delle istituzioni politiche. Manca solo qualche tassello per raggiungere il pieno controllo sociale; anzi, provvede l’ormai celebre Report dell’imponente società finanziaria JP Morgan «The Euro Area Adjustment: About Halfway There» (Europe Economic Research, 28/05/2013) a fare il punto della situazione: dopo che il titolo riconosce la diligenza nell’aver svolto circa la metà del percorso auspicato, dal nono punto in poi dell’elaborato s’indica con chiarezza alle nazioni dell’eurozona la prossima tappa da
La grande banca invoca la rimozione dei principi costituzionali,
la politica esegue con entusiasmo
completare: risolvere l’inadeguatezza delle Costituzioni
«nate troppo a ridosso della sconfitta delle dittature», ritenute eccessivamente infettate da «una forte influenza socialista» e inclini ad affermare «governi deboli», evidentemente non forti abbastanza per debellare con disinvoltura «la protezione costituzionale dei diritti al lavoro» e soprattutto l’impiccio più ostico di tutti, «il diritto di protestare quando intervengono modifiche sfavorevoli dello status quo» (pag.12).
In maniera meno sbrigativa, un rapporto dello scorso anno della fondazione Italiadecide («Italiadecide, Rapporto 2014. Il Grand Tour del XXI Secolo: l’Italia e i suoi territori», Società Editrice il Mulino) lautamente foraggiato dai capitali di Benetton e Intesa Sanpaolo arrivava ad analogo auspicio: usando il pretesto molto gettonato del rispetto verso il turista, si afferma a pag.239 che l’afflusso turistico è determinato in misura consistente 

«dall’immagine fornita dal sistema paese, dalla sua credibilità, dal senso di sicurezza trasmesso ai potenziali visitatori, dall’idea di ordine e di organizzazione territoriale, sociale ed economica veicolata dai mass-media, dalle cronache quotidiane, dai social network».

Grazie a poche parole si palesa insomma l’obiettivo di ottenere un pensiero unico totalizzante, di cui un passaggio straordinario – dalla crisi economica all’organizzazione di un grande evento come l’Expo – può rappresentare il catalizzatore ideale per anticiparne gli aspetti di maggior portata.
Non sorprende quindi che la classe capitalistica transnazionale abbia plasmato nel laboratorio dei media un Presidente del Consiglio come Matteo Renzi, la cui cifra e carburante del successo sono fondati su uno spavaldo disprezzo nei confronti del pensiero ponderato analogo a quello del pietoso filosofo Callicle, celebre per diffondere nell’Atene classica il ripudio canzonatorio verso la razionalità: «La filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in giovane età;
Il sociologo Marco Revelli
ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini
» dichiarava nel «Gorgia», giungendo alla sincera conclusione che in fin dei conti le regole – comprese quelle democratiche – sono arzigogoli inventati da «uomini deboli e del volgo», futili orpelli per «i ben dotati dalla natura» meritevoli di agire «e di prevaricare» secondo la loro indole. Il sociologo Marco Revelli, che con sagacia ha per primo notato questa somiglianza, nel suo ultimo libro arriva all’amara considerazione che

«ogni volta che il nostro paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’azione al pensiero. Il demiurgo al riflessivo. Il fare al pensare. E addita nell’intellettuale il nemico della Patria. Il podagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà» (da M. Revelli, «Dentro e Contro: Quando il populismo è di governo», i Robinson/Letture, Editori Laterza, ottobre 2015, pos.947 della versione Kindle).

L’attacco che fin dalle prime settimane di azione i principali componenti dell’esecutivo hanno riservato alle maggiori istituzioni della formazione del pensiero non lascia spazio a dubbi sulla rilevanza che questo aspetto ricopre nell’azione di governo: già il 31 marzo 2014 il Presidente del Consiglio sulle colonne del «Corriere della Sera» scherniva la categoria dei «professoroni» e dei «professionisti dell’appello» (dall’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo, «“No, il Senato non sarà più elettivo”») facendo da apripista alle frecciate che appena qualche giorno più tardi Maria Elena Boschi riservò contro «le continue prese di posizione dei professori» colpevoli «negli ultimi trent’anni» di aver «bloccato un processo di riforma che invece non è più rinviabile» (dichiarazioni rilasciate nella trasmissione «Agorà», su Rai 3 del 04/04/2014).

Il premier Matteo Renzi



Una chiara insofferenza verso il pensiero critico che accompagnerà gran parte degli ultimi interventi legislativi, tutti accomunati dal filo conduttore di costruire una società fondata sul dominio incontrastabile della prevaricazione aziendalistica (dopo l’approvazione dello squallido
Jobs Act, Renzi si gongolò all’assemblea generale delle Confindustrie europee di aver debellato «il rischio di un giudizio» verso le imprese) il cui acme è stato raggiunto nell’imperio della «buona scuola», barbaro tentativo di assoggettare definitivamente l’istruzione pubblica ai canoni dell’impresa (tramite partenariato pubblico-privato, indicatori di risultato, agenzie di controllo, autonomia e sanzione immediata dei dipendenti incapaci) al fine di formare cittadini a cui l’accumulazione finanziaria risulti non la migliore tra le situazioni possibili, ma l’unica situazione concepibile. La capacità di «esplorare la possibilità di salvezza tramite la facoltà di distinguere» (da J. Birkmeyer, «Kritische Bildung perdu? Einsprüche gegen das neoliberale Hochschulklima»), ossia il non lasciarsi sopraffare dall’astuto trucco propagandistico del «non ci sono alternative» è l’arma più temuta dagli assetti di potere, adoperarla è il mezzo migliore per intralciarne l’interessato percorso.

venerdì 23 ottobre 2015

Cosa divide Renzi dall'Europa

Non vi sono dubbi sul fatto che il governo Renzi abbia adottato senza batter ciglio l’oppressiva impostazione economica ascesa a nume tutelare dell’Unione Europea, eppure nei riguardi delle istituzioni comunitarie serpeggia sottotraccia una forma di dissapore apparentemente incomprensibile circa le misure prioritarie da attuare.

