Non vi sono dubbi sul fatto che
il governo Renzi abbia adottato senza batter ciglio l’oppressiva impostazione
economica ascesa a nume tutelare dell’Unione Europea, eppure nei riguardi delle
istituzioni comunitarie serpeggia sottotraccia una forma di dissapore apparentemente
incomprensibile circa le misure prioritarie da attuare.
Lo sbalorditivo successo politico,
mediatico, accademico ma per certi versi anche popolare delle misure alla base
della cosiddetta «austerity espansiva» - mercificazione di ogni aspetto
sociale, abbattimento delle tutele nei confronti di cittadini e lavoratori,
carico fiscale in costante aumento per le categorie meno abbienti in virtù di
una spasmodica attenzione verso la riduzione del debito
pubblico – vede le sue
radici in due eventi complementari: il desiderio da parte delle istituzioni
finanziarie di scaricare sui cittadini il costo della crisi bancaria senza
compromettere irreparabilmente la tenuta delle casse pubbliche e l’intuizione
di adoperare la crisi economica come pretesto per legiferare in tutta fretta misure
antidemocratiche finalizzate al completamento della concentrazione di ricchezza
avviato fin dagli anni Ottanta (si veda C. Butterwegge, «Rechfertigung, Massnahmen und Folgen einer neoliberalen (Sozial-)Politik», in C. Butterwegge, B. Lösch e R. Ptak, «Kritik des Neoliberalismus», seconda edizione ampliata, Vs Verlag für Sozialwissenschaften, Wiesbaden 2008, pagg.135-200; ma anche Ö. Onaran, «From the Crisis of Distribution to the Distribution of the Cost of the Crisis. What Can We Learn from the Previous Crises about the Effects of the Financial Crises on Labor Share?», Wp n.195, Peri, Amherst, Ma, 2009).
Il numero uno della Commissione Europea Juncker insieme al Premier italiano Renzi |
Convincendo i governi nazionali
che riformare il sistema creditizio è semplicemente inimmaginabile, appena la
crisi economica ha portato alla luce la mole insostenibile di crediti e titoli
privi di alcuna concreta base d’appoggio, le banche ritrovatesi di punto in
bianco in situazioni di cocente difficoltà di bilancio sono riuscite a farsi
generosamente elargire dai singoli stati europei la bellezza di 4,13 trilioni
di euro nel periodo intercorso tra l’ottobre 2008 e l’aprile 2010 (da T. J. Doleys, «Managing State Aid in Times of Crisis: The Role of the European Commission», paper presentato alla V Conferenza paneuropea sulla politica Ue, Università di Oporto, giugno 2010, pag.1).
Denaro pescato direttamente dalle tasche dei contribuenti e di fatto unico
responsabile del possente innalzamento dei debiti pubblici registrato in quel
periodo (in cui il totale del debito pubblico europeo è passato dal 60 all’80%
del Pil, mentre il rapporto deficit/Pil si è decuplicato passando dallo 0,7 al
7%).
Tutta l'Ue ha dovuto subire tagli di bilancio in ossequio all'austerity |
Non rivelandosi sufficiente la
mole di denaro concessa e non potendo elargire direttamente altri soldi
pubblici – un debito eccessivo porterebbe alcune nazioni al fallimento, facendo
sfumare per gli istituti finanziari i profitti derivanti dagli interessi sui
titoli pubblici – le nazioni e soprattutto le strutture europee in aperta
combutta con gli interessi finanziari cominciano a spargere inspiegabilmente una
preoccupata ossessione verso la consistenza dei debiti pubblici. Una
farneticante mania che non ha mancato di suscitare perplessità tra alcuni analisti,
basiti nell’assistere alla narrazione di una crisi prettamente interna alle
disfunzionalità del settore bancario trasformatasi magicamente in crisi dei
bilanci pubblici. Si legga quanto afferma un team di docenti della Stern School
of Business di New York:
«Appena tre anni fa, non c’era
essenzialmente nessun segno di rischio del credito sovrano nelle economie
sviluppate, e l’opinione prevalente riteneva improbabile che tale rischio
costituisse un problema per esse nel prossimo futuro. Di recente, tuttavia, il
rischio del credito sovrano è diventato un problema significativo per diverse
economie sviluppate, soprattutto in Europa» (da V. Acharya, I. Drechsler e P. Schnabl, «A Pyrrhic Victory? Bank Bailouts and Sovereign Credit Risk», New York University Stern School of Business, New York 2011, Wp, pag.1).
