mercoledì 18 novembre 2015

Come ci siamo venduti ai signori del terrore

Le classi dirigenti dell’Occidente apparentemente libertario erano ben coscienti che troppo spesso le mani che stringevano per siglare accordi erano ancora inzuppate del sangue degli «infedeli»: lo sapevano e non solo lo tolleravano (in base alla massima di Friedman secondo cui ogni azione prescindente dal profitto va definita «profondamente sovversiva») ma tutto sommato lo incoraggiavano ben coscienti che la barbarie jihadista, lungi dal voler ribaltare gli assetti costituiti, è la migliore garanzia per far rimanere inalterati i fragilissimi equilibri della regione mediorientale impedendo che qualche nazione dell’area – soprattutto l’Iran – acquisisca uno status di potenza troppo ingombrante.
Quello degli attentati è stato evidentemente considerato un prezzo ragionevole da pagare in cambio di un contesto geopolitico e commerciale (sebbene sia sovente difficile comprendere quando finisce l’uno e quando inizia l’altro) fertile per i propri interessi: la verità è che nel mondo del business al capitale dei magnati islamici non possiamo rinunciarci, e dall’insorgenza delle «primavere arabe» questo capitale quasi sempre tradotto anche in potere politico conosce un unico piedistallo che ne garantisce la sopravvivenza, ossia la presenza di qualche capro espiatorio dalla ridicola matrice religiosa in cui convogliare il disagio popolare.

(fonte)
L’Occidente, in poche parole, ha messo in vendita la sicurezza dei propri cittadini; ma lo scambio non è stato di natura culturale: ai due capi del tavolo non troviamo cristiani e musulmani. Utili e perdite si dividono in base alla posizione ricoperta nella classe sociale. Gli abbienti comunque vada incassano un proprio tornaconto, ai meno abbienti (di qualunque fede) non rimangono che paure e privazioni a cui la sagacia delle classi dominanti provvede a fornire narrazioni utili soltanto a renderli marionette a propria disposizione (da qualunque versante si collochi, tutti i
Il principe Alwaleed bin Talal ha donato venti milioni di dollari
a quello che una volta si chiamava Center for Muslim-Christian
Understanding di Georgetown
sostenitori dello «scontro di civiltà» si prestano a questo gioco), talvolta insinuandosi nelle delicate enclavi dell’istruzione universitaria come dimostra ad esempio l’apertura ad opera del fondo sovrano emiratino Mubādala della
Paris-Sorbonne Université Abou Dhabi, succursale nell’isola di al-Rīm della prestigiosa università parigina alla presenza nientemeno che dell’allora primo ministro François Fillon in singolare concomitanza con le sollevazioni popolari in tutto il mondo arabo. Difficile non scorgere tra i motivi principali di questa attività il desiderio propagandistico palesato in maniera inconfondibile dall’analista Nawwāf al-‘Ubaydī, per parecchi anni a libro paga della famiglia reale saudita e ora visiting fellow del Belfer Center dell’Università di Harvard sempre prodigo di buone parole nei confronti del ripugnante regime del Golfo, specie quando si tratta di esaltare la «nuova generazione di leader sauditi» nella difficile prova del potere da esercitare senza dubbio alcuno «con più forza, più coerenza  e, soprattutto, più sostenibilità» (si veda anche N. Obaid, «Saudi Arabia Is Emerging as the New Arab Superpower», da «The Telegraph» del 05/05/2015).



Se nel versante culturale per fortuna l’Italia non «gode» di questa attenzione, i tentacoli dei burattinai del terrorismo – specie quelli provenienti dal Qatar - sono visibili in una sequela di preziosi settori, dall’Hotel Gallia di Milano (acquistato nel 2006) al Regis di Roma (acquistato nel 2014), dall’acquisizione di Costa Smeralda Holding all’ottenimento del complesso di Porta Nuova a Milano.
Eppure in una delle controversie più determinanti per i qatarini, quella libica, il governo italiano preferisce schierarsi con le forze avverse, spendendosi più di una volta in elogi nei riguardi del «grande leader» egiziano al-Sīsī in prima linea nel sostegno alle truppe del generale Ḥāftar. Una strategia che ad un primo disincantato sguardo non comporta alcun vantaggio per l’Italia, specie per quanto concerne il delicato tema del traffico dei migranti, al contrario adoperato dalle milizie di Tripoli come arma (di ricatto ma non solo) da scagliare come ritorsione con particolare accanimento sulle coste italiane. A chiarire la situazione, del resto, ci aveva pensato con mezzi particolarmente rudi lo stesso premier di Tripoli intervistato da una televisione del nostro paese:

