mercoledì 7 ottobre 2015

Lotta all'ultimo barile

Se alcuni indicatori si spingono a parlare di ripresa è scontato che dobbiamo ringraziare, tra gli altri fattori, anche il prezzo del petrolio in picchiata. Meno scontato è constatare che questo evento è una delle armi più importanti imbracciate dall’amministrazione Obama per sfiancare il nemico russo nel corso di una guerra che almeno dalla fine della Guerra Fredda vede gli Stati Uniti adoperare ogni mezzo per ridimensionare non solo le aspirazioni ma l’identità stessa di una Federazione russa il cui rango di Derzhava (traducibile come «Potenza imperiale») è funzionale persino alla sua sopravvivenza come nazione (sull’imprescindibilità della Russia come impero si veda G. A. Hosking, «Russia: People and Empire. 1552-1917», Harvard University Press, Cambridge 1997). La posta in gioco è il controllo del «cuore della terra», identificato da Halford John Mackinder nel 1904 come il «Grande Spazio» geograficamente corrispondente all’allora Russia zarista e alle sue province asiatiche (da H. J. Mackinder, «The Geographical Pivot of History», in «The Geographical Journal», vol.23, n.4, 1904, pagg.421-437); un’«area cardine» la cui ricchezza di risorse naturali e la privilegiata posizione strategica di potenza inattaccabile dalle dirimpettaie «Potenze marittime» consegnava al suo possidente nientemeno che il «dominio del mondo» (si veda H. J. Mackinder, «Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction», National Defense University Press, Washington 1942, da pag.83 in poi). Un concetto ribadito dall’«eurasista yankee» Zbigniew Brzezinski  secondo cui 

«il modo con il quale l’America intenderà gestire la questione eurasiatica sarà fondamentale. Una Potenza che riuscisse a essere dominante in Eurasia controllerebbe due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del mondo. Un semplice sguardo alla carta geografica del globo suggerisce che il controllo dell’Eurasia comporterebbe quasi automaticamente la subordinazione dell’Africa alla Potenza dominante, e ciò renderebbe l’emisfero occidentale e l’Oceania geopoliticamente periferici rispetto al continente centrale del mondo» (da Z. Brzezinski, «The Grand Chessboard», pag.31).

1. Motivi e modalità dell’attacco alla Russia
Non è un caso, quindi, se la bramosia statunitense si è concentrata sulla Federazione russa lasciando quasi sbigottiti al pensiero che solo venticinque anni fa i soldati russi presidiavano la porta di
Vladimir Putin e Barack Obama
Brandeburgo a Berlino mentre oggi si ritrovano a difendere l’influenza su una città a pochi chilometri dal confine federale come Donec’k
.
Ma quella di Obama non è una presidenza caratterizzata dall’interventismo militare: per il momento, le ambizioni imperiali risultano già appagate in un contesto globale di equilibrio multipolare fondato sul fatto che questo equilibrio rimanga costante e nessuna potenza si trovi nella condizione di accreditarsi un dominio superiore alle altre. La Russia, agli occhi di Obama, si è ritrovata invece nella condizione di violare questo equilibrio acquisendo una leadership globale nel risolvere l’intrico delle armi chimiche siriane (è un caso che una seppur fragile tregua in Ucraina sia stata possibile solo quando l’espansione dello Stato Islamico si è rivelata più preoccupante del previsto?), nel concedere l’asilo a Edward Snowden e, soprattutto, nella volontà fino a qualche anno fa facilmente ottenibile di stringere saldi legami con la Germania in vista di una provvidenziale fruizione della tecnologia teutonica.

