Se alcuni indicatori si spingono
a parlare di ripresa è scontato che dobbiamo ringraziare, tra gli altri
fattori, anche il prezzo del petrolio in picchiata. Meno scontato è constatare che
questo evento è una delle armi più importanti imbracciate dall’amministrazione
Obama per sfiancare il nemico russo nel corso di una guerra che almeno dalla
fine della Guerra Fredda vede gli Stati Uniti adoperare ogni mezzo per ridimensionare
non solo le aspirazioni ma l’identità stessa di una Federazione russa il cui
rango di Derzhava (traducibile come «Potenza imperiale») è funzionale persino
alla sua sopravvivenza come nazione (sull’imprescindibilità della Russia come
impero si veda G. A. Hosking, «Russia: People and Empire. 1552-1917», Harvard University Press, Cambridge 1997). La posta in gioco è il controllo del «cuore della terra»,
identificato da Halford John Mackinder nel 1904 come il «Grande Spazio»
geograficamente corrispondente all’allora Russia zarista e alle sue province
asiatiche (da H. J. Mackinder, «The Geographical Pivot of History», in «The Geographical Journal», vol.23, n.4, 1904, pagg.421-437); un’«area cardine» la cui ricchezza di risorse naturali e la privilegiata posizione
strategica di potenza inattaccabile dalle dirimpettaie «Potenze marittime»
consegnava al suo possidente nientemeno che il «dominio del mondo» (si veda H. J. Mackinder, «Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction», National Defense University Press, Washington 1942, da pag.83 in poi). Un concetto ribadito dall’«eurasista yankee» Zbigniew Brzezinski secondo cui
«il modo con il quale l’America
intenderà gestire la questione eurasiatica sarà fondamentale. Una Potenza che
riuscisse a essere dominante in Eurasia controllerebbe due delle tre regioni
più avanzate ed economicamente produttive del mondo. Un semplice sguardo alla
carta geografica del globo suggerisce che il controllo dell’Eurasia
comporterebbe quasi automaticamente la subordinazione dell’Africa alla Potenza
dominante, e ciò renderebbe l’emisfero occidentale e l’Oceania geopoliticamente
periferici rispetto al continente centrale del mondo» (da Z. Brzezinski, «The Grand Chessboard», pag.31).
1. Motivi e modalità dell’attacco
alla Russia
Non è un caso, quindi, se la
bramosia statunitense si è concentrata sulla Federazione russa lasciando quasi
sbigottiti al pensiero che solo venticinque anni fa i soldati russi
presidiavano la porta di
Brandeburgo a Berlino mentre oggi si ritrovano a
difendere l’influenza su una città a pochi chilometri dal confine federale come
Donec’k.
Vladimir Putin e Barack Obama |
Ma quella di Obama non è una
presidenza caratterizzata dall’interventismo militare: per il momento, le
ambizioni imperiali risultano già appagate in un contesto globale di equilibrio
multipolare fondato sul fatto che questo equilibrio rimanga costante e nessuna
potenza si trovi nella condizione di accreditarsi un dominio superiore alle
altre. La Russia, agli occhi di Obama, si è ritrovata invece nella condizione
di violare questo equilibrio acquisendo una leadership globale nel risolvere l’intrico
delle armi chimiche siriane (è un caso che una seppur fragile tregua in Ucraina
sia stata possibile solo quando l’espansione dello Stato Islamico si è rivelata
più preoccupante del previsto?), nel concedere l’asilo a Edward Snowden e,
soprattutto, nella volontà fino a qualche anno fa facilmente ottenibile di
stringere saldi legami con la Germania in vista di una provvidenziale fruizione
della tecnologia teutonica.
Nell’estate 2013 si comprende che
le rivolte ucraine possono fungere da perfetto detonatore per porre in
difficoltà la Russia, allontanarla dalla Germania e scoraggiarla da perseguire
disegni di potenza costringendola ad occuparsi di un vicino di casa la cui
indipendenza non è mai stata veramente digerita (del resto, il primo nucleo d’identità
russa - la Rus’ - vede la propria nascita proprio a Kiev). Nel giro di neanche
nove mesi sollevazioni di piazza opportunamente alimentate da una capillare
azione statunitense con il braccio attivo di numerose organizzazioni non
governative – la coordinatrice di questo sofisticato lavorio, Victoria Nuland,
ammise candidamente nel dicembre 2013 che gli Stati Uniti dalla fine della
Guerra Fredda hanno speso la bellezza di 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina
una nazione sicura e democratica» (da «Statement by Victoria Nuland, Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs», The US/Ukraine Foundation, 13/12/2013) - portano prima alla fuga sconclusionata del Presidente filorusso Janukovyč e
di lì a poco all’insediamento di Petro Porošenko, magnate definito nel maggio
2006 dal Dipartimento di Stato statunitense «la nostra talpa in Ucraina» (da E. Di Rienzo, «Il conflitto russo-ucraino», Rubbettino, pag.47) innescando in tal modo una furibonda risposta russa la quale, avvalendosi di
una massiccia campagna di propaganda a sfondo nazionalista, porta dapprima ad
una tracotante invasione della Crimea e poi ad un conflitto pesante e
sanguinoso direttamente con le nuove autorità di Kiev per la giurisdizione
delle regioni russofone dell’Ucraina (una sagace analisi delle vicende ucraine
è fornita da una fonte sicuramente non imputabile di simpatie filorusse: J. J. Mearsheimer, «Why the Ukraine Crisis Is The West’s Fault?», in «Foreign Affairs» del 21/08/2014).