Lo sbalorditivo successo politico, mediatico, accademico ma per certi versi anche popolare delle misure alla base della cosiddetta «austerity espansiva» - mercificazione di ogni aspetto sociale, abbattimento delle tutele nei confronti di cittadini e lavoratori, carico fiscale in costante aumento per le categorie meno abbienti in virtù di una spasmodica attenzione verso la riduzione del debito
Il numero uno della Commissione Europea Juncker
insieme al Premier italiano Renzi
pubblico – vede le sue radici in due eventi complementari: il desiderio da parte delle istituzioni finanziarie di scaricare sui cittadini il costo della crisi bancaria senza compromettere irreparabilmente la tenuta delle casse pubbliche e l’intuizione di adoperare la crisi economica come pretesto per legiferare in tutta fretta misure antidemocratiche finalizzate al completamento della concentrazione di ricchezza avviato fin dagli anni Ottanta (si veda C. Butterwegge, «Rechfertigung, Massnahmen und Folgen einer neoliberalen (Sozial-)Politik», in C. Butterwegge, B. Lösch e R. Ptak, «Kritik des Neoliberalismus», seconda edizione ampliata, Vs Verlag für Sozialwissenschaften, Wiesbaden 2008, pagg.135-200; ma anche Ö. Onaran, «From the Crisis of Distribution to the Distribution of the Cost of the Crisis. What Can We Learn from the Previous Crises about the Effects of the Financial Crises on Labor Share?», Wp n.195, Peri, Amherst, Ma, 2009).
Convincendo i governi nazionali che riformare il sistema creditizio è semplicemente inimmaginabile, appena la crisi economica ha portato alla luce la mole insostenibile di crediti e titoli privi di alcuna concreta base d’appoggio, le banche ritrovatesi di punto in bianco in situazioni di cocente difficoltà di bilancio sono riuscite a farsi generosamente elargire dai singoli stati europei la bellezza di 4,13 trilioni di euro nel periodo intercorso tra l’ottobre 2008 e l’aprile 2010 (da T. J. Doleys, «Managing State Aid in Times of Crisis: The Role of the European Commission», paper presentato alla V Conferenza paneuropea sulla politica Ue, Università di Oporto, giugno 2010, pag.1). Denaro pescato direttamente dalle tasche dei contribuenti e di fatto unico responsabile del possente innalzamento dei debiti pubblici registrato in quel periodo (in cui il totale del debito pubblico europeo è passato dal 60 all’80% del Pil, mentre il rapporto deficit/Pil si è decuplicato passando dallo 0,7 al 7%).

Tutta l'Ue ha dovuto subire tagli di bilancio in ossequio all'austerity


Non rivelandosi sufficiente la mole di denaro concessa e non potendo elargire direttamente altri soldi pubblici – un debito eccessivo porterebbe alcune nazioni al fallimento, facendo sfumare per gli istituti finanziari i profitti derivanti dagli interessi sui titoli pubblici – le nazioni e soprattutto le strutture europee in aperta combutta con gli interessi finanziari cominciano a spargere inspiegabilmente una preoccupata ossessione verso la consistenza dei debiti pubblici. Una farneticante mania che non ha mancato di suscitare perplessità tra alcuni analisti, basiti nell’assistere alla narrazione di una crisi prettamente interna alle disfunzionalità del settore bancario trasformatasi magicamente in crisi dei bilanci pubblici. Si legga quanto afferma un team di docenti della Stern School of Business di New York:

«Appena tre anni fa, non c’era essenzialmente nessun segno di rischio del credito sovrano nelle economie sviluppate, e l’opinione prevalente riteneva improbabile che tale rischio costituisse un problema per esse nel prossimo futuro. Di recente, tuttavia, il rischio del credito sovrano è diventato un problema significativo per diverse economie sviluppate, soprattutto in Europa» (da V. Acharya, I. Drechsler e P. Schnabl, «A Pyrrhic Victory? Bank Bailouts and Sovereign Credit Risk», New York University Stern School of Business, New York 2011, Wp, pag.1).

Nonostante questa evidenza, un nutrito sforzo accademico riuscì nel giro di pochi mesi a predisporre le fondamenta logiche della nuova dottrina presto denominata «austerity espansiva», presentata tra fragorosi applausi all’Ecofin del febbraio 2010 dall’economista – e stimato editorialista del «Corriere della Sera» - Alberto Alesina trovando supporto non solo tra altri illustri colleghi redattori del piano (Giavazzi, Perotti, Pagano e Ardagna) ma anche tra le pubblicazioni di altri economisti come Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt che all’incirca nello stesso periodo giunsero all’ardita conclusione che una quantità di debito pubblico superiore al 90% del Pil ha immediate ripercussioni sulla crescita economica. Le elucubrazioni di Alesina riuscivano a fare un passo logico più avanti, raggiungendo il traguardo di convincere che un bilancio pubblico col segno negativo susciti nella psicologia degli attori economici, compresi i cittadini, il timore di trovarsi costretti di lì a breve un’impennata dal punto di vista fiscale. Timore, questo, vanificato al punto tale nel caso di bilanci positivi da spingere verso una luminosa crescita economica.

Gli effetti dei feroci tagli di spesa pubblica e degli altrettanti spietati aumenti di tassazione sul Pil greco


L’assortita serie di memorandum, regolamenti, lettere perentorie, appelli arcigni e finanche modifiche costituzionali che hanno caratterizzato la vita economica europea degli ultimi anni non fa altro che dare piena attuazione a questo teorema, spacciato come Guerra Santa nei confronti degli stati spendaccioni ma in realtà «grande guerra» (per usare le parole dell’economista James Crotty) organizzata dall’oligarchia finanziaria per imporre il proprio dominio su ogni aspetto della società e garantire nuove basi speculative dalla privatizzazione dei servizi essenziali finora non solo unici argini di tutela pubblica ma settori che nulla hanno a che vedere con i disavanzi di bilancio pesando da anni sulle casse dell’erario per una quota invariata attorno al 25% del Pil (da Ocde, «Questions Sociales. Tableaux Clés de l’Ocde», tav.1, Paris 2011).

La stagnazione delle economie europee a seguito dell'applicazione dell'austerity


Se l’aspetto speculativo sta andando a gonfie vele, non si può dire altrettanto del contesto economico e sociale dei paesi soggetti alla «cura»: paradigmatico il caso della Grecia dove cinque anni di vessazioni hanno comportato un tracollo del Pil del 25%, un reddito delle famiglie depauperato del 40%, una disoccupazione a livelli disperati (25% quella nazionale, 60% quella giovanile) e paradossalmente un debito pubblico che non s’impenna ma la cui crescita prosegue inesorabile essendo, checché si affermi pubblicamente, necessaria da un lato per ottenere una rendita speculativa sugli interessi e dall’altro come arma di ricatto da puntare contro il debitore nei momenti di necessità.

