Avete idea di cosa siano 529
miliardi di euro? Personalmente ammetto di fare non poca fatica per
immaginarli. Sono un capitale immenso, equivalente all’incirca all’ammontare
delle ultime venti manovre economiche che si sono avvicendate in Italia negli
ultimi dodici anni. I governi ogni anno passano l’estate a lambiccarsi il
cervello per cifre come tre o quattro miliardi (questo era il valore dell’Imu
sulla prima casa che rischiava di mandare in malora il governo Letta) e fingono
di non accorgersi di questo succulento malloppo. Una forma di masochismo?
Assolutamente no: andare a scalfire i 529 miliardi di euro di economia sommersa
in Italia significa irrimediabilmente perdere una quota molto consistente di
elettorato. È stato l’Eurispes, all’interno di uno studio intitolato «L’Italia
in nero» uscito nel 2012, a
fornire questa sbalorditiva cifra, la quale, se scorporata, rivela che 280
miliardi di euro provengono dal lavoro nero, 156 miliardi dalle imprese e 93
miliardi dall’economia informale. 529 miliardi di euro significa qualcosa come
il 30% del Pil: in Gran Bretagna l’economia sommersa non supera il 6,7%, negli
Stati Uniti il 5,3%, in Francia il 3,9%, in Norvegia addirittura lo 0,3%.
Questa foresta enorme di denaro
rubato alla collettività cresce e prospera grazie a un concime che in Italia pare
non conoscere limiti: il contante. L’Italia è una repubblica fondata sulla
banconota. Secondo la Guardia
di Finanza in questo momento stanno svolazzando in giro per la penisola
qualcosa come 15 miliardi di banconote, per un valore totale di 870 miliardi. La Banca d’Italia nel novembre
2012 pubblicò uno studio intitolato «Il costo sociale degli strumenti di
pagamento» in cui si stimava che nel nostro paese l’82,7% delle transazioni
vede l’utilizzo del denaro liquido, contro una media europea del 66,6%. Un
amore dai caratteri quasi illogici quello che ha l’Italia verso la banconota
sonante: secondo la Bce
il 31% dei compratori utilizza i contanti anche per pagamenti che riguardano
somme tra i 200 e i 1000 euro, mentre (secondo un rapporto Ipsos del giugno
2012) per le somme sotto i 100 euro l’uso del contante rappresenta praticamente
la normalità (la percentuale qui è del 93% per la fascia 50-100 euro e del 98%
per la fascia 0-50 euro).
Va da sé che l’utilizzo delle
carte di pagamento sia una pratica quasi marginale nel nostro paese: secondo
Bankitalia, mentre in Europa l’utilizzo delle carte coinvolge mediamente il
13,2% delle transazioni, l’Italia è ferma al 6,4%. Ancora: secondo i dati
dell’Istituto per la competitività riferiti all’anno 2011, mentre in Italia
sono stati effettuati pagamenti con carte di credito o debito per l’ammontare
di 122 miliardi (l’8% del Pil), la nostra dirimpettaia Francia ha visto un
ammontare di 393 miliardi (il 19,6% del Pil) e la Gran Bretagna di 578 miliardi
(il 33,1% del Pil). Oppure ancora: la Guardia di Finanza ha stimato che nel 2011 ogni
cittadino italiano ha effettuato mediamente 68 operazioni senza contante, con
una media dell’area euro a quota 182, con la Francia a quota 255, la Gran Bretagna a quota 257 e
l’Olanda addirittura sopra le 300.
Una pratica, quella del pagamento
con carta, talmente sporadica da ripercuotersi naturalmente anche sul numero di
carte in circolazione: secondo Datamonitor in Italia ci sono 1,2 carte per
abitante contro una media Ue di 1,5 (in Gran Bretagna la media è di 2,4). Numeri
che nel corso degli anni vanno progressivamente peggiorando: tra il 2011 e il
2012 il numero di carte presenti nel portafoglio degli italiani è passato da 29.805.000 a 28.473.000.
Di queste, secondo l’Abi, 13,5 milioni non vengono mai adoperate. La carta in
Italia serve quasi esclusivamente per il prelievo (che nel 2012 è ammontato a
160 miliardi), poco o nulla per i pagamenti (le operazioni sui Pos non superano
i 73 miliardi).
Come se non bastasse, se a un
cittadino venisse la brillante idea di pagare il più possibile con la carta, si
ritroverebbe in forti difficoltà: secondo Bankitalia il Pos, ossia l’aggeggio
presente nei negozi che consente il pagamento con carta, è presente soltanto
nel 31% delle imprese di servizi italiane (la media europea è del 44%), una
percentuale che scende a picco (sfiorando il 10%) quando si tratta di attività
professionali, immobiliari, sanitarie e assistenziali.
Eppure mantenere i contanti ha un
costo troppe volte trascurato: la banconota bisogna produrla, metterla in
sicurezza e custodirla. Operazioni annose che ogni anno mangiano lo 0,52% del
Pil nostrano (contro una media Ue dello 0,46%), il che significa che dalle
casse dello Stato si allontanano inutilmente, secondo un rapporto 2011 di
Capgemini, 10 miliardi di euro. Una vera passione, quella per il contante. Una
passione che, a guardar meglio, conosce una sua logica tipicamente italiana.
Secondo il tributarista Ernesto Ruffini, l’incidenza delle frodi sui pagamenti
tracciabili è dello 0,016%.
