C’è una fede pericolosa che
assilla le nostre esistenze, mette in dubbio le nostre certezze, calpesta i
nostri diritti e sputa sui nostri gloriosi trascorsi storici. Ci sono persone,
in mezzo a noi, che ci vogliono sottomettere per rivendicare la loro
supremazia: i ricchi, ossia quei 35 milioni d’individui (lo 0,7% della
popolazione globale) in grado di stringere tra le mani il 44% della ricchezza
del pianeta (da Research Institute, «Global Wealth Report 2014», Crédit Suisse, Zürich 2014, pag.24) legittimando la loro azione grazie ad autentiche
ortodossie al limite del fanatismo secondo cui l’erosione della ricchezza dalle
fasce meno abbienti è pratica auspicabile. Se Polanyi è stato tra i primi a
definire «credo» il dogma alla base della proliferazione delle disuguaglianze,
fu James Galbraith a descrivere i neoconservatori del Congresso Usa degli anni
Ottanta nei seguenti termini:
«Per quanto uno fosse in
disaccordo con loro queste erano persone che credevano [enfasi nel
testo]. Erano idealiste. Avevano la forza della convinzione. Peggio ancora,
erano loro a stabilire i temi da porre in agenda. E inducevano a pensare: se
mai avessero ragione?» (da J. K. Galbraith, «The Predator State. How Conservatives Abandoned the Free Market and Why Liberales Should Too», Free Press, New York 2008, pag.3).
Ecologicamente, economicamente,
socialmente e umanamente questa dottrina ha creato immani scompensi,
perpetrando le più fetide ingiustizie il cui occultamento riesce possibile solo
grazie al poderoso volume del chiassoso cicaleccio che almeno in Europa trova
il proprio fulcro nel mantra di un «riformismo» tanto brutalmente imposto
quanto disastroso sul piano sociale (tralasciando per pietà la situazione
greca, in Spagna la disoccupazione supera il 25%, in Irlanda il debito pubblico
delle famiglie tracima il 200% del proprio reddito, il Portogallo assiste al
14% di disoccupazione e al 50% di pressione fiscale).
Furio Arte, Il potere dei soldi |
Ma limitarsi ad osservare
l’Ue del periodo post-2007 rischia di non cogliere la portata di uno sviluppo
economico insostenibile fin dal principio e ad ogni latitudine, in cui la
miscela di senso di strozzamento e apparente impossibilità di pensare ad
un’alternativa porta inevitabilmente a forme di brutalità barbariche, checché affermino
i novelli cultori dello scontro apocalittico tra Vangelo e Corano. L’islam è
solo un terreno fertile su cui seminare la gramigna di una frustrazione le cui
origini non risalgono alla religione, bensì ad un contesto sociale in cui le
persone costrette a
vivere nelle orrende slums delle metropoli di Asia, Africa
e America Latina sono passate dagli anni Settanta agli anni Duemila dall’1-2%
della rispettiva popolazione a più del 20%, non facendo altro che accrescere
vertiginosamente il disagio provocato da una globalizzazione che vede tra i
suoi fattori più nocivi la fabbricazione di praticamente ogni genere di
prodotto tramite la creazione spasmodica di società sussidiarie in paesi stranieri, come pure la mercificazione di servizi sociali e sistemi di protezione
previdenziale, senza parlare della pura e semplice delocalizzazione la cui
minaccia sarebbe da sola inaccettabile per qualsiasi politica che abbia
minimamente a cuore la stabilità dell’individuo. Così nel mentre la
precarizzazione lavorativa si diffondeva senza limiti (le assunzioni italiane
del 2008 consistevano per il 70% in contratti «flessibili» contro il 50% dei
primi anni Duemila) lo stesso lavoro stabile andava incontro ad una progressiva
pauperizzazione finanche nei paesi avanzati se si pensa ad esempio che persino
nell’invidiabile Germania dei primi anni di recessione si poteva assistere ad
un esercito di lavoratori fissi (circa il 20%) costretto a trattamenti
economici inferiori almeno alla metà del salario medio. Una situazione talmente
drammatica da spingere l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) ad
avvertire:
«Molti lavoratori hanno davanti a
sé tempi difficili. Una crescita lenta o negativa, combinata con prezzi
altamente volatili, eroderà i salari reali di molti lavoratori, in particolare
quelli della famiglie più povere che percepiscono bassi salari. In molti paesi
saranno probabilmente toccate anche le classi medie. […] V’è pure il rischio di
