In un’estate piovosa come non
capitava da decenni a questa parte, affrontare un tema come l’energia solare
può sembrare come minimo fuori luogo. Eppure ci tocca farlo, non fosse altro
che per l’informazione distorta diffusa in molti canali d’informazione riguardo alcuni recenti provvedimenti governativi in materia. La vicenda in poche
parole è questa: nel decreto Competitività il governo (pur di ridurre il costo
della bolletta energetica per famiglie e piccole imprese) ha deciso di allungare
il tempo di rimborso degli incentivi alle energie rinnovabili da 20 a 24 anni. Un piccolo
passetto a scapito dei produttori di energia solare che ha sollevato il
prevedibile pandemonio: banche, poteri forti, lobby del fotovoltaico (anche il
«Wall Street Journal» si è scagliato contro il provvedimento), ambientalisti
duri e puri, ecologisti da salotto, barricaderi dei social network, grillini e
figure di quella sinistra che ha trovato nella difesa miope dell’ecologia il
suo punto di riferimento si sono tutti uniti per gridare alla «morte delle
rinnovabili». Il problema in realtà andrebbe spiegato con maggiore cura,
partendo da lontano.
Siamo nel 1999, al governo c’è
Massimo D’Alema e l’Italia decide di dar vita all’ambizioso progetto «20-20-20»
(poi adottato dall’intera Unione Europea), il quale prevede che entro il 2020
il 20% dell’energia debba arrivare da fonti rinnovabili. Un piano sicuramente
partito con le migliori intenzioni per risolvere il dilemma titanico dei
cambiamenti climatici.
C’è però un problema: il denaro
erogato ai produttori di energia pulita (per lo più solare) proviene dalle
bollette energetiche di famiglie e imprese. Con l’andar del tempo questo
torrente di denaro finisce per diventare un fiume in piena: i grossi
speculatori del fotovoltaico si ingozzano a dismisura dei quattrini provenienti
da bollette energetiche che di anno in anno diventano sempre più pesanti per i
cittadini (e non potrebbe essere altrimenti: un chilowattora ottenuto dal gas
costa 7 centesimi, mentre un chilowattora ottenuto dal sole ne costa 35). In
particolare la situazione inizia a precipitare alla fine del 2010 quando un
emendamento (firmato da Filippo Bubbico del Pd ma appoggiato da tutti i
partiti) infilato per chissà quale ragione nel decreto «salva-Alcoa» porta gli
incentivi al fotovoltaico dai 900 milioni del 2010 ai 4 miliardi del 2011,
destinati a diventare 6 miliardi nel 2012 per poi stabilizzarsi (grazie a un
altro decreto) a 6,7 miliardi nel 2013. Nel solo 2012 gli incentivi al
fotovoltaico consistevano in 313 euro a megawattora, contro i 162 della Germania
e i 160 della media europea.
I risultati a livello ecologico
sono encomiabili: l’Italia (unico tra i grandi Paesi dell’Ue) ha ampiamente
superato il traguardo del 20% e attualmente ben il 35,1% dell’energia consumata
nel Belpaese proviene da energie rinnovabili, contro il 20% della Germania e il
12% della Francia. Ma il prezzo di questa situazione è assolutamente
inammissibile: secondo Assoelettrica l’elettricità nel nostro Paese ha un costo
maggiore del 25% rispetto alla media dei Paesi europei (Daniele Manca, sul
«Corriere della Sera», stimava anche un 30%) e ogni cittadino italiano deve
pagare mediamente 200 euro di bollette energetiche (complessivamente si parla
di 40 miliardi). Nel solo 2012 il costo della luce è
stato superiore dell’11,2% rispetto agli altri paesi europei.
Insomma, sovvenzionare a
dismisura la produzione di energia solare ha finito per consegnare un fardello
immane a famiglie e piccole imprese, e ha sempre di più scoraggiato gli
investitori internazionali ad aprire impianti nel nostro Paese; il tutto
condito da una beffa: il 45,4% dei fondi destinati al fotovoltaico proviene da
commercianti e piccole imprese che rappresentano però soltanto un terzo dei
consumi. Ciò significa che le imprese di grosso fatturato vedono un costo
dell’energia notevolmente minore (circa la metà) rispetto alle piccole imprese,
una situazione paradossale spiegata in questo modo dal presidente di
Assoelettrica: «Un utente domestico con potenza impegnata di 3 kW e un consumo
che non supera i 3-4mila kWh annui paga il chilowattora circa 19 centesimi
tutto compreso. Lo stesso consumatore che chiede l’allaccio a 6 kW e che
consuma la stessa quantità di energia paga, sempre tutto compreso, quasi 30
centesimi. E ciò che si può affermare, anche soltanto a grandi linee, è che a
subire il peso maggiore delle bollette sono proprio quelle piccole e medie
imprese che costituiscono l’asse portante del tessuto industriale italiano,
unitamente alla crescente platea di consumatori domestici che risultano oggi
penalizzati per aver voluto rivolgersi alle più avanzate tecnologie di
efficientamento. E la mia esperienza nel settore mi porta a credere che gran
parte della responsabilità di queste sproporzioni sia da imputare alla
spaventosa crescita delle rinnovabili in Italia».
