La carica, ancora una volta, è
stata suonata: le trombe renziste squillano con pomposo fragore per protestare
che la corsa forsennata della legge elettorale sta perdendo ritmo. Occorre
accelerare, senza concedere inutili momenti di condivisione e riflessione né al
partito (o a ciò che ne resta), né al frastornato Paese, che rispetto alla
segreteria di tal partito si è ritrovata in una condizione di spropositata
dipendenza.
L’instancabile auriga, a suon di
nerbate ai «cavalli» che siedono in Parlamento (e con particolare predilezione
per i «cavalli» del Pd), ha tutta l’intenzione di continuare la sua corsa
all’impazzata senza disturbi e possibilmente senza lamentele da parte di chi su
quel cocchio ci sta seduto, ossia i cittadini italiani. La «governabilità», da
nobile principio sicuramente meritevole di riflessioni, si è trasformata
irrimediabilmente in una parola d’ordine finalizzata esclusivamente a togliere
ogni orpello all’auriga, specie se le rimostranze provengono dalla cittadinanza.
Che l’ordinamento giuridico e la Costituzione necessitassero di un ridisegno
organico in grado di renderli più consoni ad una decisionalità conforme ai
desiderata dei cittadini è un’operazione non più rinviabile, ma non si può non rimanere
quantomeno perplessi osservando come questa primaria esigenza si vada
configurando in un guazzabuglio eterogeneo, composto da spizzichi confusionari e indubbiamente dominato da una superficialità con rari eguali. La paura di una «svolta autoritaria»
probabilmente sopporta un’eccessiva enfasi, ma non ci si sorprenda troppo se un
caos di poteri sia quanto di meno ci si possa aspettare dal momento della piena
operatività di queste riforme: lasciando intatto l’oblio sulla regolamentazione
dei partiti politici, con un Senato de facto esautorato da una forte
limitazione dei poteri e dalla presenza di un’indigesta macedonia di
consiglieri regionali, sindaci e nominati dal Capo dello Stato e, vero punto
dolente, da una legge elettorale che affida la Camera dei deputati al quasi
monopolio di una pattuglia di luogotenenti asserviti ai volubili desideri del
leader della forza politica con maggiori voti (ma nemmeno troppi) e senza
andare minimamente a toccare i poteri o, perché no, la stessa legittimità
popolare dei contrappesi dell’esecutivo (dal Presidente della Repubblica ad una
Corte Costituzionale i cui componenti verranno scelti, con criteri facilmente
intuibili, dall’unico partito di maggioranza) la delusione e il senso di
frustrazione è il meno che ci si possa aspettare da chiunque affronti l’argomento
con una qualche cognizione di causa.
Lo scopo sfacciato della legge
elettorale cosiddetta Italicum, nome ben azzeccato considerata l’unicità di una
proposta di tal risma nel panorama internazionale delle democrazie
parlamentari, è quello di garantire un’assoluta governabilità a tutto scapito
della volontà popolare la quale, in un periodo di cocente disaffezione verso la
politica, andrebbe al contrario ampiamente potenziata legalizzando con precisi
vincoli la positiva ventata di freschezza portata dall’adozione delle primarie
e garantendole almeno un briciolo di scelta dei parlamentari con l’introduzione
di collegi uninominali o, al limite, con l’introduzione della preferenza unica.
Con un unicum i cui unici precedenti, sia storici che mondiali, sono la legge
Acerbo (redatta dal regime fascista) e la legge Calderoli (ferocemente mutilata
dalla Corte Costituzionale), ci troviamo al cospetto di una legge proporzionale
drogata da un premio di maggioranza alla forza politica che abbia raggiunto
almeno il 40% delle preferenze valide. Al confronto, la celebre quanto
contestatissima dalle sinistre «legge truffa» di degasperiana memoria era un
capolavoro di democrazia, dato che garantiva comunque la presenza di
maggioranze multipartitiche spalmando il premio di maggioranza a tutte le
formazioni che facevano parte della coalizione vincente (nemmeno la Dc nei suoi
maggiori picchi elettorali si sognò mai di avvalersi di una maggioranza parlamentare
composta da un unico partito, e del resto non è un caso se anche nel panorama
delle democrazie mondiali attualmente solo la Spagna si avvale di un’unica
formazione a sostegno dell’esecutivo). In caso di mancato raggiungimento del
quorum, si procede con il ballottaggio: una delle sporadiche note positive di
un testo, sebbene è opportuno segnalare che se fosse garantita almeno la
possibilità di apparentamenti a cavallo tra il primo e il secondo turno con
suddivisione del premio a tutte le liste fautrici dell’apparentamento la
situazione sarebbe notevolmente più accettabile.