La Grecia sarebbe uscita rapidamente dalla recessione se non fossero arrivati gli scriteriati programmi di austerity


Che fin dall’ultimo governo Berlusconi anche l’Italia abbia intrapreso questo percorso non vi sono dubbi di alcun genere. Tra le peculiarità del nostro debito pubblico vi è però quello di aver subito a cavallo tra del millennio una graduale trasformazione, finendo progressivamente nelle mani degli speculatori stranieri, i quali nel 1991 possedevano solo il 5,99% del debito, nel 1998 ne possedevano il 29,12% e nel 2005 sono arrivati ad averne il 53,31% (da rilevamenti sul «Sole 24Ore» condotti da L. Tedoldi e riportati su «Il conto degli errori: Stato e debito pubblico in Italia», e-book Laterza, Roma-Bari 2015, cap.4.4, pos.3957 della versione Kindle). Qui risiede l’origine della diatriba tra due posture differenti di approcciarsi all’austerity: da una parte quella più tecnica, più sensibile alle direttive europee e più vicina all’ambiente finanziario specie se di tipo politico (la Bce) e dall’altro versante quella più populista, più marcatamente italiana, più di stampo industriale/manifatturiero o al massimo di finanza speculativa «privata» (tipici casi quelli di Marchionne e Confindustria). A differenziare questi due campi non provvede solo una questione d’immagine mediatica, quanto di priorità verso cui concentrarsi maggiormente – da una parte il chiodo fisso di non far impennare il debito inutilmente, dall’altra invece la vera ossessione è quella di attaccare frontalmente i diritti al lavoro. La vera differenza tra Enrico Letta e Matteo Renzi in fin dei conti si riduce a questa diversa visione di approccio, in un contesto in cui la sfacciataggine con cui Confindustria ha praticamente licenziato il governo Letta (coadiuvato dalla campagna mediatica anti-Napolitano ma in realtà anti-Letta orchestrata per l’occasione dal «Corriere della Sera») si sposa alla perfezione con il doppiopesismo di Renzi, tanto mediaticamente ostile nei confronti delle banche quanto silente nei riguardi di una Fiat che estirpa dall’Italia la propria sede fiscale.

Come reagiscono i mercati dei titoli pubblici agli eventi finanziari (da notare che
l'innalzamento del debito registrato tra il 2008 e il 2010 non ha comportato particolari ripercussioni su questo versante)


Non è concepibile, nell’èra dei partiti evanescenti, della politica oggetto di discredito e delle disuguaglianze medievali credere che una figura politica possa ai giorni nostri ambire ad un ruolo di comando senza il provvidenziale sostegno di qualche struttura economica e/o mediatica: la coalizione sociale che sta dietro la disinvolta scalata di Matteo Renzi è oltretutto particolarmente sbruffona e ciarliera, è quella di un’economia reale che ai rigidi parametri di
Giorgio Squinzi, dominus di Confindustria
Maastricht preferisce una situazione fiscale personale la più leggera possibile anche a costo di stressare le già martoriate casse dello Stato. Dispiegando una massiccia campagna mediatica per dirottare il dibattito pubblico e le primarie aperte del Pd in favore dell’allora sindaco di Firenze (dal 2 giugno al 16 luglio 2013 sui quotidiani nazionali compare il nome di Gianni Cuperlo in 283 articoli, quello di Pippo Civati in 304 e quello di Matteo Renzi in 1385; si veda M. Prospero su «Il nuovismo realizzato», bordeaux eBook, ed.2015, cap.1, pos.299 della versione Kindle) gli apparati dell’industria nostrana sono consapevoli di ottenere un’azione politica improntata rigorosamente sui propri desiderata, anche dal punto di vista delle poltrone nei vertici più prestigiosi delle poche aziende di Stato rimaste – dall’ex-numero uno di Confindustria piazzata alla presidenza di Eni al posizionamento di praticamente tutti i principali sostenitori della Fondazione Open (motore economico delle campagne elettorali del premier) fino a cospicui favori nei riguardi di Montezemolo, Casini e Della Valle, attigui agli ambienti dei principali quotidiani e al contempo desiderosi che Ferrovie dello Stato non faccia troppa concorrenza alle iniziative private di trasporto su rotaia.

  
La condiscendenza di questo apparato ai dogmi neoliberali cardine delle istituzioni europee è assicurata. La divergenza riguarda solo questioni di ritmo e di modo, da qui il diverbio (soprattutto con la Commissione Europea) destinato comunque a non sortire alcun cambiamento di rotta tanto efficace quanto improcrastinabile.

martedì 20 ottobre 2015

Gli evasori ringraziano

Sebbene l’impresa sia ardua, trovare un senso logico alle disposizioni adottate dalla legge di Stabilità soprattutto in materia di liberalizzazione del contante è non solo possibile, ma a voler sommare la beffa al danno lo si può rintracciare nel sito web del Partito Democratico.
Trattasi di uno studio commissionato nel 2011 all’istituto di ricerca Swg per tastare il polso della galassia dei lavoratori autonomi: il risultato, pubblicato sul documento «Indagine sul lavoro autonomo in Italia: artigiani e commercianti», dimostra con ineguagliabile evidenza l’acuta profondità del dissapore di queste categorie nei confronti delle istituzioni pubbliche segnalando a pagina 23 che l’86% degli artigiani e il 78% dei commercianti vede nel fisco il nemico più odioso.

Il rapporto conflittuale tra fisco e lavoro autonomo in uno studio commissionato dal Pd


Se esistessero partiti politici dotati di organizzazione, autorevolezza e credibilità tra le priorità
divulgative vedrebbe quella di fornire ai cittadini gli strumenti per comprendere l’indissolubile legame tra evasione e pressione fiscale, sfatando in tal modo l’interessato bombardamento mediatico – storicamente infondato – incline a vedere nel rimedio (la lotta all’evasione) la causa della sbalorditiva infedeltà fiscale registrata nel Paese. Equivoco non privo di situazioni grottesche, come quella che proprio nei giorni in cui un editoriale di Piero Ostellino sul «Corriere della Sera» si scagliava contro il «terrorismo fiscale» e la presunta «cultura becera e totalitaria» applicata nei riguardi degli evasori (da P. Ostellino, «Caccia all’evasore (ma senza terrorismi)» sul «Corriere della Sera» del 15/10/2011) la Corte dei Conti avrebbe fatto notare che «nel consuntivo 2012 l’andamento della riscossione segnala un preoccupante indebolimento» (da Corte dei Conti, «Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica», maggio 2013, pag.20).

Se non prevalesse l’ottusità demagogica fondata sul fatto che

«in alcune campagne elettorali le differenze di punti di vista e programmi, ma soprattutto di slogan e di obiettivi propagandistici, tra i due schieramenti (centrodestra e centrosinistra) in materia fiscale sono state determinanti degli esiti finali del voto» (da A. Santoro in «L’evasione fiscale», ed.Il Mulino)

sarebbe stata possibile già da tempo un’articolata discussione con l’ausilio di approfonditi studi uno dei quali afferma che anche qualora le aliquote fiscali venissero portate ai livelli della Spagna i risultati sortiti sul fronte dell’evasione sarebbero deludenti: non solo l’economia sommersa rimarrebbe impiantata sulla soglia del 16% in confronto al Pil, non solo l’incasso previsto si limiterebbe a 16 miliardi, ma

«si avrebbe una riduzione cospicua di gettito effettivo, perché la diretta riduzione delle aliquote legali sui contribuenti in regola farebbe calare l’imposta pagata da questi ultimi. E tale riduzione supererebbe il maggior gettito derivante dalla minor imposta evasa» (da Confcommercio, «Una nota sulle determinanti dell’economia sommersa», maggio 2012, pag.21).

