Ovviamente non sono né il
benessere dei siriani, né la «difesa della sovranità nazionale» (variante
moscovita della statunitense «esportazione della democrazia») a spingere la
Federazione Russa ad affrontare l’aggrovigliata matassa mediorientale spedendo
2500 uomini nella fascia nordoccidentale dell’ormai defunta nazione siriana,
tanto più se consideriamo la metodicità e la freddezza logica (spesso assente
tra i rivali statunitensi) che spinge Mosca ad approvare azioni militari.
Permangono l’interesse verso un’enclave decisiva – dal punto di vista delle
risorse energetiche, della ricchezza archeologica e dell’essenziale posizione
geografica – ma anche il desiderio di regolare altre partite, sia nell’area che
a livello internazionale.
1. Difendere l’Alauistan per
proteggere al-Asad e le basi militari sul Mediterraneo
Il clan sciita degli al-Asad che
fino al 2011 dominava incontrastato a Damasco gode di un legame peculiare con
la Russia a partire da quando il capostipite Ḥafiẓ trascorse un lungo e
fruttuoso soggiorno a Mosca apprendendo peraltro alcune pratiche militari che
gli torneranno utili una volta tornato in patria. Le cordialità rimasero
talmente salde che ancora nel 2011 non solo vivevano in Siria 100mila russi ma
entravano in vigore contratti per forniture di armamenti per un valore di
quattro miliardi di euro. L’acme dell’intesa, però, va fatto risalire al 1977,
anno in cui fu proprio la Siria il paese disposto ad accogliere le basi della
Marina sovietica sul Mediterraneo a seguito della rottura dei rapporti tra
Mosca e Il Cairo. La regione adibita a fornire alla Russia una base d’appoggio
nel Mare Nostrum, quella tra Latakia (in cui sono presenti nuove installazioni
aeree), Ğablat (sede della base sottomarina) e la fondamentale Ṭarṭūs (sede
della base navale) rappresenta quindi per Mosca l’unico e irrinunciabile piede
nel Levante; e al contempo rappresenta per la famiglia al-Asad l’unica vera
porzione di territorio siriano rimasta al momento sotto il proprio controllo.
Se ne è resa conto anche Mosca, la quale difatti limita le proprie azioni alla
difesa del cosiddetto «Alauistan» (soprattutto l’area di Latakia) dando per
definitivamente conquistato dalle milizie del Dāʽiš (lo Stato Islamico), di
Ğabhat al-Nuṣra e di altre cellule jihadiste il resto della nazione.
Una difesa di una potenziale
nazione autonoma sia nei confronti delle minacce esterne, sia nei confronti di
quelle interne se si tiene conto non solo della rivoluzionata composizione
sociale dell’Alauistan (i bruschi movimenti interni al paese hanno negli ultimi
anni fatto prevalere la componente sunnita tra gli abitanti di Latakia), ma
anche delle turbolenze dell’agosto scorso – sit-in, proteste e lungo le
principali arterie autostradali azioni di disobbedienza civile senza
autorizzazione – persino tra la popolazione sciita e in particolar modo tra gli
sfollati di Fūʽa e Kafrayā infuriati col traballante governo per la mancata attenzione
verso le due città; a cui faranno seguito dapprima altre manifestazioni tra le
comunità sciite di Ḥimṣ, Aleppo e Latakia, e poi azioni di protesta («contro la
corruzione» e contro la mancata erogazione dei servizi essenziali) da parte di
alauiti di Latakia e di drusi di Suwaydā’. Azioni a dir poco inconsuete nei pur
turbati territori siriani, il cui unico effetto è stato quello di spingere
ancor di più Mosca nella ferrea difesa degli al-Asad, facendo balenare agli
avversari del regime la minaccia che una destabilizzazione del governo comporti
uno scontro con la superpotenza russa.