Nonostante questa evidenza, un
nutrito sforzo accademico riuscì nel giro di pochi mesi a predisporre le
fondamenta logiche della nuova dottrina presto denominata «austerity espansiva»,
presentata tra fragorosi applausi all’Ecofin del febbraio 2010 dall’economista –
e stimato editorialista del «Corriere della Sera» - Alberto Alesina trovando
supporto non solo tra altri illustri colleghi redattori del piano (Giavazzi,
Perotti, Pagano e Ardagna) ma anche tra le pubblicazioni di altri economisti
come Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt che all’incirca nello stesso periodo
giunsero all’ardita conclusione che una quantità di debito pubblico superiore
al 90% del Pil ha immediate ripercussioni sulla crescita economica. Le
elucubrazioni di Alesina riuscivano a fare un passo logico più avanti,
raggiungendo il traguardo di convincere che un bilancio pubblico col segno
negativo susciti nella psicologia degli attori economici, compresi i cittadini,
il timore di trovarsi costretti di lì a breve un’impennata dal punto di vista
fiscale. Timore, questo, vanificato al punto tale nel caso di bilanci positivi
da spingere verso una luminosa crescita economica.
Gli effetti dei feroci tagli di spesa pubblica e degli altrettanti spietati aumenti di tassazione sul Pil greco |
L’assortita serie di memorandum,
regolamenti, lettere perentorie, appelli arcigni e finanche modifiche
costituzionali che hanno caratterizzato la vita economica europea degli ultimi
anni non fa altro che dare piena attuazione a questo teorema, spacciato come
Guerra Santa nei confronti degli stati spendaccioni ma in realtà «grande guerra»
(per usare le parole dell’economista James Crotty) organizzata dall’oligarchia
finanziaria per imporre il proprio dominio su ogni aspetto della società e
garantire nuove basi speculative dalla privatizzazione dei servizi essenziali
finora non solo unici argini di tutela pubblica ma settori che nulla hanno a
che vedere con i disavanzi di bilancio pesando da anni sulle casse dell’erario
per una quota invariata attorno al 25% del Pil (da Ocde, «Questions Sociales. Tableaux Clés de l’Ocde», tav.1, Paris 2011).
La stagnazione delle economie europee a seguito dell'applicazione dell'austerity |
Se l’aspetto speculativo sta andando a gonfie vele, non si può dire
altrettanto del contesto economico e sociale dei paesi soggetti alla «cura»:
paradigmatico il caso della Grecia dove cinque anni di vessazioni hanno
comportato un tracollo del Pil del 25%, un reddito delle famiglie depauperato
del 40%, una disoccupazione a livelli disperati (25% quella nazionale, 60%
quella giovanile) e paradossalmente un debito pubblico che non s’impenna ma la
cui crescita prosegue inesorabile essendo, checché si affermi pubblicamente,
necessaria da un lato per ottenere una rendita speculativa sugli interessi e
dall’altro come arma di ricatto da puntare contro il debitore nei momenti di
necessità.
La Grecia sarebbe uscita rapidamente dalla recessione se non fossero arrivati gli scriteriati programmi di austerity |
Che fin dall’ultimo governo
Berlusconi anche l’Italia abbia intrapreso questo percorso non vi sono dubbi di
alcun genere. Tra le peculiarità del nostro debito pubblico vi è però quello di
aver subito a cavallo tra del millennio una graduale trasformazione, finendo
progressivamente nelle mani degli speculatori stranieri, i quali nel 1991
possedevano solo il 5,99% del debito, nel 1998 ne possedevano il 29,12% e nel
2005 sono arrivati ad averne il 53,31% (da rilevamenti sul «Sole 24Ore»
condotti da L. Tedoldi e riportati su «Il conto degli errori: Stato e debito pubblico in Italia», e-book Laterza, Roma-Bari 2015, cap.4.4, pos.3957 della versione Kindle).