Nell’estate 2013 si comprende che le rivolte ucraine possono fungere da perfetto detonatore per porre in difficoltà la Russia, allontanarla dalla Germania e scoraggiarla da perseguire disegni di potenza costringendola ad occuparsi di un vicino di casa la cui indipendenza non è mai stata veramente digerita (del resto, il primo nucleo d’identità russa - la Rus’ - vede la propria nascita proprio a Kiev). Nel giro di neanche nove mesi sollevazioni di piazza opportunamente alimentate da una capillare azione statunitense con il braccio attivo di numerose organizzazioni non governative – la coordinatrice di questo sofisticato lavorio, Victoria Nuland, ammise candidamente nel dicembre 2013 che gli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda hanno speso la bellezza di 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica» (da «Statement by Victoria Nuland, Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs», The US/Ukraine Foundation, 13/12/2013) - portano prima alla fuga sconclusionata del Presidente filorusso Janukovyč e di lì a poco all’insediamento di Petro Porošenko, magnate definito nel maggio 2006 dal Dipartimento di Stato statunitense «la nostra talpa in Ucraina» (da E. Di Rienzo, «Il conflitto russo-ucraino», Rubbettino, pag.47) innescando in tal modo una furibonda risposta russa la quale, avvalendosi di una massiccia campagna di propaganda a sfondo nazionalista, porta dapprima ad una tracotante invasione della Crimea e poi ad un conflitto pesante e sanguinoso direttamente con le nuove autorità di Kiev per la giurisdizione delle regioni russofone dell’Ucraina (una sagace analisi delle vicende ucraine è fornita da una fonte sicuramente non imputabile di simpatie filorusse: J. J. Mearsheimer, «Why the Ukraine Crisis Is The West’s Fault?», in «Foreign Affairs» del 21/08/2014).




La dura sconfitta di Obama alle elezioni di medio termine dell’autunno 2014 convince un presidente umiliato a livello interno, a pochi mesi dalla fine del mandato (quindi irresponsabile in caso di future nefaste conseguenze) e desideroso di entrare nei libri di storia a premere ancor di più sull’acceleratore dell’indebolimento del nemico russo, dapprima innalzando la tensione sventolando la possibilità di armare Kiev (questo il nocciolo del discorso al Senato di Tony Blinken
L'attuale presidente ucraino
il 19/11/2014; da K. Wong, «Obama Adviser: Arms for Ukraine “on the Table”», da «The Hill» del 19/11/2014) e poi scatenando un’autentica guerra finanziaria che finora ha comportato un tracollo del rublo del 43% (da S. Hanke, «Russia Is Losing the Currency Wars», da «Business Insider» del 23/11/2014), una fuga d’investitori stranieri per l’equivalente di 128 miliardi di dollari (da P. Krauth, «This “Financial Mass Destruction” Play Is All Upside», da «Morning Money» del 14/11/2014) e, infine, stime di crescita della Banca centrale russa incagliate sullo 0,1% nei prossimi anni (da E. Fabrichnaya, J. Bush, L. Kell, «Russian C. Bank Cuts Growth Forecasts, Sees Sanctions until 2017», da «Reuters» del 10/11/2014).
Ma l’arma che si andava predisponendo era ben più letale e delicata.

2. Perché l’Arabia è parte attiva nel crollo dei prezzi
Nel 1985 il Presidente Usa Ronald Reagan chiede espressamente alla dinastia Saʽūd regnante sui territori dell’Arabia d’immettere sul mercato ingenti quantitativi di petrolio al fine di abbatterne il prezzo mettendo a serio repentaglio la tenuta finanziaria dell’Unione Sovietica. La manovra portò in soli tre anni ad un prezzo del barile passato da 40 a nemmeno 15 dollari contribuendo a far affondare l’esercito russo nelle sabbie dell’Afghanistan.

Ciò che sta accadendo attualmente mostra delle singolari affinità con la situazione dell’epoca, ma nonostante il gioco sia ora pericoloso anche per Washington (la mancata vendita dei gas da scisti mette a rischio un promettente mercato statunitense), la strada della guerra a suon di barili
continua ad essere perseguita nella convinzione – corroborata da studi dell’intelligence statunitense – che un prezzo del petrolio attorno ai 70 dollari riesce a far sopravvivere il bilancio russo per circa tre anni, e se il prezzo scendesse sui 60 la sopravvivenza finanziaria di Mosca si ridurrebbe drammaticamente a soli due anni. Parliamo, del resto, di una nazione in cui la rilevanza del mercato del petrolio è talmente primaria da aver sempre comportato ricadute a livello sociale e politico (si veda G. P. Caselli, «La Russia Nuova: Economia e storia da Gorbačëv a Putin», Sesto San Giovanni 2013, Mimesis) dal momento in cui le imposte sulle esportazioni d’idrocarburi - le quali da sole costituiscono quasi il 70% delle esportazioni totali - costituiscono più della metà delle entrate federali (dal Ministero dell’Energia, estrapolato da «Global and Russian Energy Outlook to 2040», The Energy Research Institute of the Russian Academy of Sciences e The Analytical Center for the Government of the Russian Federation) e il prezzo del petrolio svolge un ruolo anche nelle vendite di gas naturale russo a causa del fatto che Gazprom ha voluto mantenere tra le clausole contrattuali di fornitura un’indicizzazione collegata alle quotazioni petrolifere. Riassumendo, secondo la Banca Mondiale (da Total Natural Resources Rent, % of GDP) negli ultimi cinque anni la rendita mineraria complessiva della Russia corrisponde a circa il 18,7% del Pil contro lo 0,2% della Germania e l’1,3% degli Stati Uniti.