La dura sconfitta di Obama alle
elezioni di medio termine dell’autunno 2014 convince un presidente umiliato a
livello interno, a pochi mesi dalla fine del mandato (quindi irresponsabile in
caso di future nefaste conseguenze) e desideroso di entrare nei libri di storia
a premere ancor di più sull’acceleratore dell’indebolimento del nemico russo,
dapprima innalzando la tensione sventolando la possibilità di armare Kiev
(questo il nocciolo del discorso al Senato di Tony Blinken
il 19/11/2014; da K. Wong, «Obama Adviser: Arms for Ukraine “on the Table”», da «The Hill» del 19/11/2014) e poi scatenando un’autentica guerra finanziaria che finora ha comportato un
tracollo del rublo del 43% (da S. Hanke, «Russia Is Losing the Currency Wars», da «Business Insider» del 23/11/2014), una fuga d’investitori stranieri per l’equivalente di 128 miliardi di
dollari (da P. Krauth, «This “Financial Mass Destruction” Play Is All Upside», da «Morning Money» del 14/11/2014) e, infine, stime di crescita della Banca centrale russa incagliate sullo 0,1%
nei prossimi anni (da E. Fabrichnaya, J. Bush, L. Kell, «Russian C. Bank Cuts Growth Forecasts, Sees Sanctions until 2017», da «Reuters» del 10/11/2014).
L'attuale presidente ucraino |
Ma l’arma che si andava
predisponendo era ben più letale e delicata.
2. Perché l’Arabia è parte attiva
nel crollo dei prezzi
Nel 1985 il Presidente Usa Ronald
Reagan chiede espressamente alla dinastia Saʽūd regnante sui territori dell’Arabia
d’immettere sul mercato ingenti quantitativi di petrolio al fine di abbatterne
il prezzo mettendo a serio repentaglio la tenuta finanziaria dell’Unione
Sovietica. La manovra portò in soli tre anni ad un prezzo del barile passato da
40 a nemmeno 15 dollari contribuendo a far affondare l’esercito russo nelle
sabbie dell’Afghanistan.
Ciò che sta accadendo attualmente
mostra delle singolari affinità con la situazione dell’epoca, ma nonostante il
gioco sia ora pericoloso anche per Washington (la mancata vendita dei gas da
scisti mette a rischio un promettente mercato statunitense), la strada della
guerra a suon di barili
continua ad essere perseguita nella convinzione – corroborata da studi dell’intelligence statunitense – che un prezzo del petrolio attorno ai 70 dollari riesce a far sopravvivere il bilancio russo per circa tre anni, e se il prezzo scendesse sui 60 la sopravvivenza finanziaria di Mosca si ridurrebbe drammaticamente a soli due anni. Parliamo, del resto, di una nazione in cui la rilevanza del mercato del petrolio è talmente primaria da aver sempre comportato ricadute a livello sociale e politico (si veda G. P. Caselli, «La Russia Nuova: Economia e storia da Gorbačëv a Putin», Sesto San Giovanni 2013, Mimesis) dal momento in cui le imposte sulle esportazioni d’idrocarburi - le quali da sole costituiscono quasi il 70% delle esportazioni totali - costituiscono più della metà delle entrate federali (dal Ministero dell’Energia, estrapolato da «Global and Russian Energy Outlook to 2040», The Energy Research Institute of the Russian Academy of Sciences e The Analytical Center for the Government of the Russian Federation) e il prezzo del petrolio svolge un ruolo anche nelle vendite di gas naturale russo a causa del fatto che Gazprom ha voluto mantenere tra le clausole contrattuali di fornitura un’indicizzazione collegata alle quotazioni petrolifere. Riassumendo, secondo la Banca Mondiale (da Total Natural Resources Rent, % of GDP) negli ultimi cinque anni la rendita mineraria complessiva della Russia corrisponde a circa il 18,7% del Pil contro lo 0,2% della Germania e l’1,3% degli Stati Uniti.
