I barbari che sperano di annientare
la coscienza individuale del cittadino sotto una coltre ripugnante di
proiettili e dinamite non meritano una
risposta all’insegna della coercizione religiosa secondo cui la reazione al
putridume jihadista andrebbe riscoperta in non meglio precisate «tradizioni» -
le stesse che spingevano nel 1960 il prefetto di Cremona a descrivere la
proiezione de «La dolce vita» come evento attinente a «ordine e sicurezza
pubblica»? – o in altrettante opinabili «identità cristiane» sotto il cui velo si rivela un malcelato
desiderio d’imporre alla comunità quelle che sono credenze attinenti alla più
riservata sfera personale.
Non ci si riferisce al valore
storico e artistico (oramai sempre più distante dal suo originario significato
religioso) dei canti natalizi o della sopraffina maestria dei presepisti,
quanto all’arrogante brandire di crocifissi
nei luoghi pubblici. Pubblici, appunto, e di conseguenza appartenenti indistintamente ad ogni
individuo che ne rispetti l’istituzione laica, tollerante, inclusiva e discendente assai di più dalla Resistenza
che dal Vangelo. Assai di più dalla breccia di Porta Pia che dai Giubilei.
Assai più da Gramsci che da Pio XII. Assai più da «Cuore» di De Amicis (in cui
non figura alcun cenno a simbologie di fede) che dalle encicliche pontificali.
Assai più dalla storica
presenza dei partiti di sinistra più forti del mondo
occidentale (con una partecipazione alla lotta antifascista seconda solo a
quella jugoslava) che dall’esistenza di uno Stato Vaticano nel fulcro
geografico e amministrativo della penisola. Se davvero esiste un’identità nel popolo italiano, mi si permetta d’individuarla
non nel bigottismo commerciale di un Giuliano Ferrara ma nell’abnegazione laboriosa
di un don Lorenzo Milani talmente consapevole della delicata mansione
educativa da aver personalmente rimosso
il crocifisso da ogni parete della scuola di Calenzano, ove si dedicò all’insegnamento
con nobile impegno. Erano coscienti, tanto don Milani quanto un altro
prestigioso cattolico come Mario Gozzini per arrivare attualmente al giurista
anch’esso cattolico Valerio Onida, che istruire
significa anzitutto forgiare personalità in grado di scernere con razionalità
la propria condotta senza lasciarsi sopraffare da condizionamenti brutalmente
imposti.
Don Milani rimosse il crocifisso dalla scuola di Calenzano |
Lo jihadismo colpisce particolarmente la Francia anche per l'alta presenza di atei e il diffuso senso di laicità |
Non mi si risponda che la croce,
in fin dei conti, è un oggetto innocuo:
ragionamento non solo blasfemo per qualsiasi credente ma ignaro di una memoria
storica che ha usato l’esposizione di
simbologie religiose come strumento per marcare il proprio egemonico dominio
con particolare acredine nei confronti degli ebrei tra i quali merita peculiare
attenzione un banchiere mantovano vissuto alla fine del XV secolo, Daniele
Norsa, la cui volontà di debellare «certe figure de santi» dal muro esterno
della propria abitazione venne accolta con una condanna, pena «ch’el sia impicato inante la casa», a trasformare a proprie spese la casa
stessa in una cappella adibita al culto della Vergine.
Sulla pesante responsabilità
dietro l’utilizzo di un simbolo così pregno di significato quale il crocifisso
non mancano esempi tra loro opposti: da un lato basti ricordare la lettera
spedita dal Centro Simon Wiesenthal all’ambasciatore polacco negli Stati Uniti
per denunciare con meditato sdegno la presenza di parecchie croci all’interno
del lager di Auschwitz. Il gruppo di ebrei, molti dei quali sopravvissuti all’Olocausto,
riteneva a dir poco indelicato «imporre simboli cristiani alla sofferenza
ebraica».
Dall’altro, non poca rilevanza
ricopre il contesto in cui la croce cominciò con stabilità la sua tronfia
occupazione dei luoghi pubblici: è il periodo della guascona violenza delle
camicie nere, della volgare prepotenza dell’olio di ricino, del nauseabondo
stormire di bastoni. Il periodo in cui Curzio Malaparte acclamava fervidamente
questo atroce dinamismo descrivendolo come «specie di vendetta della terra sulle
città sine Deo» che vedeva come
protagonista
«l’esercito agreste, lento e solenne all’assalto delle città
moribonde, recando innanzi le immagini dei Santi, le mensoline con gli amuleti,
i paramenti sacri, i tappeti di porpora tesi fra due pali, i baldacchini con
sotto i vecchi, i preti e signori di campagna, e ancora elmi da frate infilati
sui badili e sulle zappe, gonfaloni selvaggi e stendardi paesani con le scritte
Virgo virginum, Christus imperat, e i
grandi Crocifissi trionfanti» compatti nel desiderio di sfogare la propria
atavica vendetta contro gli «ebrei socialisti», gli «uomini di piazza, di
governo, di caffè, di università, d’accademia» colpevoli di aver «sputtanato in
mille modi l’Italia eroica, santa, cristianissima del 1821».
