mercoledì 1 aprile 2015

Un pasticcio chiamato Italicum



La carica, ancora una volta, è stata suonata: le trombe renziste squillano con pomposo fragore per protestare che la corsa forsennata della legge elettorale sta perdendo ritmo. Occorre accelerare, senza concedere inutili momenti di condivisione e riflessione né al partito (o a ciò che ne resta), né al frastornato Paese, che rispetto alla segreteria di tal partito si è ritrovata in una condizione di spropositata dipendenza.
L’instancabile auriga, a suon di nerbate ai «cavalli» che siedono in Parlamento (e con particolare predilezione per i «cavalli» del Pd), ha tutta l’intenzione di continuare la sua corsa all’impazzata senza disturbi e possibilmente senza lamentele da parte di chi su quel cocchio ci sta seduto, ossia i cittadini italiani. La «governabilità», da nobile principio sicuramente meritevole di riflessioni, si è trasformata irrimediabilmente in una parola d’ordine finalizzata esclusivamente a togliere ogni orpello all’auriga, specie se le rimostranze provengono dalla cittadinanza. Che l’ordinamento giuridico e la Costituzione necessitassero di un ridisegno organico in grado di renderli più consoni ad una decisionalità conforme ai desiderata dei cittadini è un’operazione non più rinviabile, ma non si può non rimanere quantomeno perplessi osservando come questa primaria esigenza si vada configurando in un guazzabuglio eterogeneo, composto da spizzichi confusionari e indubbiamente dominato da una superficialità con rari eguali. La paura di una «svolta autoritaria» probabilmente sopporta un’eccessiva enfasi, ma non ci si sorprenda troppo se un caos di poteri sia quanto di meno ci si possa aspettare dal momento della piena operatività di queste riforme: lasciando intatto l’oblio sulla regolamentazione dei partiti politici, con un Senato de facto esautorato da una forte limitazione dei poteri e dalla presenza di un’indigesta macedonia di consiglieri regionali, sindaci e nominati dal Capo dello Stato e, vero punto dolente, da una legge elettorale che affida la Camera dei deputati al quasi monopolio di una pattuglia di luogotenenti asserviti ai volubili desideri del leader della forza politica con maggiori voti (ma nemmeno troppi) e senza andare minimamente a toccare i poteri o, perché no, la stessa legittimità popolare dei contrappesi dell’esecutivo (dal Presidente della Repubblica ad una Corte Costituzionale i cui componenti verranno scelti, con criteri facilmente intuibili, dall’unico partito di maggioranza) la delusione e il senso di frustrazione è il meno che ci si possa aspettare da chiunque affronti l’argomento con una qualche cognizione di causa.
Lo scopo sfacciato della legge elettorale cosiddetta Italicum, nome ben azzeccato considerata l’unicità di una proposta di tal risma nel panorama internazionale delle democrazie parlamentari, è quello di garantire un’assoluta governabilità a tutto scapito della volontà popolare la quale, in un periodo di cocente disaffezione verso la politica, andrebbe al contrario ampiamente potenziata legalizzando con precisi vincoli la positiva ventata di freschezza portata dall’adozione delle primarie e garantendole almeno un briciolo di scelta dei parlamentari con l’introduzione di collegi uninominali o, al limite, con l’introduzione della preferenza unica. Con un unicum i cui unici precedenti, sia storici che mondiali, sono la legge Acerbo (redatta dal regime fascista) e la legge Calderoli (ferocemente mutilata dalla Corte Costituzionale), ci troviamo al cospetto di una legge proporzionale drogata da un premio di maggioranza alla forza politica che abbia raggiunto almeno il 40% delle preferenze valide. Al confronto, la celebre quanto contestatissima dalle sinistre «legge truffa» di degasperiana memoria era un capolavoro di democrazia, dato che garantiva comunque la presenza di maggioranze multipartitiche spalmando il premio di maggioranza a tutte le formazioni che facevano parte della coalizione vincente (nemmeno la Dc nei suoi maggiori picchi elettorali si sognò mai di avvalersi di una maggioranza parlamentare composta da un unico partito, e del resto non è un caso se anche nel panorama delle democrazie mondiali attualmente solo la Spagna si avvale di un’unica formazione a sostegno dell’esecutivo). In caso di mancato raggiungimento del quorum, si procede con il ballottaggio: una delle sporadiche note positive di un testo, sebbene è opportuno segnalare che se fosse garantita almeno la possibilità di apparentamenti a cavallo tra il primo e il secondo turno con suddivisione del premio a tutte le liste fautrici dell’apparentamento la situazione sarebbe notevolmente più accettabile.