Va però riconosciuta alla Russia
l’assoluta sincerità nella propria costante difesa degli al-Asad, al punto che
il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha avuto modo di affermare
pubblicamente:
«La Russia non ha mai nascosto la sua cooperazione
tecnico-militare con la Siria. Il nostro paese ha per lungo tempo fornito armi
ed equipaggiamento militare alla Siria nell’ambito degli accordi bilaterali. In
Siria ci sono anche consiglieri militari russi che provvedono all’addestramento
del personale per gli armamenti in arrivo. E se saranno necessari ulteriori
passi, siamo del tutto pronti a intraprenderli».
Ma probabilmente non è solo
l’affetto per il governo siriano a muovere le truppe moscovite.
2. Riempire il vuoto caotico
lasciato dagli Usa per acquisire leadership e credibilità globale (con la
compiacenza di Washington?)
Dimostrando grande sagacia, e un
ottimo personale d’intelligence, il Presidente russo Vladimir Putin ha
sintetizzato in un’occasione: «I nostri colleghi occidentali […] sono i padri
del caos controllato» (da «Transcript of the final plenary meeting of the Valdai International Discussion Club’s XI session», 24/10/2014, President of Russia Official Website) provando in questo modo a
spiegare la tattica statunitense di alimentare il caos in modo da indebolire a
suon di furiose guerre reciproche i vari attori in campo.
(fonte) |
La Siria ne
rappresenta il caso esemplare, ove persino una modica presenza del Dāʽiš viene
considerata provvidenziale per carburare la confusione dell’area. Non è un
caso, del resto, che il 75% delle missioni dei caccia statunitensi contro il
Dāʽiš si sia conclusa senza aver smosso un solo granello di sabbia (da J. Klimas, «U.S. Bombers Hold Fire on Islamic State Targets amid Ground Intel Blackout» su «The Washington Times» del 31/05/2015) o la rivelazione secondo
cui alcuni solerti analisti del Pentagono hanno esaltato oltre la loro reale
portata le sconfitte patite dal terribile gruppo jihadista (da S. Harris e N. Youssef, «Exclusive: 50 Spies Say ISIS Intelligence Was Cooked» su «The Daily Beast» del 09/09/2015).
È la consapevolezza che l’accordo sul nucleare iraniano
altro non sia che il preludio di un progressivo allontanamento degli Stati
Uniti dall’area (già da ora il comandante del Centcom, comandante Lloyd Austin,
afferma che appena «quattro o cinque ribelli [siriani, ndr.] addestrati dagli
americani sono pronti alla guerra», da S. Ackerman, «US Has Trained only “Four or Five” Syrian Fighters against Isis, Top General Testifies» su «The Guardian» del 16/09/2015) unito all’atteggiamento di equidistanza tra le potenze
mediorientali (fragilissima visto, ad esempio, il conflitto irrisolto tra
fautori e avversari della Fratellanza Musulmana) che lascia orfani – e
soprattutto desiderosi di protezione, da qualunque parte essa arrivi - gli
attori coinvolti nel pantano levantino. Tra i quali vanno annoverati anche i paesi
europei, che grazie all’intervento russo
in Siria sono costretti a guardare a
Mosca come un indispensabile baluardo nella lotta contro il terrorismo islamico
e come unica forza in grado di arginare la massiccia immigrazione di profughi
siriani; anche questa probabilmente una crisi (sottovalutata da Washington)
frutto non casuale di una strategia destabilizzante architettata da una Turchia
desiderosa di convincere l’Occidente della necessità di far affondare il regime
siriano (sulla tanto sospetta quanto inedita incapacità della Turchia di
scoraggiare i migranti mediorientali a raggiungere l’Europa si vedano A. Williamson, «False Flag Alert of Refugee Crisis?», Ron Paul Institute del 04/09/2015; e Y. Soulitis, «Refugee Flow Linked to Turkish Policy Shift» su «Ekathimerini» del 06/09/2015).
Immagine diffusa dal governo russo: caccia in azione in Siria. Pubblicata sul Corriere della Sera del 06/10/2015 |
Inserendosi nel marasma siriano,
quindi, la Russia ha modo di ergersi come interlocutore indispensabile e di
caratura internazionale, facendo dimenticare un conflitto ucraino entro cui fino
a pochi mesi fa l’Occidente sperava di confinare la potenza russa.