Tra i primi provvedimenti del governo Mussolini, quello d'imporre il crocifisso nei luoghi pubblici |
Immagine sotto molti aspetti
truffaldina ma al contempo intimamente sentita in una vulgata fascista che, a
partire dalle svariate messe celebrate in occasione degli anniversari della «marcia
su Roma», rivendicava come cardine della propria azione «la Croce e il coltello»
per citare ancora una volta i deliri di un Malaparte in preda ad un entusiasmo
che lo portava a vedere nel trionfo del regime l’affermazione del «Cristo
cattolico», «armato», «implacabile» e in grado di «resistere al male».
Di conseguenza, il 22 novembre
1922 una circolare dell’appena insediato governo Mussolini impone un perentorio
diktat circa la presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, già sancita da
un provvedimento del 1859 ma evidentemente non attuata col rigore necessario,
reclamando:
«In questi ultimi anni, in molte scuole elementari del Regno sono
state tolte le immagini del Crocifisso e il ritratto del Re»: «aperta e non più
oltre tollerabile violazione d’una precisa disposizione regolamentare»,
insultante nei riguardi della «religione dominante dello Stato» e finanche del «principio
unitario della Nazione». Conclusione: «Si fa pertanto formale diffida a tutte
le Amministrazioni comunali del Regno, perché sieno immediatamente restituiti
alle scuole, che ne risultino prive, i due simboli sacri alla fede e al
sentimento nazionale».
A firmare il proclama provvede il
sottosegretario all’Istruzione Dario Lupi, lo stesso che ad esempio nel
febbraio 1923 avrà modo di proclamare a corredo di un comizio: «Chi viene a
noi, o diventa nostro, anima e corpo, spirito e carne, o sarà inesorabilmente
stroncato».
Tempo neanche un mese e il 16
dicembre 1922 i prefetti del Regno ricevono la seguente circolare:
«Le SS. LL.
vorranno richiamare l’attenzione dei Sindaci sul preciso intendimento del
Governo di non tollerare alcuna trasgressione alle disposizioni impartite» a cui
faranno seguito analoghe disposizioni sull’esposizione del crocifisso in tutti
i luoghi pubblici (ordinanza ministeriale dell’11/11/1923), in tutte le scuole
medie (regio decreto del 30/04/1924), in tutti gli istituti scolastici
(circolare ministeriale del 26/05/1926).
Un’ossessione in cui è difficile
non scorgere il rilievo ad essa riservata nella feroce opera d’indottrinamento
degli italiani del futuro. Si ritiene questa pagina di storia degna di
perpetuazione?
Orbene, per completezza si
sancisca che di fianco al crocifisso venga appesa anche l’effigie del Duce
Benito Mussolini, che «alla testa delle Camicie Nere preparò, contro la civiltà
della rinunzia, la più grande delle rivoluzioni». A voler essere fiscali,
questo impone la «tradizione storica della croce nei
luoghi pubblici» (rifarsi
ai blandi provvedimenti del 1859 cambia poco: in tal caso si proceda all’affissione
di «un ritratto del Re»).
Fortunatamente il progredire dei
decenni ha spinto alcuni valorosi magistrati della Corte di Cassazione, fuori dal
salmodiante coro politico-mediatico, ad assolvere un professore di Cuneo restio
a svolgere le sue mansioni di scrutatore in presenza del crocifisso adoperando
- siamo nel 2000 – parole meritevoli di essere scolpite:
«L’imparzialità della
funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità dei
luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni
elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure
indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del
contenuto della fede, che ogni immagine religiosa simboleggia».
Concetti peraltro ben sedimentati
nella concezione pubblica di zone con tradizioni religiose per molti versi analoghe
a quelle italiane: a partire dalla Baviera che fin dal 1995 impone di eliminare
simboli religiosi dalle scuole in mancanza di accordo unanime tra tutte le
famiglie della classe per arrivare alla Francia che fin dal 1905 vieta di «apporre
segni o simboli religiosi sui monumenti pubblici, e in qualsivoglia luogo
pubblico» passando per una Spagna in cui ebbe modo di svolgersi pochi anni
orsono un dibattito attorno alla «legge organica sulla libertà religiosa»
concernente anche il divieto di affissione di simboli religiosi nelle pareti
istituzionali.
Alle nostre latitudini si
preferisce rimanere appesi, anche letteralmente, a dogmi da imporre in pubblico
tralasciando i luoghi in cui effettivamente le croci hanno tutto il diritto d’insediarvi:
strutture private e luoghi di culto ove però sovente i crocifissi o vanno
scomparendo o vegetano dimenticati.