La totale assenza di un reale e
concreto progetto per rilanciare l’economia da parte del governo sta in questi
giorni portando le sue prime conseguenze: l’Italia continua ad annaspare, il
prestigioso commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli è in
procinto di prendere il largo, l’Europa e gli investitori internazionali guardano
il nostro Paese con crescente scetticismo. La fragilissima ripresa che si
intravedeva, dovuta a motivi internazionali (scarsa affidabilità delle economie
emergenti e conseguente ritorno degli investitori nel Vecchio Continente), va
consumandosi senza che nessuno l’abbia agguantata per trasformarla in una
crescita duratura. L’unico aspetto economicamente positivo per l’Italia è la
stabilità del governo, ma esso da solo rappresenta soltanto il fondamento sul
quale costruire l’edificio delle riforme: è chiaro che le fondamenta diventano
inutili e ininfluenti se nessuno ci costruisce sopra qualcosa.
Una delle priorità di Matteo
Renzi doveva essere quella di redigere un serio, concreto, articolato e
approfondito programma economico, dalla riforma della giustizia alla riforma
del mercato del lavoro: avrebbe avuto notevolmente più credibilità di fronte
alle istituzioni europee, avrebbe creato meno ambiguità e malintesi con i
gruppi parlamentari e avrebbe dato un volto e un’identità (tuttora latitante)
al suo partito. Invece ha preferito rifugiarsi nella superficialità,
nell’hashtag, nello slogan, nella frase ad effetto, nel detto e non detto e
nella facile promessa generica: questa carenza di contenuti gli ha garantito un
invidiabile consenso sia tra i cittadini che tra i «pezzi grossi», ma
evidentemente la politica (soprattutto in queste circostanze) non la si fa con
l’esibizionismo mediatico. Ha sentenziato molte cose giuste, ha sicuramente
superato molti tabù della politica e del suo partito in particolar modo, ma è
tutto rimasto sulla superficie e si è consumato nel giro di qualche minuto,
giusto il tempo di un retweet; una superficialità a dir poco deleteria in un
Paese dove, al contrario, la primaria necessità è quella di dare vita a riforme
profonde e di lungo termine.
Il caso di Cottarelli è
emblematico in tal senso: l’irrinunciabile revisione della spesa pubblica
rischia di diventare un inutile esercizio se dietro questa revisione non c’è
alcun progetto che chiarisca come e in che misura sarà utilizzato il denaro
recuperato. Il rischio è quello che i fondi trovati con grande fatica da
Cottarelli vengano sperperati in decine di micro-progetti tanto utili alla
propaganda quanto inutili per far ripartire l’economia nazionale: tanto vale
rinunciare, ha giustamente pensato il commissario. Come se non bastasse, molti
capitoli di spesa sviscerati da Cottarelli vengono beatamente snobbati o
considerati dei talismani intoccabili (si pensi al dossier sui costi della
politica, stranamente tenuto ben nascosto in un cassetto).
La gestione della spesa pubblica
invece dovrebbe meritare un’attenzione particolare in quanto è da lì che deve
partire la crescita dell’Italia. Gran parte degli opinionisti dei principali
quotidiani internazionali diffonde il teorema che le nazioni mediterranee
abbiano una spesa pubblica abnorme, fuori controllo e colpevole di aver portato
il debito pubblico a livelli esorbitanti, con la recessione che n’è seguita. La
conclusione che ne traggono è che lo Stato nell’economia può solo essere un
intralcio per lo sviluppo dell’iniziativa privata, può essere solo foriero di
corruzione e incompetenza. Si auspica quindi che lo Stato si faccia da parte
lasciando che il mercato proliferi e si sviluppi senza eccessive regole e
pedanterie da parte dei governi.
Un po’ di verità, inutile
nasconderci dietro un dito, esiste: la legislazione italiana sembra studiata
apposta per impedire ad un imprenditore onesto di poter competere e ottenere
profitto senza rubare e senza scendere a patti con il mondo della politica. Lo
Stato appare sempre più spesso come un lupo affamato, pronto a fare carne da
macello verso chiunque occupi il suo territorio: il giurista Sabino Cassese ha
stimato che in Italia siano presenti 150mila leggi pronte a regolare (quasi)
ogni aspetto della nostra esistenza contro le 10mila di Germania e Francia; se
vuoi aprire una bottega devi adempiere 118 procedure, e se sei riuscito ad
aprirla devi perdere 269 ore annue per pagare una lunga sequela di tasse che
arrivano a divorare il 65,8% dei profitti (e guai a sbagliare: ci si può
ritrovare con i beni sequestrati e un tasso d’interesse spesso calcolato in
modo sbagliato). E guai a incappare in qualche guaio: se vuoi recuperare un
credito devi attendere la giustizia italiana qualcosa come 1210 giorni. E guai
a fare credito verso lo Stato: bisogna penare mediamente 450 giorni per vedersi
ritornati i propri soldi. Tutto ciò avviene mentre lo stesso Stato si impegna a
mantenere municipalizzate, fondazioni e aziende pubbliche la cui esistenza troppo spesso serve soltanto per piazzare parenti e amici della classe
dirigente nazionale.