continua ad essere perseguita nella convinzione – corroborata da studi dell’intelligence statunitense – che un prezzo del petrolio attorno ai 70 dollari riesce a far sopravvivere il bilancio russo per circa tre anni, e se il prezzo scendesse sui 60 la sopravvivenza finanziaria di Mosca si ridurrebbe drammaticamente a soli due anni. Parliamo, del resto, di una nazione in cui la rilevanza del mercato del petrolio è talmente primaria da aver sempre comportato ricadute a livello sociale e politico (si veda G. P. Caselli, «La Russia Nuova: Economia e storia da Gorbačëv a Putin», Sesto San Giovanni 2013, Mimesis) dal momento in cui le imposte sulle esportazioni d’idrocarburi - le quali da sole costituiscono quasi il 70% delle esportazioni totali - costituiscono più della metà delle entrate federali (dal Ministero dell’Energia, estrapolato da «Global and Russian Energy Outlook to 2040», The Energy Research Institute of the Russian Academy of Sciences e The Analytical Center for the Government of the Russian Federation) e il prezzo del petrolio svolge un ruolo anche nelle vendite di gas naturale russo a causa del fatto che Gazprom ha voluto mantenere tra le clausole contrattuali di fornitura un’indicizzazione collegata alle quotazioni petrolifere. Riassumendo, secondo la Banca Mondiale (da Total Natural Resources Rent, % of GDP) negli ultimi cinque anni la rendita mineraria complessiva della Russia corrisponde a circa il 18,7% del Pil contro lo 0,2% della Germania e l’1,3% degli Stati Uniti.
Immagine risalente agli anni Trenta che confronta lo sfruttamento petrolifero della Russia prima e dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Quella in rosso individua la situazione nel periodo comunista; da I.V. Sautin, I.P. Ivanitsky, "Ussr: An Album Illustrating the State Organization and National Economy of the Ussr", Moscow 1939, Scientific Publishing Institute of Pictorial Statistics, pag.45 (fonte) |
Discettare di un complotto ordito
tra Stati Uniti e Arabia Saudita per far crollare il prezzo del petrolio
rischia di apparire infondato sebbene accuse esplicite di spionaggio e
destabilizzazione tramite ong islamiche (su tutte la Mezzaluna saudita) siano
partite dall’ex-direttore dell’Fsb (servizi segreti russi) Nikolaj Patrušev e l’Istituto
russo per gli studi strategici abbia recentemente rimarcato il sospetto di
azioni politiche dietro il calo del prezzo del barile (di «manipolazione
politica» del petrolio ha parlato anche la compagnia statale russa dedita all’estrazione Rosneft’); eppure alcuni dati di fatto sono oggettivamente inspiegabili, a
partire dalla totale assenza di contromisure da parte di Riyad di fronte ad un
barile passato dalla primavera all’autunno del 2014 da 115 a 70 dollari
arrivando successivamente persino a 48 dollari (sono bastati due mesi per
realizzare un crollo del 25%) in un contesto ove la pura logica di mercato
suggerirebbe caldamente all’Arabia Saudita (unica nazione produttrice in grado
di modificare nel breve periodo gli assetti dei prezzi, per questo definita la
banca centrale del petrolio) di diminuire il volume di estrazioni in modo da
farne alzare i prezzi, accondiscendendo a considerazioni politiche a cui l’Arabia
– paese che produce giornalmente 10 milioni di barili di petrolio - si è già
dimostrata sensibile in occasione della tragedia dell’11/09/2001 e dei primi
mesi della rivoluzione libica. Se abbiniamo questo bizzarro atteggiamento all’incontro
fra il segretario di Stato Usa John Kerry e il Re saudita ʽAbdullāh svolto l’11
settembre 2014 il sospetto si rivela poggiato su basi più solide di quanto non
si creda.
Ma se degli Usa abbiamo già capito i vantaggi derivati dalla caduta
dei prezzi, perché l’Arabia dovrebbe avallare questo proposito? Anzitutto anche
l’Arabia ha dei conti in sospeso con la Russia dal momento che questa
costituisce il maggiore sponsor del regime siriano di al-Asad fortemente
osteggiato da Riyad. Ma un gigantesco conto in sospeso esiste anche con l’arcinemico
iraniano, anch’esso posto in difficoltà di fronte alla necessità di vendere il
proprio greggio (difficoltà funzionale anche a indebolire Teheran sul tavolo
della trattativa con Washington sullo sviluppo del nucleare), come peraltro
notato anche da Thomas Friedman in un articolo sul «New York Times».
(fonte) |
Forse, però, il calcolo maggiore
escogitato dall’Arabia è quello di tentare ogni mezzo per ripristinare un clima
di cordialità con gli Stati Uniti andato deteriorandosi negli ultimi anni, a
partire soprattutto dalle «primavere arabe» (sostenute da Washington,
osteggiate da Riyad) ma anche dall’ingresso degli Usa nel mercato energetico
con la rivoluzione dello shale gas (visto come una minaccia al monopolio
arabo), dagli accordi con l’Iran (malvisti da Riyad), dalla deposizione di
al-Asad (agognata dall’Arabia ma non da Washington), dal contrasto dello Stato Islamico in Iraq, dalle prospettive dell’Afghanistan
e dal desiderio statunitense di concentrarsi prioritariamente sull’Estremo
Oriente.
Insomma, far crollare il prezzo
del petrolio è l’ultima carta a disposizione dell’Arabia per tentare d’instaurare
un rapporto privilegiato con Washington da spendere nei principali conflitti
regionali. Una carta disperata, sulla cui efficacia è lecito porsi qualche
dubbio.
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