Per il momento non è data sapere la posizione dell’esecutivo in tema di evasione (argomento assai sporadicamente affrontato nei discorsi ufficiali), di sicuro sappiamo soltanto che del suo contrasto si farebbe volentieri a meno: rendendo ancora più libera la fruizione del contante – peraltro esentasse al contrario di quanto avviene col bollo applicato ad assegni e conti correnti – non si fa altro che andare in perfetta controtendenza rispetto a quanto caldamente
Padoan, il ministro che nel giro di pochi anni
ha bruscamente invertito la sua opinione sul contante
raccomandato
, per esempio, dalla Corte dei Conti la quale in varie occasioni (ad esempio «Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica», pag.23) non solo aveva individuato nella stretta all’uso del contante tra le operazioni più efficaci per contrastare il sommerso, ma affermando che «è intuibile come la gran parte delle transazioni che possono dar luogo all’occultamento dei ricavi si addensi al di sotto della soglia dei mille euro» (da Corte dei Conti, «Valutazioni sul fenomeno dell’evasione fiscale e sul sistema informativo dell’anagrafe tributaria ai fini del suo rapporto», luglio 2012, pag.8) riteneva addirittura troppo generoso il limite ora considerato dalla vulgata governativa un vincolo asfissiante. A generare la premura dei magistrati contabili era la constatazione di un contesto sociale ove - a prescindere da un rapporto Eurispes che fa ammontare addirittura a 529 miliardi il valore dell’economia sommersa - secondo praticamente tutti gli indicatori vede una paurosa galassia dell’economia in nero oscillante tra il 17 e il 21% del Pil (cioè tra 270 e 340 miliardi secondo i dati 2012 rilevati dallo Stratfor Global Intelligence) garantendoci una medaglia di bronzo, dopo Grecia e Messico, tra i paesi con maggior economia sommersa tra le nazioni Ocse (da F. Schneider, A. Buhen e C.E. Montenegro, «Shadow Economies All over the World. New Estimates for 162 Countries from 1999 to 2007», The World Bank, Development Research Group, WP n.5356, Washington 2010, soprattutto pag.24). 

Come si colloca l'Italia nella classifica dell'economia sommersa tra i Paesi Ocse


Che questa montagna di denaro si nutra esclusivamente del contante non è solo logico, ma anche dimostrato in sede di studi se è vero da un lato che il nostro Paese adopera il contante per l’82,7% delle transazioni contro una media Ue del 66,6% (si veda Banca d’Italia, «Il costo sociale degli strumenti di pagamento in Italia», novembre 2012, pag.36) e dall’altro che

«Grecia e Italia sono i paesi europei che mostrano i prelievi di contanti di importo medio più elevato (rispettivamente 250 e 175 euro), e contestualmente hanno la più alta incidenza dell’economia sommersa sul Pil» (da C. Milani, economista del Centro Europa Ricerche, su «lavoce.info», 22/12/2011)

Sebbene secondo l’Istituto per la Competitività un’infima riduzione del prelievo di 15 euro agli sportelli del bancomat comporterebbe un maggior gettito di poco inferiore i dieci miliardi di euro (da Istituto per la Competitività, «Working Paper – un brillante futuro in pericolo. I benefici economici e sociali della moneta elettronica e i paradossi della regolazione», pag.18), i vantaggi derivati da un minor utilizzo del denaro frusciante non si limitano alla lotta al sommerso: secondo un rapporto Capgemini 2011 produzione e mantenimento del contante costituiscono per le casse dello Stato un costo di dieci miliardi di euro ogni anno (da S. Livadiotti, «L’Italia in nero», da «L’Espresso» del 26/09/2013) e uno studio Moody’s Analytics è arrivato alla conclusione che grazie alle carte di pagamento sono stati generati 983 miliardi di dollari di maggior crescita e due milioni di posti di lavoro a livello globale e nel solo periodo 2008-2012 (da Moody’s Analytics, «The Impact of Electronic Payments on Economic Growth», febbraio 2013, pag.3). 

I vantaggi in termini di gettito del minor ricorso ai prelievi di contante

Su quest’ultimo versante, anche l’Italia può vantare un’effimera esperienza: grazie al decreto legge 04/07/2006 n.223 del governo Prodi, l’obbligo del pagamento tracciato per i lavoratori autonomi e la fissazione di un limite al pagamento di compensi in contante sotto i 100 euro provocarono un andamento del Pil che per il 2006 registrò un +3,94% e per il 2007 un +4,09%. Inoltre, l’imposta sul reddito dichiarata dai lavoratori autonomi solamente il primo anno schizzò del 12,15%, con conseguenti mugugni che contribuirono non poco a spingere per un repentino cambio di governo grazie al quale – siamo nel 2008 e Berlusconi è tornato saldamente a Palazzo Chigi – queste misure furono celermente debellate facendo registrare un singolare crollo del gettito dei redditi da lavoro parte d’imprenditori e commercianti del 13,42% rispetto al 2007.



Da quel momento in poi, nessuna formazione politica di rilievo ha mostrato verso l’evasione fiscale l’attenzione meritata, lasciando solo a qualche studio indipendente la considerazione che

«si può affermare che a fronte di un universo di quasi cinque milioni di contribuenti che svolgono attività indipendenti e, come tali, a maggior rischio di evasione, il numero dei controlli approfonditi che l’Agenzia delle entrate, con l’ausilio della guardia di finanza, riesce a mettere in campo annualmente difficilmente supera quota 200 mila, dato questo che equivale a una probabilità di controllo approfondito ogni venti anni di attività» (da Corte dei Conti, «Elementi per l’audizione del Presidente della Corte dei Conti presso le Commissioni Bilancio V e Finanze VI della Camera dei Deputati», 19/06/2013, pag.9).


La millantata «svolta buona», qui come altrove, fatica non poco a trapelare. 

mercoledì 14 ottobre 2015

Che ci fa la Russia in Medio Oriente

Ovviamente non sono né il benessere dei siriani, né la «difesa della sovranità nazionale» (variante moscovita della statunitense «esportazione della democrazia») a spingere la Federazione Russa ad affrontare l’aggrovigliata matassa mediorientale spedendo 2500 uomini nella fascia nordoccidentale dell’ormai defunta nazione siriana, tanto più se consideriamo la metodicità e la freddezza logica (spesso assente tra i rivali statunitensi) che spinge Mosca ad approvare azioni militari. Permangono l’interesse verso un’enclave decisiva – dal punto di vista delle risorse energetiche, della ricchezza archeologica e dell’essenziale posizione geografica – ma anche il desiderio di regolare altre partite, sia nell’area che a livello internazionale.