«Devo sottolineare la riluttanza del governo italiano a collaborare con noi e la sua debolezza nel combattere il terrorismo e i criminali […] questo ha fatto sì che i criminali trovassero un ambiente favorevole per espandersi. Noi non abbiamo mezzi e l’Italia non ha fatto niente per aiutarci a combattere il terrorismo in Libia». Dulcis in fundo arriva l’avvertimento di stampo mafioso: «Nonostante tutto, il nostro governo di salvezza nazionale a Tripoli sta facendo del suo meglio per combattere l’immigrazione clandestina e salvare i profughi. Purtroppo abbiamo trovato solo rifiuti da parte dell’Europa e l’Italia è al primo posto in questa riluttanza».

Lungi da qualunque sensibilità umana, anche l’Italia guarda al mondo unicamente dallo spioncino
Il principe emiratino  osannato dall'industria italiana
degli affari, nello specifico stando ben attenta a salvaguardare i rapporti col più generoso sostenitore di Ḥāftar, ossia quegli Emirati Arabi
in preda ad una capillare campagna denigratoria ad uso interno tesa a dimostrare la connessione tra le forze di Tripoli e le sollevazioni popolari che, da Šāriqa a Um al-Qaywayn, si sono verificate negli Emirati del Nord nel corso del 2011 tenendo nel contempo un occhio concentrato su come implementare la propria influenza geopolitica sul Maghreb. Eppure, nonostante questa meschina attività indubbiamente connessa con l’insorgenza del più fetido jihadismo, compromettere i rapporti con gli Emirati viene considerato un pericolo troppo grande se si considera che gli Eau

«investono in Egitto e gli appalti, come il masterplan del “Triangolo d’oro” nel Mar Rosso, vanno a imprese italiane. In secondo luogo, c’è un potenziale triangolo militare, laddove non solo gli Emirati forniscono soldi all’Egitto che poi li spende in armi ma anche posseggono imprese italiane come la Piaggio Aerospace, che produce armamenti d’avanguardia come i droni. Infine, il rapporto con gli Emirati tramite l’Egitto potrebbe servire ad assicurare alle imprese italiane come l’Eni una presenza nel Nordafrica trattando con chi oggi detiene (o pensa di detenere) le chiavi non solo dell’Egitto ma anche della Libia» (da M. Toaldo, su «Limes – rivista italiana di geopolitica», n.03/2015)



Non ci si sorprenda, dunque, se l’attuale presidente del consiglio d’amministrazione del fondo Mubādala nonché principe ereditario degli Emirati nonché vicecomandante supremo delle Forze armate del paese sia Šayḫ Muḥammad bin Zāyid Ᾱl Nahyān, dotato di un rapporto talmente confidenziale con l’Italia – reso possibile anche dalla frequentazione dell’accademia di Pozzuoli  – da essere stato nominato grande ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica nel settembre 1990 nonostante i suoi dogmi grettamente retrivi. Dogmi che lo hanno spinto ancor di più nella scelta di acquisire Piaggio Aerospace, probabilmente incoraggiato anche dall’amico Luca Cordero di Montezemolo (attualmente presidente di Alitalia emiratina e vicepresidente di Unicredit grazie peraltro alle raccomandazioni provenienti dai magnati di Abu Dhabi). Magnati che nel frattempo sono riusciti a mettere le mani sopra l’italiana Maire Tecnimont, a creare una joint-venture tra l’italiana Selex Es e Abu Dhabi Ship Building per potenziare la Marina emiratina, ad attivare satelliti grazie al supporto della franco-italiana Thales Alenia Space e non viene fatto nulla per nascondere il desiderio del fondo sovrano Adia di entrare nel capitale di Aeroporti di Roma.

In questo fiorente traffico non potevano mancare momenti amaramente beffardi, come il momento dell’accordo stipulato nel febbraio 2015 grazie al quale l’Aeronautica militare italiana provvederà ad acquistare direttamente dagli Emirati i droni prodotti dalla Piaggio Aerospace. Il comunicato ufficiale afferma lusingato questo accordo porterà ad un «rafforzamento della capacità di sorveglianza e difesa del territorio nazionale da eventuali minacce, inclusa quella terroristica» occultando ingenuamente che per tramortire la «minaccia terroristica» il primo fondamentale passo è evitare certi rapporti d’affari

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