veder salire il numero dei lavoratori poveri e la povertà in generale» (da Aa. Vv. «Global Wage Report 2008-2009. Minimum wages and collective bargaining – Towards policy coherence», International Labour Organization, Genève 2008, pag.60; si veda anche pag.8)
Una concezione del mondo fondata
unicamente sulle possibilità di profitto ha provocato un ulteriore aggravamento
delle condizioni per quanto riguarda le possibilità di accedere ai servizi
essenziali: se già nel 2007 l’80% della popolazione globale si trovava
sprovvista delle protezioni
necessarie per fronteggiare situazioni impreviste
(dalla salute all’invalidità) con 340 milioni di anziani impossibilitati a
ricevere un reddito stabile (da Department of Economic and Social Affairs, «World Economic and Social Survey 2007: Development in an Ageing World», United Nations, New York 2007; cfr. tab. 11.3 a pag.14) persino negli opulenti Stati Uniti è stato rilevato che la quota di famiglie in grado di far fronte a emergenze di tipo medico
risulta drammaticamente scesa dal 43,7% nel 2000 al 33,9% nel 2007; sorte
analoga per quelle in grado di fronteggiare un’emergenza generica dal costo
pari a tre mesi di reddito (dal 39,4% del 2000 al 29,4% del 2007) e ovviamente
per quanto concerne un breve periodo di disoccupazione (sostenibile per il 51%
delle famiglie nel 2000 contro il 44,1% del 2007). Incertezze ben maggiori
permangono ovviamente nei paesi in via di sviluppo, dimenticato contesto ove
2,6 miliardi di persone all’inizio della crisi vivevano in abitazioni prive di
servizi igienici di base mentre secondo l’Onu ammontavano a
1,1 miliardi gli individui la cui fonte d’acqua si trovava a più di un chilometro dalla
propria abitazione.
Analogamente a circa un miliardo ammontavano gli affamati,
succubi delle incertezze di un mercato finanziario che ad esempio nel solo biennio 2007-2008 ha visto accrescere il prezzo degli
alimenti di base (frumento + 68%, riso +80%, mais +72% e via discorrendo) in
misura tale da aver bruscamente innalzato la quota di affamati nel pianeta (si
veda S. Rosen, S. Shapouri, K. Quanbeck e B. Meade, «Food Security Assessment 2007», United States Department of Agriculture, Washington 2008, pag.3). Una cifra che si abbina a quella degli 1,3 miliardi di lavoratori che prima
della crisi guadagnavano meno di due dollari al giorno (da International Labour Office, «Global Employment Trends», Ilo, Genève 2008, pagg.9-11) a cui ribattere con discutibili indici sulla decrescita della povertà globale
non basta dal momento in cui studi attenti ai diversi contesti globali rilevano
non solo che il calo è da imputare de facto alla sola Cina, ma
«Quanto minore è la
disuguaglianza, tanto maggiore è la riduzione di povertà associata a una
determinata crescita del reddito procapite […] Si tratta di un risultato
facilmente comprensibile se si ricorda come è costruito l’indice di povertà:
ridotte disuguaglianze implicano che il numero di coloro che sono, dal basso,
vicini alla soglia della povertà è – a parità di altre condizioni – più
elevato. Questo assicura che anche una limitata partecipazione al processo di
crescita potrà permettere a molti di varcare quella soglia» (da N. Acocella, G. Ciccarone, M. Franzini, L.M. Milone, F.R. Pizzuti, M. Tiberi, «Rapporto sulla povertà e le disuguaglianze nel mondo globale», Fondazione Premio Napoli, Napoli 2004 pag.75)
Si potrebbe proseguire lungamente
a dimostrare quanto assodato sia il fallimento delle politiche
economiche
globali (si pensi ad esempio alla drammatica situazione ambientale), tra i cui
effetti andrebbe probabilmente annoverato il ripugnante proliferare della più
rivoltante barbarie islamica. Lo spiega in maniera inconfutabile Al Housseini
Ag Bilal, musicista arabo-tuareg di Kidal intervistato dal periodico «Limes»: ricordando il periodo in cui il suo paese, il Mali, si trovò costretto sotto
il giogo della jihad ebbe il coraggio di affermare:
«I jihadisti hanno gestito bene
la giustizia […] Dal punto di vista sociale sono stati, almeno all’inizio,
molto positivi per la vita quotidiana delle persone. Regalavano sacchi di riso
e ai poveri non hanno mai chiesto un franco».
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