Nonostante ciò che in molti sono
portati a pensare, non è da escludere che gli Stati Uniti abbiano maturato un
certo compiacimento verso la rivitalizzazione moscovita: non solo il rischio
che il «califfo» al-Baġdādī arrivasse a conquistare Damasco sarebbe stato uno
smacco difficilmente
digeribile per un’opinione pubblica statunitense in
procinto di entrare in campagna elettorale, ma l’annoso labirinto mediorientale
potrebbe prima o poi portare ad un impantanamento di Mosca. Proprio per questo
il segretario di Stato Usa John Kerry ha salutato con bizzarro fervore le
truppe che «vogliono combattere lo Stato Islamico» (da M. Gordon, E. Schmitt, «Russian Buildup in Syria Raises Questions on Role» sul «New York Times» del 19/09/2015); proprio per questo è stata lentamente messa in disparte la
pressione statunitense verso Grecia, Bulgaria, Turchia e Iraq d’interdire il
loro spazio aereo ai velivoli da trasporto russi; proprio per questo non è
stata proposta alcuna sanzione (o reazione) atta a contrastare l’attivismo
moscovita; proprio per questo è stato possibile un incontro tra Obama e Putin a
margine dell’ultima Assemblea Generale dell’Onu; proprio per questo non si
registrano grandi contrasti nei vari incontri bilaterali russo-americani degli
ultimi mesi in cui pare arduo credere che la questione siriana non sia mai
stata affrontata (si veda M. Crowley, «After Iran, U.S. Presses for Solutions in Syria», su «Politico» del 17/08/2015).
John Kerry |
(fonte) |
3. Porre un freno alle ambizioni
di Teheran ed espandere la propria influenza nel Medio Oriente
Il desiderio di rimpiazzare la potenza
statunitense nel ruolo di tutore del Medio Oriente ha per ora avuto come
conseguenza un’auspicata rivitalizzazione dei rapporti col Presidente israeliano
Netanyahu il quale, già in pesante insofferenza verso Washington, ha
approfittato dell’occupazione moscovita dello spazio aereo solitamente
adoperato dai jet israeliani (quelli che bombardano i trafficanti d’armi di Ḥizbullāh
per paura che si creino tensioni con Gerusalemme nel confine del Golan) per
precipitarsi da Putin il 21 settembre al fine di prevenire incidenti ma
soprattutto al fine di capire quanto sia forte l’astio anti-iraniano del
Presidente russo: tra gli scopi principali dell’intervento in Siria va infatti
annoverata la paura che al-Asad consolidi troppo il suo legame con l’Iran
rendendo Teheran un attore talmente influente nell’area mediorientale da
arrivare ad insidiare gli interessi russi dal punto di vista strategico e
soprattutto energetico.
Non bisogna dimenticare, infatti, quanto sia forte la dipendenza dell’economia russa dall’estrazione d’idrocarburi e di conseguenza quanto sia rilevante per Mosca disporre di una
sua influenza nella zona, il Medio Oriente, che ospita circa il 40% delle
riserve accertate di petrolio, il 41% delle riserve di gas naturale e il Canale
di Hormuz che da solo controlla il 20% della movimentazione mondiale del gas
(anche il Canale di Suez gode di una discreta importanza sotto questo aspetto).
Ora che l’Iran e gli Stati Uniti
hanno trovato una rinnovata comunanza d’interessi, compito della Russia è
evitare che questa alleanza sbocchi in una spietata concorrenza energetica –
soprattutto sul mercato europeo post-crisi ucraina – nei confronti di Mosca.
