venerdì 1 agosto 2014

DisSenato



Un luogo affollato, chiassoso e rissoso; un luogo dove l’unica attività è quella di urlarsi addosso, senza tentare alcun ascolto; un luogo dove nessuno capisce nulla, dove solo qualche sporadica persona tenta vanamente di trovare una logica in tutto questo (alla fine costretta ad arrendersi quando si ritrova sommersa da schiamazzi, strepiti, frasi sconnesse, neologismi, pugni e scarpe sbattuti con ferocia e determinazione). In mezzo a tutto questo fracasso si possono distinguere affermazioni grottesche come: «Presidente, Giarrusso ci ha sbeffeggiato facendo il gesto del canguro», «Ma sta scherzando? Oooh!», «Che emendamento stiamo votando?» e via di questo passo.
Non è un mercato ortofrutticolo della bassa padana, non è un asilo infantile, non è un fumoso locale del porto di Genova, non è una sagra dell’hinterland partenopeo, non è la sezione gibboni dello zoo di Roma. Stiamo parlando di quanto sta avvenendo in queste ore nel Parlamento italiano, espressione di sessanta milioni di cittadini, luogo addetto a decidere le sorti del nostro popolo, posto impregnato fino al midollo di storia del nostro Paese. Questo chiasso si sta svolgendo in mezzo ai banchi dove sono state sedute le figure più eminenti (e rimpiante) della nostra Repubblica.
Come se non bastasse, l’oggetto del contendere non è l’illuminazione stradale o l’allevamento delle telline. No, l’argomento affrontato è una riforma della Costituzione, è la revisione di alcuni aspetti determinanti della nostra democrazia. Questioni determinanti per il futuro del nostro Paese vengono affrontate nel modo più infantile e incredibile.
Maggioranza e opposizione si ritrovano divise da sostanziali questioni di merito, ma nelle questioni di metodo si fatica a distinguere l’una dall’altra: rifiuto totale verso ogni forma di ascolto, l’urlo, lo schiamazzo, la ferma convinzione che il proprio avversario sia in malafede. I «gufi» contro i «fascisti», gli «allucinati» contro gli «ebeti»: è con questi toni che si sta cambiando la colonna portante del nostro Stato, è questo il modo con cui probabilmente il Senato così com’è ora si congederà dopo settant’anni di carriera, è questo l’ultimo ricordo che ci lascia e che lascia alle future generazioni. In uno dei momenti più importanti della sua storia, in uno dei momenti in cui è più osservato a livello non solo nazionale; il potere legislativo, invece di trovare un guizzo di orgoglio, invece di emettere almeno un rivolo di dignità, preferisce abbandonarsi a tutta la bassezza e a tutta la mediocrità di cui è capace. Un dibattito in cui si dovrebbero citare Montesquieu e Marchesi finisce per essere l’imitazione delle guerre tribali che si svolgevano tra gli uomini delle caverne (che si siano volute riscoprire le origini del parlamentarismo?) in cui l’unico confronto possibile è quello di fare a gara a chi strilla più forte.
Sono tutti qui i frutti dell’antipolitica e del populismo: l’esibizionismo finalizzato alla popolarità mediatica, l’assenza di qualunque percezione storica, la mancanza di limiti, il menefreghismo verso i simboli, verso i luoghi, verso le istituzioni, verso la convivenza civile. Bastano queste immagini per capire quale sia l’unica «cultura» politica che riesce a fare breccia nel cuore degli italiani, è qui che si concentra l’anima propagandista dei vari Grillo, Renzi, Berlusconi e Salvini. Non è un caso che la profanazione del Parlamento sia cominciata negli anni in cui l’antipolitica si è innestata nella popolazione, e non è un caso che nei giorni attuali (in cui l’antipolitica è più forte che mai) scene del genere siano praticamente all’ordine del giorno. Ha spiegato il giornalista Filippo Ceccarelli: «Da una dozzina d’anni almeno il Parlamento ha cominciato a perdere l’antico, severo e polveroso decoro istituzionale a vantaggio di Mirabilandia, delle sue attrazioni e anche dei suoi brividi (…). Con qualche indispensabile semplicismo si può dire che il processo di autodegradazione spettacolare è cominciato con uno sventolio di magliette di calciatori in regalo, nascita di club di onorevoli tifosi, torte di compleanno e candeline, anche in aula, coccarde e fazzoletti policromi, concerti, riprese cinematografiche, mostre. E poi si sa come vanno queste cose, specie in Italia: il presidente Pera riceveva con tutti gli onori Totti e Miss Italia, il presidente Bertinotti accoglieva Zucchero e Claudio Baglioni, ai quali gli impiegati e i funzionari chiedevano l’autografo; sotto Natale il presidente Casini allestiva il presepio e subito c’era chi ci piazzava dentro Moana Pozzi e altre statuette gay; e così in men che non si dica alla Camera dei deputati, cioè il palazzo dove si costruisce il Nomos, la Norma, ha finito per fare il suo trionfale ingresso addirittura il Satiro danzante: come statua, ma pure come sintomatica e anche scomoda evocazione». Per concludere: «A poco onestamente è servito l’insediamento di uno “spazio di meditazione” interconfessionale. In aula i deputati e i senatori hanno continuato a puntarsi laser negli occhi, a regalarsi pupazzetti, a rifarsi il trucco o a ripassarsi il rossetto. Segnalata all’ufficio postale la vendita del “Gratta e vinci”. Presentato un libro sui Pooh. Agognata la visita di una celebre fisioterapista soprannominata “Scrocchia-Piera”. Lanciato il gioco “Fantaparlamento”. Sventato un furto di rame».
Così si è ridotta la nostra democrazia parlamentare, così si è ridotta la politica pur di risultare accattivante agli occhi dei cittadini. Calpestare ogni rispetto verso il Parlamento è diventato sintomo di schiettezza, anticonformismo, vicinanza al popolo; una pernacchia verso un luogo ritenuto desueto, inutile, simbolo della «Casta» e soprattutto odiosa barriera tra il leader e il suo popolo.
Affrontare riforme costituzionali in questo modo e in questo contesto appare veramente rivoltante: come può gente del genere affrontare argomenti come la Costituzione e la democrazia parlamentare? Eppure questa è la sorte che ci tocca, alternative non ce ne sono e non se ne vedono all’orizzonte. Nonostante ciò, un «vergognatevi» è il minimo che si possa rivolgere a queste persone.

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