1. Difendere l’Alauistan per proteggere al-Asad e le basi militari sul Mediterraneo
Il clan sciita degli al-Asad che fino al 2011 dominava incontrastato a Damasco gode di un legame peculiare con la Russia a partire da quando il capostipite Ḥafiẓ trascorse un lungo e fruttuoso soggiorno a Mosca apprendendo peraltro alcune pratiche militari che gli torneranno utili una volta tornato in patria. Le cordialità rimasero talmente salde che ancora nel 2011 non solo vivevano in Siria 100mila russi ma entravano in vigore contratti per forniture di armamenti per un valore di quattro miliardi di euro. L’acme dell’intesa, però, va fatto risalire al 1977, anno in cui fu proprio la Siria il paese disposto ad accogliere le basi della Marina sovietica sul Mediterraneo a seguito della rottura dei rapporti tra Mosca e Il Cairo. La regione adibita a fornire alla Russia una base d’appoggio nel Mare Nostrum, quella tra Latakia (in cui sono presenti nuove installazioni aeree), Ğablat (sede della base sottomarina) e la fondamentale Ṭarṭūs (sede della base navale) rappresenta quindi per Mosca l’unico e irrinunciabile piede nel Levante; e al contempo rappresenta per la famiglia al-Asad l’unica vera porzione di territorio siriano rimasta al momento sotto il proprio controllo. Se ne è resa conto anche Mosca, la quale difatti limita le proprie azioni alla difesa del cosiddetto «Alauistan» (soprattutto l’area di Latakia) dando per definitivamente conquistato dalle milizie del Dāʽiš (lo Stato Islamico), di Ğabhat al-Nuṣra e di altre cellule jihadiste il resto della nazione.



Una difesa di una potenziale nazione autonoma sia nei confronti delle minacce esterne, sia nei confronti di quelle interne se si tiene conto non solo della rivoluzionata composizione sociale dell’Alauistan (i bruschi movimenti interni al paese hanno negli ultimi anni fatto prevalere la componente sunnita tra gli abitanti di Latakia), ma anche delle turbolenze dell’agosto scorso – sit-in, proteste e lungo le principali arterie autostradali azioni di disobbedienza civile senza autorizzazione – persino tra la popolazione sciita e in particolar modo tra gli sfollati di Fūʽa e Kafrayā infuriati col traballante governo per la mancata attenzione verso le due città; a cui faranno seguito dapprima altre manifestazioni tra le comunità sciite di Ḥimṣ, Aleppo e Latakia, e poi azioni di protesta («contro la corruzione» e contro la mancata erogazione dei servizi essenziali) da parte di alauiti di Latakia e di drusi di Suwaydā’. Azioni a dir poco inconsuete nei pur turbati territori siriani, il cui unico effetto è stato quello di spingere ancor di più Mosca nella ferrea difesa degli al-Asad, facendo balenare agli avversari del regime la minaccia che una destabilizzazione del governo comporti uno scontro con la superpotenza russa.
Va però riconosciuta alla Russia l’assoluta sincerità nella propria costante difesa degli al-Asad, al punto che il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha avuto modo di affermare pubblicamente: 

«La Russia non ha mai nascosto la sua cooperazione tecnico-militare con la Siria. Il nostro paese ha per lungo tempo fornito armi ed equipaggiamento militare alla Siria nell’ambito degli accordi bilaterali. In Siria ci sono anche consiglieri militari russi che provvedono all’addestramento del personale per gli armamenti in arrivo. E se saranno necessari ulteriori passi, siamo del tutto pronti a intraprenderli». 

Ma probabilmente non è solo l’affetto per il governo siriano a muovere le truppe moscovite.



2. Riempire il vuoto caotico lasciato dagli Usa per acquisire leadership e credibilità globale (con la compiacenza di Washington?)
Dimostrando grande sagacia, e un ottimo personale d’intelligence, il Presidente russo Vladimir Putin ha sintetizzato in un’occasione: «I nostri colleghi occidentali […] sono i padri del caos controllato» (da «Transcript of the final plenary meeting of the Valdai International Discussion Club’s XI session», 24/10/2014, President of Russia Official Website) provando in questo modo a spiegare la tattica statunitense di alimentare il caos in modo da indebolire a suon di furiose guerre reciproche i vari attori in campo. 

(fonte)
La Siria ne rappresenta il caso esemplare, ove persino una modica presenza del Dāʽiš viene considerata provvidenziale per carburare la confusione dell’area. Non è un caso, del resto, che il 75% delle missioni dei caccia statunitensi contro il Dāʽiš si sia conclusa senza aver smosso un solo granello di sabbia (da J. Klimas, «U.S. Bombers Hold Fire on Islamic State Targets amid Ground Intel Blackout» su «The Washington Times» del 31/05/2015) o la rivelazione secondo cui alcuni solerti analisti del Pentagono hanno esaltato oltre la loro reale portata le sconfitte patite dal terribile gruppo jihadista (da S. Harris e N. Youssef, «Exclusive: 50 Spies Say ISIS Intelligence Was Cooked» su «The Daily Beast» del 09/09/2015). 

È la consapevolezza che l’accordo sul nucleare iraniano altro non sia che il preludio di un progressivo allontanamento degli Stati Uniti dall’area (già da ora il comandante del Centcom, comandante Lloyd Austin, afferma che appena «quattro o cinque ribelli [siriani, ndr.] addestrati dagli americani sono pronti alla guerra», da S. Ackerman, «US Has Trained only “Four or Five” Syrian Fighters against Isis, Top General Testifies» su «The Guardian» del 16/09/2015) unito all’atteggiamento di equidistanza tra le potenze mediorientali (fragilissima visto, ad esempio, il conflitto irrisolto tra fautori e avversari della Fratellanza Musulmana) che lascia orfani – e soprattutto desiderosi di protezione, da qualunque parte essa arrivi - gli attori coinvolti nel pantano levantino. Tra i quali vanno annoverati anche i paesi europei, che grazie all’intervento russo
Immagine diffusa dal governo russo: caccia in azione in Siria.
Pubblicata sul Corriere della Sera del 06/10/2015
in Siria sono costretti a guardare a Mosca come un indispensabile baluardo nella lotta contro il terrorismo islamico e come unica forza in grado di arginare la massiccia immigrazione di profughi siriani; anche questa probabilmente una crisi (sottovalutata da Washington) frutto non casuale di una strategia destabilizzante architettata da una Turchia desiderosa di convincere l’Occidente della necessità di far affondare il regime siriano (sulla tanto sospetta quanto inedita incapacità della Turchia di scoraggiare i migranti mediorientali a raggiungere l’Europa si vedano A. Williamson, «False Flag Alert of Refugee Crisis?», Ron Paul Institute del 04/09/2015; e Y. Soulitis, «Refugee Flow Linked to Turkish Policy Shift» su «Ekathimerini» del 06/09/2015).
Inserendosi nel marasma siriano, quindi, la Russia ha modo di ergersi come interlocutore indispensabile e di caratura internazionale, facendo dimenticare un conflitto ucraino entro cui fino a pochi mesi fa l’Occidente sperava di confinare la potenza russa.