In barba a quanto approvato senza tentennamenti dall’Assemblea Nazionale del Pd, il doppio turno di collegio (validissimo sistema autenticamente maggioritario) ha finito così per lasciare il posto, per lungo periodo sotto il pretesto di un’intangibile patto con Berlusconi che nascondeva in realtà un’intima convinzione da parte di Renzi, ad un pasticciatissimo doppio turno di lista (originariamente di coalizione, ma il concetto non cambia).
L’introduzione di collegi uninominali, auspicata inizialmente dallo stesso Renzi in un’intervista al «Messaggero» del 25/04/2012, avrebbe non solo reso ancor più appropriata la pratica del doppio turno (che non a caso viene quasi sempre adoperata quando si tratta di eleggere personalità singole, emblematico in tal senso il caso dei sindaci) ma avrebbe garantito un’effettiva vicinanza del candidato parlamentare agli elettori del proprio collegio, favorendo in occasione della campagna elettorale un salutare confronto con i cittadini, facendo almeno comunicare paure ed esigenze che un capolista bloccato, come prevede l’Italicum, non ha nemmeno volendo alcuna possibilità, causa ignoranza, di far valere a livello parlamentare. Il rischio concreto è quello di ritrovarci con una ciurma di deputati la cui unica preoccupazione sia quella di mantenere il seggio più a lungo possibile, seguendo in tal modo pedissequamente i diktat, e le bizze, del segretario del partito a cui va a spettare la totale discrezione in materia di ricandidature sotto forma il più delle volte, lo si può scommettere, di nomina a capolista paracadutato in qualche collegio di cui il candidato non conosce nemmeno la collocazione geografica (per essere ancora più sicuri della candidatura, è prevista nientemeno che la squallida possibilità da parte di una singola persona di venir candidata in addirittura dieci collegi contemporaneamente).
Vero, per gli altri quattro-cinque parlamentari del collegio i cittadini elettori godono della possibilità di esprimere una preferenza o al massimo due, a patto, in quest’ultimo caso, che i candidati prescelti abbiano sesso differente (il che può dar luogo a «cordate» fra coppie di candidature, come puntualmente verificatosi nelle «parlamentarie» del Pd svoltesi nel 2012); ma non si può tacere del fatto che tale possibilità varrà esclusivamente per i partiti in grado di portare alla Camera più di 120 parlamentari, con la conseguenza che è altamente probabile lo scenario costituito dal fatto che soltanto un quinto dei deputati verrà eletto dai cittadini.
A discapito di quanto fin troppo spesso si è nascosto, un obbrobrio simile non ha mancato di sollevare le preoccupazioni del Presidente della Repubblica Napolitano il quale, nel luglio scorso, utilizzando il consueto linguaggio prudenziale che lo contraddistingue non ha mancato comunque di suggerire che il testo dell’Italicum venga «ridiscusso con la massima attenzione per criteri ispiratori e verifiche di costituzionalità che possono indurre a concordare significative modifiche». Un fondato auspicio destinato, ahimè, a rimanere sulla carta in nome di pretestuosi ricorsi alla «governabilità» (ottenibile anche senza compromettere la democrazia: migliorando la gestione interna alle maggioranze, oppure importando ad esempio l’ottima pratica di matrice tedesca della «sfiducia costruttiva» tale per cui il governo può venir fatto cadere soltanto se esiste una maggioranza parlamentare alternativa) o all’esigenza del «bipolarismo» (ottenibile ancor meglio tramite il ricorso obbligato al ballottaggio).
Cucire una legge elettorale conforme ai contingenti desideri del Pd (non a caso definito «partito della Nazione»), al fine di garantire a quest’ultimo un’indiscutibile maggioranza, di ridurre l’opposizione ad un pulviscolo inconsistente di formazioni secondarie e, soprattutto, di forgiare un sistema istituzionale imperniato totalmente sul premier può essere soltanto deleterio per la già vacillante qualità democratica del nostro sciagurato Paese. Molto più coerente e molto più ponderato, a questo punto, sarebbe garantire al Capo dello Stato una legittimità democratica tramite l’instaurarsi di un sistema semipresidenziale di stampo francese. Democrazia e governabilità verrebbero conciliate senza scossoni e senza il prevalere della seconda sulla prima.

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