Dichiararsi riformisti significa
a rigor di logica chiedere degli interventi strutturali in grado di sconvolgere
gli assetti costituiti e di rendere fruibile un autentico cambio di rotta
rispetto alle direzioni intraprese sinora dalle classi dirigenti. Chi, in
Italia, non se la sentirebbe di condividere un approccio simile? Quale persona
ritiene che, stanti così le cose, tutto sia perfettamente in regola? Tutti
invocano a gran voce il cambiamento, e «riforme» è la formula magica che da
praticamente quarant’anni traduce nel linguaggio amministrativo questa spinta
unanime.
Matteo Renzi è probabilmente il
personaggio politico che più di tutti ha fatto dell’esigenza delle «riforme»,
in questo fortemente incoraggiato dall’esigenza di «riforme strutturali»
richiesta ad ogni piè sospinto dalle istituzioni economiche sovranazionali, la
propria cifra propagandistica e l’inappellabile giustificazione verso ogni
scelta governativa. Le riforme sono divenute in questi ultimi anni un’indiscutibile
mantra, che va oltre ogni scelta politica ed ogni legittimazione di consenso
fino ad arrivare al punto che nell’estate scorsa il numero uno della Bce Mario
Draghi era arrivato a proporre una momentanea cessione di sovranità popolare
apposta per portare a termine questo processo legislativo. Perché non ci sono
alibi che tengano, le riforme vanno fatte. Il che è vero, ma il fatto stesso
che l’invocazione delle riforme veda d’accordo ogni categoria sociale, dal
finanziere al pensionato, dal gelataio al grande imprenditore, significa che in
realtà la parola «riforme» è arrivata a significare un po’ di tutto, come una
massa liquida che finisce per adattarsi ad ogni contenitore in cui viene posta.
Insomma, un vocabolo dotato di una fumogena inconsistenza buona per tutte le
stagioni e, di conseguenza, perfettamente consono alla vacua e accomodante
comunicazione politica del renzismo.
Galleggiando in balia delle onde
e sospinta dai flutti delle più disparate istanze sociali, la battaglia del
riformismo ha finito però per assumere sempre di più un significato preciso,
totalmente snaturato rispetto alla sua accezione originaria: l’esigenza delle
riforme, infatti, si è trasformata nella bandiera della più retriva e caparbia
perpetuazione delle politiche globali perseguite con costanza e coscienza da
fin troppi decenni a questa parte. Una parola scippata al suo utopistico
significato di cambiamento e redistribuzione per divenire al contrario il
simbolo dell’iniquità rincorsa semplicemente con mezzi più rapidi. Chi, specie
negli organi d’informazione, con maggior convinzione insiste sulle «riforme» e
sul «cambiamento» non ha in testa un rinnegamento delle scelte governative
fatte finora, al contrario le valorizza lamentandosi semplicemente che la dose
di medicinale non è stata abbastanza corposa a causa di quei maledetti orpelli,
di quegli odiosi «lacci e lacciuoli» (un simpatico vezzeggiativo rivolto ai
corpi intermedi, specie il Parlamento e i sindacati i quali, pur non esenti da
responsabilità, vengono additati dai riformisti come la causa di tutti i guai
del mondo) che secondo tale retorica impediscono, e magari lo facessero con
effettiva efficacia!, un reale rinnovamento del Paese.
Il sentiero luminoso indicato dai
sedicenti riformisti si concretizza in nient’altro che nella concentrazione
della ricchezza, frutto e obbiettivo massimo di un’economia fondata sulle più
scellerate e contorte operazioni finanziarie: nella bramosia di ottenere
rendimenti annui non inferiori al 20% (alcuni fondi specializzati nella
gestione dei patrimoni privati promettono rendimenti minimi addirittura del
30%) a fronte di una crescita mondiale annua che non supera mai il 5%, i grandi
operatori finanziari possono solo condurre due operazioni: «1) Una
redistribuzione a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante
manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione,
privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale; 2) La
crescita del capitale in forza di un rendimento più elevato è soltanto
un’espressione monetaria nominale. In questo caso essa corrisponde a una
inflazione dei titoli finanziari, a una bolla» (da K.-H. Brodbeck, «Die Globale
Herrschaft der Finanzmärkte», pag.219). È soprattutto il raggiungimento del
primo aspetto quello che si sono prefissate le istituzioni pubbliche, tutte
sedicenti riformiste, negli ultimi decenni. Sotto l’ipnosi abilmente manipolata
delle indifferibili esigenze riformiste, si è provveduto di conseguenza ad una
sistematica spoliazione dei beni pubblici, riducendo lo Stato a nulla più di un
«regolatore» inginocchiato dinnanzi ai desiderata della grande finanza. E dato