Nonostante ciò che in molti sono portati a pensare, non è da escludere che gli Stati Uniti abbiano maturato un certo compiacimento verso la rivitalizzazione moscovita: non solo il rischio che il «califfo» al-Baġdādī arrivasse a conquistare Damasco sarebbe stato uno smacco difficilmente
John Kerry
digeribile per un’opinione pubblica statunitense in procinto di entrare in campagna elettorale, ma l’annoso labirinto mediorientale potrebbe prima o poi portare ad un impantanamento di Mosca
. Proprio per questo il segretario di Stato Usa John Kerry ha salutato con bizzarro fervore le truppe che «vogliono combattere lo Stato Islamico» (da M. Gordon, E. Schmitt, «Russian Buildup in Syria Raises Questions on Role» sul «New York Times» del 19/09/2015); proprio per questo è stata lentamente messa in disparte la pressione statunitense verso Grecia, Bulgaria, Turchia e Iraq d’interdire il loro spazio aereo ai velivoli da trasporto russi; proprio per questo non è stata proposta alcuna sanzione (o reazione) atta a contrastare l’attivismo moscovita; proprio per questo è stato possibile un incontro tra Obama e Putin a margine dell’ultima Assemblea Generale dell’Onu; proprio per questo non si registrano grandi contrasti nei vari incontri bilaterali russo-americani degli ultimi mesi in cui pare arduo credere che la questione siriana non sia mai stata affrontata (si veda M. Crowley, «After Iran, U.S. Presses for Solutions in Syria», su «Politico» del 17/08/2015).

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3. Porre un freno alle ambizioni di Teheran ed espandere la propria influenza nel Medio Oriente
Il desiderio di rimpiazzare la potenza statunitense nel ruolo di tutore del Medio Oriente ha per ora avuto come conseguenza un’auspicata rivitalizzazione dei rapporti col Presidente israeliano Netanyahu il quale, già in pesante insofferenza verso Washington, ha approfittato dell’occupazione moscovita dello spazio aereo solitamente adoperato dai jet israeliani (quelli che bombardano i trafficanti d’armi di Ḥizbullāh per paura che si creino tensioni con Gerusalemme nel confine del Golan) per precipitarsi da Putin il 21 settembre al fine di prevenire incidenti ma soprattutto al fine di capire quanto sia forte l’astio anti-iraniano del Presidente russo: tra gli scopi principali dell’intervento in Siria va infatti annoverata la paura che al-Asad consolidi troppo il suo legame con l’Iran rendendo Teheran un attore talmente influente nell’area mediorientale da arrivare ad insidiare gli interessi russi dal punto di vista strategico e soprattutto energetico.
Non bisogna dimenticare, infatti, quanto sia forte la dipendenza dell’economia russa dall’estrazione d’idrocarburi e di conseguenza quanto sia rilevante per Mosca disporre di una sua influenza nella zona, il Medio Oriente, che ospita circa il 40% delle riserve accertate di petrolio, il 41% delle riserve di gas naturale e il Canale di Hormuz che da solo controlla il 20% della movimentazione mondiale del gas (anche il Canale di Suez gode di una discreta importanza sotto questo aspetto).
Ora che l’Iran e gli Stati Uniti hanno trovato una rinnovata comunanza d’interessi, compito della Russia è evitare che questa alleanza sbocchi in una spietata concorrenza energetica – soprattutto sul mercato europeo post-crisi ucraina – nei confronti di Mosca

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Finora la Russia cerca di evitare che Teheran si lasci galvanizzare da ambizioni energetiche e geopolitiche da un lato elargendogli tecnologia militare, e dall’altro coinvolgendolo nell’importante progetto di rendere l’Iran un paese-cerniera nell’avvio (consequenziale alla crisi ucraina) di una consolidata unione tra Russia e Cina (si veda «China and Russia lay Foundation for massive Economic Cooperation» su «Foreign Policy» del luglio 2015) sperando insomma che la tradizionale alleanza tra Mosca e nazioni sciite – complementare a quella tra Usa e nazioni sunnite – rimanga inalterata ai terremoti regionali, senza per questo negare alla Federazione russa la possibilità di espandere la propria influenza tra le nazioni arabe che si sentono tradite dal progressivo abbandono statunitense. In particolare l’Egitto, paese dove allo stretto legame anti-jihadista e anti-statunitense si accompagna la costruzione di una centrale nucleare da parte dei russi. Ma qualche passo lo si sta compiendo persino nello scongelare i rapporti con l’Arabia Saudita, se è vero che l’azienda di Stato russa Rosatom è in procinto di costruire venti impianti atomici nel paese: una vicenda da 100 miliardi di dollari a cui si vanno ad aggiungere i dieci miliardi che il fondo sovrano saudita Public Investment Fund si accinge a investire in Russia.

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Con la Turchia le cose si mettono un po’ peggio, perché pur riconoscendo un notevole ampliamento dei rapporti commerciali tra i due paesi (l’interscambio è passato negli ultimi cinque anni da 38 a 100 miliardi di dollari) e la costruzione da parte dei russi della centrale atomica di Mersin, le pressioni statunitensi affinché Ankara garantisca all’Iran e non alla compagnia russa Gazprom il passaggio del metano in Europa hanno portato a crescenti difficoltà nella realizzazione del gasdotto Turkish Stream (si vedano «Turkey: Turkish Stream Negotiations Suspended», Stratfor, Situation Report su «Russia» del 31/07/2015 e «Talks on Turkish Stream on hold till November» su «Russia Today» del 03/08/2015) e persino al reclutamento di soldati turchi da spedire in Donbas al fianco dell’esercito ucraino (si veda L. Lulko, «Ukraine Launches Islamization by Creating a Muslim Battalion» su Pravda.ru del 03/08/2015) sebbene, più che dalle tensioni in Donbas, l’intervento moscovita in Medio Oriente si spiega anche come il tentativo di arginare un terrorismo islamico che spesso e volentieri arriva a insidiare il Caucaso russo.



4. E il Dāʽiš?

Nelle varie e spesso contraddittorie partite mediorientali, il Dāʽiš paradossalmente viene considerato da ben pochi attori come un nemico da abbattere: il tentativo delle potenze
Aleppo. Dal Corriere della Sera del 20/09/2015
coinvolte risulta semmai quello di muoverlo a proprio piacimento, cercando di arginarlo solo quando arriva a toccare i propri interessi vista anche l’assenza di vere alternative che possano riappacificare le stremate popolazioni dell’area
. Rosa Brooks, professoressa di diritto a Georgetown nonché consulente al Pentagono e persona affine alle posizioni di Obama arriva a fare una tragica quanto grottesca previsione: 

«Se lo Stato Islamico continua a decapitare gente e se noi non siamo capaci di distruggerlo, forse ci stancheremo di combatterlo e decideremo di stringere accordi con esso. Passerà poi qualche decennio ed ecco che l’Is avrà un seggio all’Onu – se l’Onu esisterà ancora […]. E tutte quelle terribili atrocità verranno cortesemente ignorate».

