Qualche anno fa un team di
economisti giunse a scrivere che «la questione chiave non è se le modalità di
governo dovrebbero rispondere meglio alla crisi finanziaria, ma come dobbiamo
attrezzarci per comprendere che la crisi è una modalità di governo» (da J. Brasset e N. Vaughan-Williams, «Crisis is Governance. Sub-prime, the Traumatic Event, and Bare Life» su «Global Society», XXVI, gennaio 2012, n.1, pag.42) lasciando chiaramente trapelare la convinzione che la
recessione in atto lungi dall’essere – come apparentemente dovrebbe sembrare –
un imbarazzante fallimento delle dottrine economiche imperanti sia da
interpretare al contrario come il pretesto migliore da un lato per sottrarre al
controllo democratico i residuali servizi di garanzia pubblica e dall’altro per
riuscire letteralmente a formare il cittadino secondo i canoni di un Homo oeconomicus in grado di guardare ad ogni aspetto della propria esistenza come ad una merce
scambiabile in qualsiasi mercato borsistico (sulla mercificazione in atto in
Europa dei sistemi di sicurezza sociale si veda A. Heise e H. Leirse, «Haushaltskonsolidierung und das europäische Sozialmodell. Auswirkungen der europäischen Sparprogramme auf die Sozialsysteme», Friedrich-Ebert-Stiftung, Berlin 2011).
Un obiettivo, questo, elaborato da parecchio prima che la crisi
economica deflagrasse: si pensi a titolo d’esempio al cosiddetto Powell Memorandum,
documento indirizzato nel 1971 al Comitato Educazione della Camera di commercio
Usa ad opera dell’avvocato Lewis F. Powell secondo cui era assolutamente
necessario agire su tutti i gangli della formazione universitaria, «anche là
dove non siano presenti dei sinistrorsi» (da L.F. Powell, «Confidential Memorandum. Attack on American Free Enterprise System») affinché libri di testo e spazio da garantire ai
conferenzieri fossero sottoposti ad uno scrupoloso controllo da parte di
studiosi di provata fede nel «sistema». Sorte analoga doveva essere riservata a
stampa, televisione, radio, riviste scientifiche, pubblicità e
finanche
gestione delle edicole, colpevoli di esporre pubblicazioni «inneggianti a
tutto, dalla rivoluzione al libero amore, mentre non si trova quasi nessun
libro o rivista attraente e ben scritto che stia “dalla nostra parte”», ossia
dalla parte della destra economica, la stessa che nel giro di alcuni decenni
sarebbe riuscita in maniera stupefacente ad esaudire i sogni di Powell
consegnandoci un mondo in cui la dominazione culturale è saldamente
monopolizzata dal dogma neoliberale: a partire dall’informazione per arrivare
alle università, ove l’assalto degli ultraliberisti «ragazzi di Chicago» nelle
facoltà di economia è coincisa con l’opera di discredito nei confronti dei
dipartimenti di scienze umane (caso esemplare le classifiche delle migliori università del mondo, in cui si osserva la deliberata marginalità riservata ad atenei quali la
Sorbonne e la Normale di Pisa) contribuendo in misura determinante a realizzare
quel clima di egemonia esplicitamente denunciato da alcuni studiosi
indipendenti (si veda S. Schulmeister, «Das neoliberale Weltbild – wissenschaftliche Konstruktion von “Sachzwägen” zur Förderung und Legitimation sozialer Ungleichheit», IKW WP n.115, Vienna 2006, pag.154).
Egemonia riscontrabile in vari
ambiti, su tutti la pretesa delle istituzioni politiche di misurare il peso
delle facoltà accademiche in rapporto al bilancio economico dell’ateneo:
emblema di una incontrovertibile visione contabile di ogni aspetto della
formazione del cittadino, osservabile peraltro anche nella spinta agli Istituti
italiani di cultura all’estero di avere come scopo prioritario lo sponsor del
Made in Italy e nella richiesta di legami università-industria sempre più saldi.