Qui risiede l’origine della diatriba tra due posture differenti di approcciarsi
all’austerity: da una parte quella più tecnica, più sensibile alle direttive
europee e più vicina all’ambiente finanziario specie se di tipo politico (la
Bce) e dall’altro versante quella più populista, più marcatamente italiana, più
di stampo industriale/manifatturiero o al massimo di finanza speculativa «privata»
(tipici casi quelli di Marchionne e Confindustria). A differenziare questi due
campi non provvede solo una questione d’immagine mediatica, quanto di priorità
verso cui concentrarsi maggiormente – da una parte il chiodo fisso di non far
impennare il debito inutilmente, dall’altra invece la vera ossessione è quella
di attaccare frontalmente i diritti al lavoro. La vera differenza tra Enrico
Letta e Matteo Renzi in fin dei conti si riduce a questa diversa visione di
approccio, in un contesto in cui la sfacciataggine con cui Confindustria ha
praticamente licenziato il governo Letta (coadiuvato dalla campagna mediatica
anti-Napolitano ma in realtà anti-Letta orchestrata per l’occasione dal «Corriere della Sera»)
si sposa alla perfezione con il doppiopesismo di Renzi, tanto mediaticamente
ostile nei confronti delle banche quanto silente nei riguardi di una Fiat che estirpa
dall’Italia la propria sede fiscale.
Non è concepibile, nell’èra dei
partiti evanescenti, della politica oggetto di discredito e delle disuguaglianze
medievali credere che una figura politica possa ai giorni nostri ambire ad un
ruolo di comando senza il provvidenziale sostegno di qualche struttura
economica e/o mediatica: la coalizione sociale che sta dietro la disinvolta
scalata di Matteo Renzi è oltretutto particolarmente sbruffona e ciarliera, è
quella di un’economia reale che ai rigidi parametri di
Maastricht preferisce
una situazione fiscale personale la più leggera possibile anche a costo di
stressare le già martoriate casse dello Stato. Dispiegando una massiccia
campagna mediatica per dirottare il dibattito pubblico e le primarie aperte del
Pd in favore dell’allora sindaco di Firenze (dal 2 giugno al 16 luglio 2013 sui
quotidiani nazionali compare il nome di Gianni Cuperlo in 283 articoli, quello
di Pippo Civati in 304 e quello di Matteo Renzi in 1385; si veda M. Prospero su «Il nuovismo realizzato», bordeaux eBook, ed.2015, cap.1, pos.299 della versione Kindle)
gli apparati dell’industria nostrana sono consapevoli di ottenere un’azione
politica improntata rigorosamente sui propri desiderata, anche dal punto di
vista delle poltrone nei vertici più prestigiosi delle poche aziende di Stato
rimaste – dall’ex-numero uno di Confindustria piazzata alla presidenza di Eni
al posizionamento di praticamente tutti i principali sostenitori della Fondazione Open (motore economico delle campagne elettorali del premier) fino a cospicui favori nei riguardi di Montezemolo, Casini e Della Valle, attigui
agli ambienti dei principali quotidiani e al contempo desiderosi che Ferrovie
dello Stato non faccia troppa concorrenza alle iniziative private di trasporto
su rotaia.Giorgio Squinzi, dominus di Confindustria |
La condiscendenza di questo apparato ai dogmi neoliberali cardine delle
istituzioni europee è assicurata. La divergenza riguarda solo questioni di
ritmo e di modo, da qui il diverbio (soprattutto con la Commissione Europea)
destinato comunque a non sortire alcun cambiamento di rotta tanto efficace
quanto improcrastinabile.
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