Stanti questi presupposti, dicevamo,
molti economisti ed opinionisti ritengono che la cosa migliore sia ridurre la
spesa pubblica, ridurre la presenza dello Stato nell’economia in modo da
ridurre il debito pubblico e lasciare che l’imprenditoria sia libera di
confrontarsi con il mercato. Ci si concentra spasmodicamente sul debito
ricordando che l’Italia (dati di febbraio forniti da Eurostat, espressi in milioni) ha la bellezza
di 2.068.722 di euro di debito pubblico, ma nessuno ricorda che la più efficiente
economia del nostro continente, quella tedesca, ha un debito pubblico (sempre in milioni) di
2.126.832 euro.
Evidentemente non è la quota di
debito quella che fa dell’Italia un Paese disastrato, quanto il rapporto
debito/Pil che in Germania è del 78,4% mentre in Italia sfiora il 133%. Di
conseguenza, non è il debito troppo alto, ma è il Pil troppo basso il fattore
che non fa crescere l’Italia. E per far aumentare il Pil tagliare la spesa
pubblica senza fare nuovi investimenti è (ci si arriva anche con la logica) la
ricetta più nefasta. Questa crisi ha dimostrato inequivocabilmente il
fallimento di questa ricetta: mentre l’Europa fautrice di tagli alla spesa è
ancora immersa nella palude della crisi economica, gli Stati Uniti (culla della
stessa crisi) nel 2013 hanno visto un +4,1% del Pil e i profitti delle imprese
sono i più alti dal dopoguerra. In che modo si sono ottenuti questi risultati
lo ha spiegato bene Federico Rampini: «Il presidente ottenne dal Congresso
(quando ancora aveva la maggioranza assoluta) una corposa manovra di
investimenti pubblici anti-recessione. Lasciò che il rapporto deficit/Pil salisse
quasi al 12%, il triplo del limite massimo consentito nell’eurozona». Insomma,
per rispondere all’opprimente crisi economica (crisi economica scaturita dal
settore privato, e non dal settore pubblico come talvolta si vorrebbe far
credere) si è deciso di spendere di più e con razionalità.
Investire massicciamente
nell’istruzione, in ricerca e sviluppo, nelle tecnologie emergenti dove gli
investitori privati non hanno né la voglia né il senso del rischio per
investire significa dare vita a una crescita sana, robusta e duratura. Quasi
tutte le tecnologie che ora assicurano miliardi di introiti alle aziende
private (Internet, il touch screen, il Gps, gli algoritmi dei motori di
ricerca, l’applicazione Siri, ma anche le principali scoperte del settore farmaceutico
e le più importanti intuizioni nel settore delle energie pulite) esistono quasi
esclusivamente grazie a consistenti finanziamenti pubblici erogati negli anni
trascorsi.
Non è quindi la quota di debito
pubblico a rendere un’economia pubblica competitiva e in crescita, quanto il
modo in cui spende i suoi quattrini. L’Italia, ad esempio (secondo il Times
Higher Education), ha 4,10 ricercatori ogni mille lavoratori mentre la Germania ne ha 7,74 e la Francia 8,87, senza
contare l’abissale differenza di trattamento economico. Solo una coincidenza?
Guardate il grafico qua sotto (riprodotto nel volume «Lo stato innovatore» di
Mariana Mazzucato)
È un caso che le economie più
floride siano quelle che spendono più denaro pubblico in ricerca e sviluppo
mentre quelle più tartassate siano quelle che fanno meno finanziamenti di
questo tipo?
Occorre uno Stato che inizi a
investire nei settori rischiosi, innovativi, ma tali da garantire nel corso
degli anni un notevole guadagno per tutti e una notevole competitività internazionale,
favorendo nel contempo un settore privato onesto e non eccessivamente divorato
da tasse e burocrazia.
Insomma, è necessaria una
notevole, coraggiosa ed impegnativa revisione del rapporto tra lo Stato
italiano e l’economia di mercato, anche a costo di produrre del debito (del
resto, quale successo economico della storia mondiale è avvenuto senza
contrarre del debito?). Un progetto che, in un Paese amministrato seriamente, renderebbe
insonni i governanti.
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