In barba a quanto approvato senza
tentennamenti dall’Assemblea Nazionale del Pd, il doppio turno di collegio
(validissimo sistema autenticamente maggioritario) ha finito così per lasciare
il posto, per lungo periodo sotto il pretesto di un’intangibile patto con
Berlusconi che nascondeva in realtà un’intima convinzione da parte di Renzi, ad
un pasticciatissimo doppio turno di lista (originariamente di coalizione, ma il
concetto non cambia).
L’introduzione di collegi
uninominali, auspicata inizialmente dallo stesso Renzi in un’intervista al
«Messaggero» del 25/04/2012, avrebbe non solo reso ancor più appropriata la
pratica del doppio turno (che non a caso viene quasi sempre adoperata quando si
tratta di eleggere personalità singole, emblematico in tal senso il caso dei
sindaci) ma avrebbe garantito un’effettiva vicinanza del candidato parlamentare
agli elettori del proprio collegio, favorendo in occasione della campagna
elettorale un salutare confronto con i cittadini, facendo almeno comunicare
paure ed esigenze che un capolista bloccato, come prevede l’Italicum, non ha
nemmeno volendo alcuna possibilità, causa ignoranza, di far valere a livello
parlamentare. Il rischio concreto è quello di ritrovarci con una ciurma di
deputati la cui unica preoccupazione sia quella di mantenere il seggio più a
lungo possibile, seguendo in tal modo pedissequamente i diktat, e le bizze, del
segretario del partito a cui va a spettare la totale discrezione in materia di
ricandidature sotto forma il più delle volte, lo si può scommettere, di nomina
a capolista paracadutato in qualche collegio di cui il candidato non conosce
nemmeno la collocazione geografica (per essere ancora più sicuri della
candidatura, è prevista nientemeno che la squallida possibilità da parte di una
singola persona di venir candidata in addirittura dieci collegi
contemporaneamente).
Vero, per gli altri
quattro-cinque parlamentari del collegio i cittadini elettori godono della
possibilità di esprimere una preferenza o al massimo due, a patto, in
quest’ultimo caso, che i candidati prescelti abbiano sesso differente (il che
può dar luogo a «cordate» fra coppie di candidature, come puntualmente
verificatosi nelle «parlamentarie» del Pd svoltesi nel 2012); ma non si può
tacere del fatto che tale possibilità varrà esclusivamente per i partiti in
grado di portare alla Camera più di 120 parlamentari, con la conseguenza che è
altamente probabile lo scenario costituito dal fatto che soltanto un quinto dei
deputati verrà eletto dai cittadini.
A discapito di quanto fin troppo
spesso si è nascosto, un obbrobrio simile non ha mancato di sollevare le
preoccupazioni del Presidente della Repubblica Napolitano il quale, nel luglio
scorso, utilizzando il consueto linguaggio prudenziale che lo contraddistingue
non ha mancato comunque di suggerire che il testo dell’Italicum venga
«ridiscusso con la massima attenzione per criteri ispiratori e verifiche di
costituzionalità che possono indurre a concordare significative modifiche». Un
fondato auspicio destinato, ahimè, a rimanere sulla carta in nome di
pretestuosi ricorsi alla «governabilità» (ottenibile anche senza compromettere
la democrazia: migliorando la gestione interna alle maggioranze, oppure
importando ad esempio l’ottima pratica di matrice tedesca della «sfiducia
costruttiva» tale per cui il governo può venir fatto cadere soltanto se esiste
una maggioranza parlamentare alternativa) o all’esigenza del «bipolarismo»
(ottenibile ancor meglio tramite il ricorso obbligato al ballottaggio).
Cucire una legge elettorale
conforme ai contingenti desideri del Pd (non a caso definito «partito della
Nazione»), al fine di garantire a quest’ultimo un’indiscutibile maggioranza, di
ridurre l’opposizione ad un pulviscolo inconsistente di formazioni secondarie
e, soprattutto, di forgiare un sistema istituzionale imperniato totalmente sul
premier può essere soltanto deleterio per la già vacillante qualità democratica
del nostro sciagurato Paese. Molto più coerente e molto più ponderato, a questo
punto, sarebbe garantire al Capo dello Stato una legittimità democratica
tramite l’instaurarsi di un sistema semipresidenziale di stampo francese.
Democrazia e governabilità verrebbero conciliate senza scossoni e senza il
prevalere della seconda sulla prima.
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