Un luogo affollato, chiassoso e
rissoso; un luogo dove l’unica attività è quella di urlarsi addosso, senza
tentare alcun ascolto; un luogo dove nessuno capisce nulla, dove solo qualche
sporadica persona tenta vanamente di trovare una logica in tutto questo (alla
fine costretta ad arrendersi quando si ritrova sommersa da schiamazzi,
strepiti, frasi sconnesse, neologismi, pugni e scarpe sbattuti con ferocia e
determinazione). In mezzo a tutto questo fracasso si possono distinguere
affermazioni grottesche come: «Presidente, Giarrusso ci ha sbeffeggiato facendo
il gesto del canguro», «Ma sta scherzando? Oooh!», «Che emendamento stiamo
votando?» e via di questo passo.
Non è un mercato ortofrutticolo
della bassa padana, non è un asilo infantile, non è un fumoso locale del porto
di Genova, non è una sagra dell’hinterland partenopeo, non è la sezione gibboni
dello zoo di Roma. Stiamo parlando di quanto sta avvenendo in queste ore nel
Parlamento italiano, espressione di sessanta milioni di cittadini, luogo
addetto a decidere le sorti del nostro popolo, posto impregnato fino al midollo
di storia del nostro Paese. Questo chiasso si sta svolgendo in mezzo ai banchi
dove sono state sedute le figure più eminenti (e rimpiante) della nostra
Repubblica.
Come se non bastasse, l’oggetto
del contendere non è l’illuminazione stradale o l’allevamento delle telline.
No, l’argomento affrontato è una riforma della Costituzione, è la revisione di
alcuni aspetti determinanti della nostra democrazia. Questioni determinanti per
il futuro del nostro Paese vengono affrontate nel modo più infantile e
incredibile.
Maggioranza e opposizione si
ritrovano divise da sostanziali questioni di merito, ma nelle questioni di
metodo si fatica a distinguere l’una dall’altra: rifiuto totale verso ogni
forma di ascolto, l’urlo, lo schiamazzo, la ferma convinzione che il proprio
avversario sia in malafede. I «gufi» contro i «fascisti», gli «allucinati»
contro gli «ebeti»: è con questi toni che si sta cambiando la colonna portante
del nostro Stato, è questo il modo con cui probabilmente il Senato così com’è
ora si congederà dopo settant’anni di carriera, è questo l’ultimo ricordo che
ci lascia e che lascia alle future generazioni. In uno dei momenti più
importanti della sua storia, in uno dei momenti in cui è più osservato a
livello non solo nazionale; il potere legislativo, invece di trovare un guizzo
di orgoglio, invece di emettere almeno un rivolo di dignità, preferisce
abbandonarsi a tutta la bassezza e a tutta la mediocrità di cui è capace. Un
dibattito in cui si dovrebbero citare Montesquieu e Marchesi finisce per essere
l’imitazione delle guerre tribali che si svolgevano tra gli uomini delle
caverne (che si siano volute riscoprire le origini del parlamentarismo?) in cui
l’unico confronto possibile è quello di fare a gara a chi strilla più forte.
Sono tutti qui i frutti
dell’antipolitica e del populismo: l’esibizionismo finalizzato alla popolarità
mediatica, l’assenza di qualunque percezione storica, la mancanza di limiti, il
menefreghismo verso i simboli, verso i luoghi, verso le istituzioni, verso la
convivenza civile. Bastano queste immagini per capire quale sia l’unica
«cultura» politica che riesce a fare breccia nel cuore degli italiani, è qui
che si concentra l’anima propagandista dei vari Grillo, Renzi, Berlusconi e
Salvini. Non è un caso che la profanazione del Parlamento sia cominciata negli
anni in cui l’antipolitica si è innestata nella popolazione, e non è un caso
che nei giorni attuali (in cui l’antipolitica è più forte che mai) scene del
genere siano praticamente all’ordine del giorno. Ha spiegato il giornalista
Filippo Ceccarelli: «Da una dozzina d’anni almeno il Parlamento ha cominciato a
perdere l’antico, severo e polveroso decoro istituzionale a vantaggio di
Mirabilandia, delle sue attrazioni e anche dei suoi brividi (…). Con qualche
indispensabile semplicismo si può dire che il processo di autodegradazione
spettacolare è cominciato con uno sventolio di magliette di calciatori in
regalo, nascita di club di onorevoli tifosi, torte di compleanno e candeline,
anche in aula, coccarde e fazzoletti policromi, concerti, riprese
cinematografiche, mostre. E poi si sa come vanno queste cose, specie in Italia:
il presidente Pera riceveva con tutti gli onori Totti e Miss Italia, il presidente
Bertinotti accoglieva Zucchero e Claudio Baglioni, ai quali gli impiegati e i
funzionari chiedevano l’autografo; sotto Natale il presidente Casini allestiva
il presepio e subito c’era chi ci piazzava dentro Moana Pozzi e altre statuette
gay; e così in men che non si dica alla Camera dei deputati, cioè il palazzo
dove si costruisce il Nomos, la
Norma , ha finito per fare il suo trionfale ingresso
addirittura il Satiro danzante: come statua, ma pure come sintomatica e anche
scomoda evocazione». Per concludere: «A poco onestamente è servito
l’insediamento di uno “spazio di meditazione” interconfessionale. In aula i
deputati e i senatori hanno continuato a puntarsi laser negli occhi, a
regalarsi pupazzetti, a rifarsi il trucco o a ripassarsi il rossetto. Segnalata
all’ufficio postale la vendita del “Gratta e vinci”. Presentato un libro sui
Pooh. Agognata la visita di una celebre fisioterapista soprannominata
“Scrocchia-Piera”. Lanciato il gioco “Fantaparlamento”. Sventato un furto di
rame».
Così si è ridotta la nostra
democrazia parlamentare, così si è ridotta la politica pur di risultare
accattivante agli occhi dei cittadini. Calpestare ogni rispetto verso il
Parlamento è diventato sintomo di schiettezza, anticonformismo, vicinanza al
popolo; una pernacchia verso un luogo ritenuto desueto, inutile, simbolo della
«Casta» e soprattutto odiosa barriera tra il leader e il suo popolo.
Affrontare riforme costituzionali
in questo modo e in questo contesto appare veramente rivoltante: come può gente
del genere affrontare argomenti come la Costituzione e la democrazia parlamentare? Eppure
questa è la sorte che ci tocca, alternative non ce ne sono e non se ne vedono
all’orizzonte. Nonostante ciò, un «vergognatevi» è il minimo che si possa
rivolgere a queste persone.
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