La geopolitica non solo sorprende di giorno in giorno, ma conosce già dei precedenti analoghi: chi avrebbe immaginato, per esempio, che la Germania responsabile della Shoah sarebbe tornata nel giro di pochi anni a giocare un ruolo di attore riconosciuto? Solo la conclusione affida qualche speranza:

«Se smettiamo di bombardare lo Stato Islamico, forse potrà contenere se stesso più rapidamente di quanto possiamo farlo noi. Oppure, volendo essere meno deprimenti, i capi dell’Is scopriranno, come tanti brutali regimi prima di loro, che le atrocità generano disordine interno e ribellione» (da R. Brooks, «Making a State by Iron and Blood» su «Foreign Policy» del 19/08/2015).

mercoledì 7 ottobre 2015

Lotta all'ultimo barile

Se alcuni indicatori si spingono a parlare di ripresa è scontato che dobbiamo ringraziare, tra gli altri fattori, anche il prezzo del petrolio in picchiata. Meno scontato è constatare che questo evento è una delle armi più importanti imbracciate dall’amministrazione Obama per sfiancare il nemico russo nel corso di una guerra che almeno dalla fine della Guerra Fredda vede gli Stati Uniti adoperare ogni mezzo per ridimensionare non solo le aspirazioni ma l’identità stessa di una Federazione russa il cui rango di Derzhava (traducibile come «Potenza imperiale») è funzionale persino alla sua sopravvivenza come nazione (sull’imprescindibilità della Russia come impero si veda G. A. Hosking, «Russia: People and Empire. 1552-1917», Harvard University Press, Cambridge 1997). La posta in gioco è il controllo del «cuore della terra», identificato da Halford John Mackinder nel 1904 come il «Grande Spazio» geograficamente corrispondente all’allora Russia zarista e alle sue province asiatiche (da H. J. Mackinder, «The Geographical Pivot of History», in «The Geographical Journal», vol.23, n.4, 1904, pagg.421-437); un’«area cardine» la cui ricchezza di risorse naturali e la privilegiata posizione strategica di potenza inattaccabile dalle dirimpettaie «Potenze marittime» consegnava al suo possidente nientemeno che il «dominio del mondo» (si veda H. J. Mackinder, «Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction», National Defense University Press, Washington 1942, da pag.83 in poi). Un concetto ribadito dall’«eurasista yankee» Zbigniew Brzezinski  secondo cui 

«il modo con il quale l’America intenderà gestire la questione eurasiatica sarà fondamentale. Una Potenza che riuscisse a essere dominante in Eurasia controllerebbe due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del mondo. Un semplice sguardo alla carta geografica del globo suggerisce che il controllo dell’Eurasia comporterebbe quasi automaticamente la subordinazione dell’Africa alla Potenza dominante, e ciò renderebbe l’emisfero occidentale e l’Oceania geopoliticamente periferici rispetto al continente centrale del mondo» (da Z. Brzezinski, «The Grand Chessboard», pag.31).

1. Motivi e modalità dell’attacco alla Russia
Non è un caso, quindi, se la bramosia statunitense si è concentrata sulla Federazione russa lasciando quasi sbigottiti al pensiero che solo venticinque anni fa i soldati russi presidiavano la porta di
Vladimir Putin e Barack Obama
Brandeburgo a Berlino mentre oggi si ritrovano a difendere l’influenza su una città a pochi chilometri dal confine federale come Donec’k
.
Ma quella di Obama non è una presidenza caratterizzata dall’interventismo militare: per il momento, le ambizioni imperiali risultano già appagate in un contesto globale di equilibrio multipolare fondato sul fatto che questo equilibrio rimanga costante e nessuna potenza si trovi nella condizione di accreditarsi un dominio superiore alle altre. La Russia, agli occhi di Obama, si è ritrovata invece nella condizione di violare questo equilibrio acquisendo una leadership globale nel risolvere l’intrico delle armi chimiche siriane (è un caso che una seppur fragile tregua in Ucraina sia stata possibile solo quando l’espansione dello Stato Islamico si è rivelata più preoccupante del previsto?), nel concedere l’asilo a Edward Snowden e, soprattutto, nella volontà fino a qualche anno fa facilmente ottenibile di stringere saldi legami con la Germania in vista di una provvidenziale fruizione della tecnologia teutonica.

Nell’estate 2013 si comprende che le rivolte ucraine possono fungere da perfetto detonatore per porre in difficoltà la Russia, allontanarla dalla Germania e scoraggiarla da perseguire disegni di potenza costringendola ad occuparsi di un vicino di casa la cui indipendenza non è mai stata veramente digerita (del resto, il primo nucleo d’identità russa - la Rus’ - vede la propria nascita proprio a Kiev). Nel giro di neanche nove mesi sollevazioni di piazza opportunamente alimentate da una capillare azione statunitense con il braccio attivo di numerose organizzazioni non governative – la coordinatrice di questo sofisticato lavorio, Victoria Nuland, ammise candidamente nel dicembre 2013 che gli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda hanno speso la bellezza di 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica» (da «Statement by Victoria Nuland, Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs», The US/Ukraine Foundation, 13/12/2013) - portano prima alla fuga sconclusionata del Presidente filorusso Janukovyč e di lì a poco all’insediamento di Petro Porošenko, magnate definito nel maggio 2006 dal Dipartimento di Stato statunitense «la nostra talpa in Ucraina» (da E. Di Rienzo, «Il conflitto russo-ucraino», Rubbettino, pag.47) innescando in tal modo una furibonda risposta russa la quale, avvalendosi di una massiccia campagna di propaganda a sfondo nazionalista, porta dapprima ad una tracotante invasione della Crimea e poi ad un conflitto pesante e sanguinoso direttamente con le nuove autorità di Kiev per la giurisdizione delle regioni russofone dell’Ucraina (una sagace analisi delle vicende ucraine è fornita da una fonte sicuramente non imputabile di simpatie filorusse: J. J. Mearsheimer, «Why the Ukraine Crisis Is The West’s Fault?», in «Foreign Affairs» del 21/08/2014).




La dura sconfitta di Obama alle elezioni di medio termine dell’autunno 2014 convince un presidente umiliato a livello interno, a pochi mesi dalla fine del mandato (quindi irresponsabile in caso di future nefaste conseguenze) e desideroso di entrare nei libri di storia a premere ancor di più sull’acceleratore dell’indebolimento del nemico russo, dapprima innalzando la tensione sventolando la possibilità di armare Kiev (questo il nocciolo del discorso al Senato di Tony Blinken
L'attuale presidente ucraino
il 19/11/2014; da K. Wong, «Obama Adviser: Arms for Ukraine “on the Table”», da «The Hill» del 19/11/2014) e poi scatenando un’autentica guerra finanziaria che finora ha comportato un tracollo del rublo del 43% (da S. Hanke, «Russia Is Losing the Currency Wars», da «Business Insider» del 23/11/2014), una fuga d’investitori stranieri per l’equivalente di 128 miliardi di dollari (da P. Krauth, «This “Financial Mass Destruction” Play Is All Upside», da «Morning Money» del 14/11/2014) e, infine, stime di crescita della Banca centrale russa incagliate sullo 0,1% nei prossimi anni (da E. Fabrichnaya, J. Bush, L. Kell, «Russian C. Bank Cuts Growth Forecasts, Sees Sanctions until 2017», da «Reuters» del 10/11/2014).
Ma l’arma che si andava predisponendo era ben più letale e delicata.