(fonte) |
Finora la Russia cerca di evitare che Teheran si lasci galvanizzare da
ambizioni energetiche e geopolitiche da un lato elargendogli tecnologia
militare, e dall’altro coinvolgendolo nell’importante progetto di rendere
l’Iran un paese-cerniera nell’avvio (consequenziale alla crisi ucraina) di una
consolidata unione tra Russia e Cina (si veda «China and Russia lay Foundation for massive Economic Cooperation» su «Foreign Policy» del luglio 2015) sperando insomma che la tradizionale alleanza tra Mosca e
nazioni sciite – complementare a quella tra Usa e nazioni sunnite – rimanga inalterata
ai terremoti regionali, senza per questo negare alla Federazione russa la
possibilità di espandere la propria influenza tra le nazioni arabe che si
sentono tradite dal progressivo abbandono statunitense. In particolare l’Egitto,
paese dove allo stretto legame anti-jihadista e anti-statunitense si accompagna
la costruzione di una centrale nucleare da parte dei russi. Ma qualche passo lo
si sta compiendo persino nello scongelare i rapporti con l’Arabia Saudita, se è
vero che l’azienda di Stato russa Rosatom è in procinto di costruire venti
impianti atomici nel paese: una vicenda da 100 miliardi di dollari a cui si
vanno ad aggiungere i dieci miliardi che il fondo sovrano saudita Public Investment Fund si accinge a investire in Russia.
(fonte) |
Con la Turchia le cose si mettono
un po’ peggio, perché pur riconoscendo un notevole ampliamento dei rapporti
commerciali tra i due paesi (l’interscambio è passato negli ultimi cinque anni
da 38 a 100 miliardi di dollari) e la costruzione da parte dei russi della
centrale atomica di Mersin, le pressioni statunitensi affinché Ankara
garantisca all’Iran e non alla compagnia russa Gazprom il passaggio del metano
in Europa hanno portato a crescenti difficoltà nella realizzazione del gasdotto
Turkish Stream (si vedano «Turkey: Turkish Stream Negotiations Suspended», Stratfor, Situation Report su «Russia» del 31/07/2015 e «Talks on Turkish Stream on hold till November» su «Russia Today» del 03/08/2015) e persino al
reclutamento di soldati turchi da spedire in Donbas al fianco dell’esercito
ucraino (si veda L. Lulko, «Ukraine Launches Islamization by Creating a Muslim Battalion» su Pravda.ru del 03/08/2015) sebbene, più che dalle tensioni in
Donbas, l’intervento moscovita in Medio Oriente si spiega anche come il
tentativo di arginare un terrorismo islamico che spesso e volentieri arriva a
insidiare il Caucaso russo.
4. E il Dāʽiš?
Nelle varie e spesso
contraddittorie partite mediorientali, il Dāʽiš paradossalmente viene
considerato da ben pochi attori come un nemico da abbattere: il tentativo delle
potenze
coinvolte risulta semmai quello di muoverlo a proprio piacimento,
cercando di arginarlo solo quando arriva a toccare i propri interessi vista
anche l’assenza di vere alternative che possano riappacificare le stremate
popolazioni dell’area. Rosa Brooks, professoressa di diritto a Georgetown
nonché consulente al Pentagono e persona affine alle posizioni di Obama arriva
a fare una tragica quanto grottesca previsione:
Aleppo. Dal Corriere della Sera del 20/09/2015 |
«Se lo Stato Islamico continua
a decapitare gente e se noi non siamo capaci di distruggerlo, forse ci
stancheremo di combatterlo e decideremo di stringere accordi con esso. Passerà
poi qualche decennio ed ecco che l’Is avrà un seggio all’Onu – se l’Onu
esisterà ancora […]. E tutte quelle terribili atrocità verranno cortesemente
ignorate».
La geopolitica non solo sorprende di giorno in giorno, ma conosce
già dei precedenti analoghi: chi avrebbe immaginato, per esempio, che la
Germania responsabile della Shoah sarebbe tornata nel giro di pochi anni a giocare
un ruolo di attore riconosciuto? Solo la conclusione affida qualche speranza:
«Se
smettiamo di bombardare lo Stato Islamico, forse potrà contenere se stesso più
rapidamente di quanto possiamo farlo noi. Oppure, volendo essere meno
deprimenti, i capi dell’Is scopriranno, come tanti brutali regimi prima di
loro, che le atrocità generano disordine interno e ribellione» (da R. Brooks, «Making a State by Iron and Blood» su «Foreign Policy» del 19/08/2015).
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