che le riforme sono oggettive e prescindono da ogni considerazione politica,
non ci si sorprenda se ad inaugurare la stagione riformista in Italia sia stato
un governo tecnico, quello Amato-Ciampi, e sia proseguita senza intoppi lungo
tutti gli esecutivi successivi, sia quelli di destra che quelli di sinistra,
divisi nel soddisfacimento delle richieste corporative dei propri gruppi di
riferimento ma assolutamente complementari nel disegno anti-egualitario
tracciato dai sempre più ingombranti padroni della finanza globale. L’esigenza
riformista di un’istituzione scolastica finalizzata esclusivamente alla
formazione di competenze specialistiche in un’ottica meramente aziendale partì
col pacchetto Berlinguer del periodo dell’Ulivo per venir poi seguita dai
ministri berlusconiani Moratti e Gelmini. L’esigenza riformista di un mercato
del lavoro il più possibile sregolato viene propugnato da seguaci di Marco
Biagi che pullulano in ogni schieramento politico. L’esigenza riformista di una
legge elettorale illiberale portò ad un Porcellum redatto dal centrodestra sul
modello del sistema elettorale regionale della Toscana monopolizzata dal
centrosinistra. L’esigenza riformista della proprietà intellettuale, dettata
dagli accordi Trips, venne calorosamente accolta da tutto l’arco parlamentare. L’esigenza
riformista delle privatizzazioni è proseguita senza tentennamenti in tutto
l’arco dell’ultimo ventennio. L’esigenza riformista di smantellare la garanzia
pubblica di una pensione adeguata venne ideata all’inizio degli anni Novanta
dagli ambienti contigui al centrosinistra per venir poi pedissequamente
completata dai successivi governi. E si potrebbe continuare a lungo, attraverso
anche i più diversi versanti come la gestione inumana degli immigrati (iniziata
con la legge Turco-Napolitano del centrosinistra e proseguita con la legge
Bossi-Fini del centrodestra) o l’intralcio verso la lotta alla corruzione e alla
criminalità.
In fin dei conti, si può dire che
i vari governi tecnici, di larghe intese e di strette intese (che culmineranno
nel «partito della Nazione» sognato da Renzi?) susseguitisi dal 2011 hanno
quantomeno posto alla luce del sole la quasi totale convergenza di vedute tra i
due principali schieramenti politici al potere in Italia dagli anni Novanta.
Una convergenza attuata in nome di riforme il cui stampo neoliberale non viene
nemmeno più messo in discussione: anche attualmente il più ascoltato leader
della minoranza dem, Pierluigi Bersani, nel rispondere all’accusa renziana di
pigrizia riformista replica snocciolando l’elenco di liberalizzazioni il cui
chiaro scopo era quello di sottrarre al controllo giuridico pubblico un ricco
arcipelago di professioni.
Anche a livello istituzionale il
riformismo, checché ne blateri la retorica renzista, gode di una sua storia,
fra l’altro nemmeno troppo disonorevole se paragonata agli sfaceli del
riformismo economico. A dispetto della logica delle «riforme mai fatte»,
basterebbe rammentare che nel 1988 vennero emanate prima una legge sulla
Presidenza del Consiglio e poi una norma che de facto aboliva il voto segreto, nel
1990 ebbe luogo una revisione dei poteri locali, nel 1991 si svolse il
referendum che sancì la fine della preferenza plurima, nel 1993 un altro
verdetto popolare lasciò il sistema proporzionale alle spalle e dichiarò
illegittimo il finanziamento pubblico ai partiti, sempre nel 1993 venne emanata
la legge elettorale marcatamente maggioritaria per gli organi di governo
amministrativo, nel 2001 arrivò la riforma costituzionale del Titolo V
finalizzata all’inseguimento del federalismo, nel 2005 fu la volta dell’approvazione
del Porcellum corredato da una corposa riforma della Carta rigettata senza
tentennamenti dal referendum confermativo dell’anno successivo. Sorprende come
lo stesso Renzi paia dimenticare inoltre uno strumento a suo modo
rivoluzionario nella dialettica politica a cui il giovane premier deve gran
parte delle sue fortune: l’adozione delle elezioni primarie nel centrosinistra,
anch’esso fondamentale passo in avanti nell’«aggiornamento» della pratica
politica.
Fuor di dubbio che, sia a livello
economico che a livello istituzionale, di un’autentica spinta riformista c’è un
bisogno sempre più impellente. Una spinta in grado di rigettare le ricette
imposte con cieca (ma interessata) determinatezza negli ultimi decenni al fine
di perseguire l’obbiettivo di un Paese più giusto, più democratico e più equo. Nulla
a che vedere, insomma, col riformismo cialtrone e raffazzonato di un esecutivo il
cui ossessivo inseguimento del consenso impedisce un’analisi acuta e una linea
programmatica autenticamente dirompente.
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