2. Perché l’Arabia è parte attiva nel crollo dei prezzi
Nel 1985 il Presidente Usa Ronald Reagan chiede espressamente alla dinastia Saʽūd regnante sui territori dell’Arabia d’immettere sul mercato ingenti quantitativi di petrolio al fine di abbatterne il prezzo mettendo a serio repentaglio la tenuta finanziaria dell’Unione Sovietica. La manovra portò in soli tre anni ad un prezzo del barile passato da 40 a nemmeno 15 dollari contribuendo a far affondare l’esercito russo nelle sabbie dell’Afghanistan.

Ciò che sta accadendo attualmente mostra delle singolari affinità con la situazione dell’epoca, ma nonostante il gioco sia ora pericoloso anche per Washington (la mancata vendita dei gas da scisti mette a rischio un promettente mercato statunitense), la strada della guerra a suon di barili
continua ad essere perseguita nella convinzione – corroborata da studi dell’intelligence statunitense – che un prezzo del petrolio attorno ai 70 dollari riesce a far sopravvivere il bilancio russo per circa tre anni, e se il prezzo scendesse sui 60 la sopravvivenza finanziaria di Mosca si ridurrebbe drammaticamente a soli due anni. Parliamo, del resto, di una nazione in cui la rilevanza del mercato del petrolio è talmente primaria da aver sempre comportato ricadute a livello sociale e politico (si veda G. P. Caselli, «La Russia Nuova: Economia e storia da Gorbačëv a Putin», Sesto San Giovanni 2013, Mimesis) dal momento in cui le imposte sulle esportazioni d’idrocarburi - le quali da sole costituiscono quasi il 70% delle esportazioni totali - costituiscono più della metà delle entrate federali (dal Ministero dell’Energia, estrapolato da «Global and Russian Energy Outlook to 2040», The Energy Research Institute of the Russian Academy of Sciences e The Analytical Center for the Government of the Russian Federation) e il prezzo del petrolio svolge un ruolo anche nelle vendite di gas naturale russo a causa del fatto che Gazprom ha voluto mantenere tra le clausole contrattuali di fornitura un’indicizzazione collegata alle quotazioni petrolifere. Riassumendo, secondo la Banca Mondiale (da Total Natural Resources Rent, % of GDP) negli ultimi cinque anni la rendita mineraria complessiva della Russia corrisponde a circa il 18,7% del Pil contro lo 0,2% della Germania e l’1,3% degli Stati Uniti.


Immagine risalente agli anni Trenta che confronta lo sfruttamento petrolifero della Russia prima e dopo
la Rivoluzione d'Ottobre. Quella in rosso individua la situazione nel periodo comunista; da I.V. Sautin, I.P. Ivanitsky,
"Ussr: An Album Illustrating the State Organization and National Economy of the Ussr", Moscow 1939,
Scientific Publishing Institute of Pictorial Statistics, pag.45 (fonte)

Discettare di un complotto ordito tra Stati Uniti e Arabia Saudita per far crollare il prezzo del petrolio rischia di apparire infondato sebbene accuse esplicite di spionaggio e destabilizzazione tramite ong islamiche (su tutte la Mezzaluna saudita) siano partite dall’ex-direttore dell’Fsb (servizi segreti russi) Nikolaj Patrušev e l’Istituto russo per gli studi strategici abbia recentemente rimarcato il sospetto di azioni politiche dietro il calo del prezzo del barile (di «manipolazione politica» del petrolio ha parlato anche la compagnia statale russa dedita all’estrazione Rosneft’); eppure alcuni dati di fatto sono oggettivamente inspiegabili, a partire dalla totale assenza di contromisure da parte di Riyad di fronte ad un barile passato dalla primavera all’autunno del 2014 da 115 a 70 dollari arrivando successivamente persino a 48 dollari (sono bastati due mesi per realizzare un crollo del 25%) in un contesto ove la pura logica di mercato suggerirebbe caldamente all’Arabia Saudita (unica nazione produttrice in grado di modificare nel breve periodo gli assetti dei prezzi, per questo definita la banca centrale del petrolio) di diminuire il volume di estrazioni in modo da farne alzare i prezzi, accondiscendendo a considerazioni politiche a cui l’Arabia – paese che produce giornalmente 10 milioni di barili di petrolio - si è già dimostrata sensibile in occasione della tragedia dell’11/09/2001 e dei primi mesi della rivoluzione libica. Se abbiniamo questo bizzarro atteggiamento all’incontro fra il segretario di Stato Usa John Kerry e il Re saudita ʽAbdullāh svolto l’11 settembre 2014 il sospetto si rivela poggiato su basi più solide di quanto non si creda


(fonte)
Ma se degli Usa abbiamo già capito i vantaggi derivati dalla caduta dei prezzi, perché l’Arabia dovrebbe avallare questo proposito? Anzitutto anche l’Arabia ha dei conti in sospeso con la Russia dal momento che questa costituisce il maggiore sponsor del regime siriano di al-Asad fortemente osteggiato da Riyad. Ma un gigantesco conto in sospeso esiste anche con l’arcinemico iraniano, anch’esso posto in difficoltà di fronte alla necessità di vendere il proprio greggio (difficoltà funzionale anche a indebolire Teheran sul tavolo della trattativa con Washington sullo sviluppo del nucleare), come peraltro notato anche da Thomas Friedman in un articolo sul «New York Times».
Forse, però, il calcolo maggiore escogitato dall’Arabia è quello di tentare ogni mezzo per ripristinare un clima di cordialità con gli Stati Uniti andato deteriorandosi negli ultimi anni, a partire soprattutto dalle «primavere arabe» (sostenute da Washington, osteggiate da Riyad) ma anche dall’ingresso degli Usa nel mercato energetico con la rivoluzione dello shale gas (visto come una minaccia al monopolio arabo), dagli accordi con l’Iran (malvisti da Riyad), dalla deposizione di al-Asad (agognata dall’Arabia ma non da Washington), dal contrasto dello Stato Islamico in Iraq, dalle prospettive dell’Afghanistan e dal desiderio statunitense di concentrarsi prioritariamente sull’Estremo Oriente.  

Insomma, far crollare il prezzo del petrolio è l’ultima carta a disposizione dell’Arabia per tentare d’instaurare un rapporto privilegiato con Washington da spendere nei principali conflitti regionali. Una carta disperata, sulla cui efficacia è lecito porsi qualche dubbio.