Basta questo numero per rendersi
conto del reale motivo che spinge la popolazione a boicottare le carte di
credito, e basta questo numero per capire il reale motivo che spinge la
politica italiana a non fissare dei limiti stringenti all’uso del contante.
Secondo l’Istituto per la competitività, se ogni italiano riducesse di soli 15
euro i prelievi effettuati col Bancomat, ci sarebbe una diminuzione
dell’economia sommersa tale da garantire allo Stato un maggiore gettito di 9,8
miliardi. Se venissero messe in circolo dieci milioni di carte in più, il sommerso totale subirebbe
una diminuzione tale da garantire al fisco 5 miliardi di euro. L’Ufficio
analisi economiche dell’Abi va addirittura oltre, asserendo che un aumento del
10% delle famiglie dotate di carta farebbe emergere 10 miliardi, che
diventerebbero 40 miliardi (dieci volte l’Imu sulla prima casa) se tutte le
famiglie fossero dotate di tessera di pagamento. Come ha giustamente notato
l’economista del Centro Europa Ricerche Carlo Milani in un articolo su
«lavoce.info», «Grecia e Italia sono i paesi europei che mostrano i prelievi di
contanti di importo medio più elevato (rispettivamente 250 e 175 euro) e
contestualmente hanno la più alta incidenza dell’economia sommersa sul Pil».
Eppure qualcosa sembra muoversi,
molto lentamente: nell’èra dell’austerity forzata e delle inflessibili regole
di bilancio, continuare a portarsi appresso un fardello come l’economia
sommersa ha iniziato a far smuovere le coscienze finora impassibili della
classe politica. Da pochi mesi, quindi, si è deciso di fare un piccolissimo
passo dichiarando obbligatoria la presenza dei Pos nei negozi, obbligatoria per
modo di dire visto che non sono previste sanzioni di alcun tipo se l’esercente
viene beccato sprovvisto del meccanismo. Nonostante ciò, è bastato questo
minuscolo provvedimento per sollevare l’ira popolare. Uno sdegno apparentemente
bizzarro: chi compra adoperando la carta non perde tempo nel prelievo, non
corre il rischio di essere rapinato e, mettendosi d’accordo con la propria
banca, l’esborso può essere sostenuto materialmente in un altro momento con
zero interessi. Questo per quanto riguarda il cliente. Per quanto riguarda il
commerciante il pagamento con carta è ancora più conveniente: maggiori vendite
(il cliente può acquistare anche se non ha banconote in tasca), maggiori
risparmi sulla gestione del contante e garanzia della banca del pagamento
effettuato.
Il giornalista Stefano
Livadiotti, all’interno del formidabile volume «Ladri», spiega inoltre: «I
conti dicono che il valore aggiunto derivante dall’uso delle carte è pari al
7,8% della somma delle transazioni effettuate con questo strumento. Mentre il
costo complessivo si ferma al 3,4%. Insomma, il negoziante (o il ristoratore o
il parrucchiere) ha tutto da guadagnarci. Come spiega un sofisticato studio dei
ricercatori di Ignazio Visco, basato su un’indagine svolta tra gli stessi
esercenti, essere pagato in contanti è solo apparentemente un vantaggio
(evasione a parte) per chi vende, con un costo di 0,18 euro a transazione
contro gli 0,37 del Bancomat. Se infatti si va a calcolare il costo in
percentuale sul valore della transazione, la situazione si inverte: il contante
costa l’1,07 e il Bancomat lo 0,54, cioè la metà. E questo perché, con i soldi
liquidi, al crescere dell’importo i costi di gestione aumentano più che
proporzionalmente, mentre per le carte a pesare di più sono i costi fissi. In
conclusione: secondo valutazioni molto attendibili, dai 20 euro in su al
commerciante che ci tiene a essere in regola con il fisco il Bancomat conviene
(e ci rimette pochissimo, mezzo punto, con la carta di credito). E infatti è
lui a finanziare con la quota maggiore il sistema che deve garantire la
remunerazione delle due banche che intervengono nel business: la sua (che
trattiene la commissione, la cosiddetta Merchant Service Charge, composta in
genere da una cifra fissa e da una percentuale sull’importo della transazione)
e quella del compratore, che si fa girare dalla prima una parte della
commissione stessa (la Multilateral
Intercharge Fee), per aver dato la sua garanzia sull’importo
dovuto all’acquirente».
Nonostante ciò, gli esercenti
continuano imperterriti a indignarsi, a battere i pugni e a voler imporre le
loro ragioni. Se basta così poco per scatenare la rabbia, figuriamoci che
pandemonio susciterebbero le misure adottate una decina d’anni fa in Corea del
Sud: nel paese orientale, ai commercianti che dimostravano di aver incassato
tramite Pos veniva garantito un ribasso dell’Iva del 2%. Inoltre, è stato
fissato un tetto al contante di qualcosa come 42 dollari e, infine, è stato
concesso un forte sconto fiscale ai titolari di carta che conservavano la
ricevuta. Il risultato? In sei anni il gettito fiscale dei pagamenti tracciati
è passato dal 30 al 62%. Ci è voluto poco allora e ci vorrebbe poco anche
nell’Italia di oggi. Basta avere coraggio e andare dritti fino in fondo, anche
a costo di perdere il voto degli autonomi.
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