L’opera di trasferire nel campo
educativo l’impostazione aziendalistica ha inizio negli uffici dell’Ocse, «capocantiere
della demolizione sociale» (da S. Halimi, «Le grand bond en arrièere. Comment l’ordre libéral s’est imposé au monde», Fayard, Paris 2006, pagg.314 e seguenti) ampiamente rintuzzato da organismi quali il Cmit composti da dirigenti
finanziari, accademici e funzionari ministeriali, che a partire dagli anni
Novanta ideò un sistema di valutazione periodica per
gli studenti degli stati
membri – il Pisa – incentrato esclusivamente su capacità di lettura, matematica
e scienze dando il via ad una competizione tra le varie nazioni al fine di
raggiungere i primi posti in classifica mediante riforme scolastiche cucite su
misura per i risultati di quei test. Alla «catastrofe Pisa» (da J. Krautz, «Ware Bildung. Schule und Universität unter dem Diktat der Ökonomie», Diederichs e-Books, Bad Bentheim 2012) si andarono nel tempo ad aggiungersi altri convegni e think
tanks concentrati sull’argomento tra cui va segnalato per importanza quello
svolto a Bologna nel giugno 1999, un contesto in cui i ministri europei dell’Istruzione
superiore affermarono i seguenti propositi:
«Adozione di un sistema di titoli di semplice
leggibilità e comparabilità […] al fine di favorire l’employability dei
cittadini europei e la competitività del sistema europeo dell’istruzione
superiore.
Adozione di un sistema fondato
essenzialmente su due cicli principali […]
Consolidamento di un sistema di
crediti didattici […] acquisibili anche in contesti diversi, compresi quelli di
formazione continua e permanente […]
Promozione della cooperazione
europea nella valutazione della qualità al fine di definire criteri e metodologie
comparabili» (dal sito del Miur)
Dettami a cui in Italia il
ministro Berlinguer diede rapida attuazione, a partire da un’organizzazione dei
cicli universitari che in taluni casi comportò un taglio pari a un quarto della
didattica.
Altro documento meritevole di attenzione è quello del
Consiglio europeo di Lisbona tenutosi nel 2000:
«5. L’Unione si è ora prefissata un nuovo
obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla
conoscenza più competitiva e dinamica del mondo […] Il raggiungimento di questo
obiettivo richiede una strategia globale volta a predisporre il passaggio verso
un’economia e una società basate sulla conoscenza.
[…]
25. I sistemi europei di
istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei
saperi […] Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate
ai gruppi
obiettivo nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati
e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese
obsolete dai rapidi cambiamenti […]
Luigi Berlinguer, primo di una lunga serie di sciagurati riformatori della scuola italiana |
26. Il Consiglio europeo invita
pertanto gli Stati membri […] ad avviare le iniziative necessarie per
conseguire gli obiettivi seguenti: […] un quadro europeo dovrebbe definire le
nuove competenze di base da fornire lungo tutto l’arco della vita: competenze
in materia di teoria dell’informazione, lingue straniere, cultura tecnologica,
imprenditorialità e competenze sociali»
La conclusione è stata
sagacemente offerta da un docente: «La politica della formazione è diventata da
allora un elemento stabile della politica dell’occupazione e dell’economia.
Essa serve in prima linea alla crescita economica, alla competitività e alla
mobilità» (da L. A. Pongratz, «Bildung im Bermuda-Dreieck. Bologna – Lissabon - Berlin» su «Schulheft», n.139, Studienverlag, Innsbruck-Wien-Bozen 2010, pag.41)
ottenuta mediante una brutale degradazione del pensiero critico che la crisi
economica intende tramortire definitivamente. Per questo un’opera divulgativa
di pensiero alternativo e indipendente rappresenta il primo fondamentale passo
per scardinare un assetto neoliberale fondato esclusivamente su dogmi di fede
sempre più distanti dall’esperienza quotidiana dei cittadini.
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