Immagine risalente agli anni Trenta che confronta lo sfruttamento petrolifero della Russia prima e dopo
la Rivoluzione d'Ottobre. Quella in rosso individua la situazione nel periodo comunista; da I.V. Sautin, I.P. Ivanitsky,
"Ussr: An Album Illustrating the State Organization and National Economy of the Ussr", Moscow 1939,
Scientific Publishing Institute of Pictorial Statistics, pag.45 (fonte)

Discettare di un complotto ordito tra Stati Uniti e Arabia Saudita per far crollare il prezzo del petrolio rischia di apparire infondato sebbene accuse esplicite di spionaggio e destabilizzazione tramite ong islamiche (su tutte la Mezzaluna saudita) siano partite dall’ex-direttore dell’Fsb (servizi segreti russi) Nikolaj Patrušev e l’Istituto russo per gli studi strategici abbia recentemente rimarcato il sospetto di azioni politiche dietro il calo del prezzo del barile (di «manipolazione politica» del petrolio ha parlato anche la compagnia statale russa dedita all’estrazione Rosneft’); eppure alcuni dati di fatto sono oggettivamente inspiegabili, a partire dalla totale assenza di contromisure da parte di Riyad di fronte ad un barile passato dalla primavera all’autunno del 2014 da 115 a 70 dollari arrivando successivamente persino a 48 dollari (sono bastati due mesi per realizzare un crollo del 25%) in un contesto ove la pura logica di mercato suggerirebbe caldamente all’Arabia Saudita (unica nazione produttrice in grado di modificare nel breve periodo gli assetti dei prezzi, per questo definita la banca centrale del petrolio) di diminuire il volume di estrazioni in modo da farne alzare i prezzi, accondiscendendo a considerazioni politiche a cui l’Arabia – paese che produce giornalmente 10 milioni di barili di petrolio - si è già dimostrata sensibile in occasione della tragedia dell’11/09/2001 e dei primi mesi della rivoluzione libica. Se abbiniamo questo bizzarro atteggiamento all’incontro fra il segretario di Stato Usa John Kerry e il Re saudita ʽAbdullāh svolto l’11 settembre 2014 il sospetto si rivela poggiato su basi più solide di quanto non si creda


(fonte)
Ma se degli Usa abbiamo già capito i vantaggi derivati dalla caduta dei prezzi, perché l’Arabia dovrebbe avallare questo proposito? Anzitutto anche l’Arabia ha dei conti in sospeso con la Russia dal momento che questa costituisce il maggiore sponsor del regime siriano di al-Asad fortemente osteggiato da Riyad. Ma un gigantesco conto in sospeso esiste anche con l’arcinemico iraniano, anch’esso posto in difficoltà di fronte alla necessità di vendere il proprio greggio (difficoltà funzionale anche a indebolire Teheran sul tavolo della trattativa con Washington sullo sviluppo del nucleare), come peraltro notato anche da Thomas Friedman in un articolo sul «New York Times».
Forse, però, il calcolo maggiore escogitato dall’Arabia è quello di tentare ogni mezzo per ripristinare un clima di cordialità con gli Stati Uniti andato deteriorandosi negli ultimi anni, a partire soprattutto dalle «primavere arabe» (sostenute da Washington, osteggiate da Riyad) ma anche dall’ingresso degli Usa nel mercato energetico con la rivoluzione dello shale gas (visto come una minaccia al monopolio arabo), dagli accordi con l’Iran (malvisti da Riyad), dalla deposizione di al-Asad (agognata dall’Arabia ma non da Washington), dal contrasto dello Stato Islamico in Iraq, dalle prospettive dell’Afghanistan e dal desiderio statunitense di concentrarsi prioritariamente sull’Estremo Oriente.  

Insomma, far crollare il prezzo del petrolio è l’ultima carta a disposizione dell’Arabia per tentare d’instaurare un rapporto privilegiato con Washington da spendere nei principali conflitti regionali. Una carta disperata, sulla cui efficacia è lecito porsi qualche dubbio.

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