Una crescita che non conosce
limiti: la produzione di energia solare nel 2013 ha visto un balzo del
16,4% e dal 2011 c’è stato un aumento del 50% di impianti installati
(attualmente è stimata la presenza di circa 550mila impianti). Al giorno d’oggi
(complice anche la drastica diminuzione dei consumi di energia dovuta alla
crisi economica) ci troviamo nella bislacca situazione di produrre troppa
energia solare e, dovendo adoperarla a tutti i costi, lo Stato è costretto a
ridurre al minimo l’energia proveniente da altre fonti: nel 2013, a fronte di un
aumento del 20,1% di produzione di energia solare, la termoelettrica è
precipitata del 14,1% (gli impianti di energia termoelettrica sono costretti a
lavorare al minimo, talvolta sotto la soglia di redditività).
Il motivo di questo abnorme
consumo di soldi per il fotovoltaico lo spiega così Mario Pirani su «La Repubblica » del 30
giugno 2014: «Qualche economista sprovveduto o ben sovvenzionato pensò che
queste concessioni avrebbero favorito l’industria italiana dei pannelli
fotovoltaici e delle apparecchiature elettriche ed elettroniche necessarie per
farli funzionare, ma niente di questo avvenne e oggi l’Italia praticamente non
ha industria che produce pannelli o apparecchiature elettroniche». Sempre
secondo Pirani, l’unico vero risultato di questi finanziamenti è stato «una
tumultuosa crescita della speculazione finanziaria alimentata con valenza
ventennale da capitali che il governo italiano tra il 2008 e il 2011 ha elargito a chi
copriva di pannelli le nostre campagne, con una suddivisione che vedeva
tedeschi e cinesi fornire la tecnologia mentre noi assicuravamo la bassa
manodopera ed i terreni. Gli incentivi erano garantiti per ben 20 anni,
prelevati dalle tasche delle famiglie e delle imprese attraverso le bollette
elettriche. Ogni anno complessivamente quasi 7 (sette) miliardi di euro vanno
così a riempire i conti bancari dei proprietari di questi impianti. Quasi un
punto di Pil».
Anche sull’impatto ambientale dei
pannelli fotovoltaici è lecito nutrire dei dubbi: la totalità degli impianti di
pannelli solari ha sottratto una quantità di terreno fertile pari alla
grandezza dell’intero Molise spodestando ecosistemi, limitando la nostra eccellente
produzione agricola, impoverendo il terreno, impedendo che si compia il ciclo
dell’anidride carbonica e deturpando il paesaggio. Senza contare il mistero che
aleggia intorno alla destinazione dei pannelli esausti.
Insomma, gli unici che ci guadagnano
veramente da questa mangiatoia (e che ora tremano di fronte alle pur modeste
azioni governative) sono banchieri e speculatori; lo spiega lo stesso Pirani:
«Innanzitutto l’installazione e l’esercizio di un impianto fotovoltaico è
difficilmente annoverabile tra le attività industriali. Non si corre il minimo
rischio, lo Stato, attraverso il Gse (gestore dei servizi elettrici) garantisce
l’acquisto dell’energia elettrica prodotta. Poi, ad eccezione di qualche
lavoratore extracomunitario utilizzato per il lavaggio dei pannelli solari un
paio di volte l’anno, l’occupazione è nulla. Gli investimenti finanziari al
netto delle tasse risultano superiori al 20%, con punte del 30%».
Viviamo quindi in un Paese dove
la speculazione fa ampi profitti sulla pelle delle piccole imprese, una
speculazione che trova un potente scudo nei tanti pregiudizi energetici
amplificati dai media e ben innestati nella mentalità dei cittadini: di fatto
ogni energia che non sia la solare o l’eolica viene percepita come dannosa per
la salute o per l’ambiente o per l’ecosistema o per chissà quale altro aspetto.
Ad esempio, la Puglia
che si oppone strenuamente ai rigassificatori, che si oppone strenuamente alla
Trans adriatic pipeline e che si erge a paladina dell’ambiente, vede un
impianto di energia fotovoltaica ogni 106 abitanti. Siamo sicuri che le
convenga?
La migliore conclusione per
questo articolo la offre un brano di Camillo Langone pubblicato su «Il Foglio»
del 3 dicembre 2013: «La nazione che esporta più pomodori è diventata l’Olanda.
Seguono il Messico, la Spagna ,
la Turchia , la Francia (il mio
fruttivendolo cerca sempre di piazzarmi pomodori francesi ma io, patriota,
resisto). L’Italia, il paese d’ ‘o sole, non pervenuta. Perché oggi la
produzione di pomodori da insalata anche in riva al Mediterraneo è conveniente
solo in serra e le serre sono affamate di energia e l’energia in Italia costa
uno sproposito siccome gli italiani, a differenza degli olandesi e degli altri,
sono signorini schizzinosi che non vogliono centrali nucleari né a carbone, non
tollerano trivellazioni né in terra né in mare, e si oppongono strenuamente a
termovalorizzatori e rigassificatori. Ovvio che i nostri pomodori siano fuori
mercato. Con i costi dell’energia che ci troviamo ormai possiamo produrre solo
rape. Che dovrebbero diventare l’ortaggio nazionale: il simbolo della nostra
idiozia».
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