giovedì 30 aprile 2015

Italia anno zero



L’antipolitica va marciando spavaldamente in trionfo su un Paese distrutto a cui è bastata solo una spinta per ridurlo in un grumo informe di macerie. 
Polverizzato il Parlamento, espressione della volontà popolare, prepotentemente occupato dalle sagaci truppe di un potere esecutivo che ha solo di che guadagnarci dallo spettacolo di una ciurma di parlamentari troppo pigri, o troppo ingordi, per opporsi all’invasione con ferma recalcitranza.
Nebulizzati i partiti politici, e con essi la partecipazione della cittadinanza alla vita istituzionale, in una sorta di eutanasia fondata sulla scintillante illusione che la rappresentanza possa fornire una delega totalmente in bianco alla rappresentazione (più tragica che comica) condotta da un capo-popolo repellente ad ogni spessore morale ed intellettuale.
Carbonizzata la condivisione pubblica, immolata nella funzione di un rito religioso monoteista, ove il Mercato (ufficiosamente tradotto nelle grandi imprese finanziarie) diventa oggetto d’irremovibile venerazione; un dio insaziabile a cui il dogma neoliberale impone di sacrificare tutto, riducendo ogni relazione ed ogni aspetto della vita umana (dal lavoro alla bellezza artistica, dalla biosfera all’istruzione) ad un effimero scambio monetario.
A questo fetido vortice antipolitico abbiamo affidato la distruzione di tutto ciò che fosse attinente ad una logica di valori, ad una tradizione storica o, più semplicemente, ad una deliberazione che prendesse spunto dai bisogni dell’uomo.
Da un lato la «competitività», la «meritocrazia», l’«equilibrio del bilancio pubblico» e «la crescita del Pil» hanno fornito la seducente (ma truffaldina) giustificazione ideologica, dall’altro la leadership populista ha fornito il consenso dell’elettorato ed ecco che ha potuto concretizzarsi senza ostacolo alcuno un’autorità assoluta monopolizzata da quell’eterogeneo circuito di abnormi società finanziarie e da grandi banche commerciali preposte ormai non solo al classico deposito e prestito, ma anche all’emissione di titoli, alla gestione del patrimonio, alle assicurazioni, ai piani di fusione e acquisizioni di altre società (talvolta industriali), ai piani pensionistici e via discorrendo il cui unico obbiettivo è la crescente remunerazione degli azionisti.
La democrazia rimane per lo più un hobby che inizia e finisce nell’illusione che porre saltuariamente una croce sul simbolo più gradito all’elettore possa scaturire in un’attività di governo veramente alternativa rispetto a quella in auge («le misure di aggiustamento finanziario», ha assicurato Draghi un paio d’anni fa, procedono in ogni caso «col pilota automatico»). Al fine di chiarire ancor di più l’ineluttabilità delle «riforme» provvedono per ora i trattati, i vincoli, gli articoli e le cavillosità redatte dall’Unione Europea, coadiuvati talvolta dai brutali scossoni degli interessi sul debito pubblico che facendo balenare il tangibile rischio del fallimento spronano ancor di più verso l’esproprio della partecipazione popolare.
Ma ciò che sta avvenendo in Italia in questi giorni va oltre, arrivando alla forzosa imposizione di un pesante stravolgimento degli assetti istituzionali (come in effetti richiesto espressamente dalla JP Morgan, si legga «The Euro Area Adjustment: about Halfway there», Europe Economic Research, 28 maggio 2013), compiuto a suon di prepotenze, minacce ed epurazioni. Il tutto in nome di un ricorso semantico alla «governabilità» che cela dietro il suo ridicolo paravento l’esigenza di ridurre gli spazi democratici mediante una serie di congetture che vedono l’apoteosi nella perpetuazione del «premio di maggioranza», marchingegno elettorale finalizzato fin dal nome all’alterazione del, già di per sé soltanto formale, verdetto elettorale (il cui riferimento alla «maggioranza», fra l’altro, suona quasi beffardo). Insomma, il già flebile alito della democrazia sugli organi decisionali si cerca con ogni mezzo a disposizione di soffocarlo al fine di rendere pienamente divincolata e agibile la messa in opera della totale concentrazione della ricchezza nelle poche mani degli oligarchi globali.
In questo paesaggio di macerie, sotto il peso dei cingolati è finita anche l’autentica opposizione a questo sistema, un’opposizione bizzarramente incapace di coagularsi e di tradursi in una concreta unità programmatica. Ma forse, se questa sfacciata eclissi di ogni rappresentanza popolare può avere un pregio, è proprio quello di rendere non più rinviabile la scelta del campo su cui compiere la propria battaglia.
Più il disegno neoliberale assume contorni precisi, più la cittadinanza (anche quella più apatica) sarà costretta ad assumere una posizione, senza possibilità alcuna di scappatoie o tentennamenti.
Un processo non inedito nella storia, che le celebrazioni del 25 aprile contribuiscono a riproporre nella memoria collettiva e ben riassunto dalla conclusione, solo a prima vista paradossale, di Jean-Paul Sartre: «Mai siamo stati tanto liberi come sotto l’occupazione tedesca» («La Repubblica del silenzio», in «La Resistenza nella letteratura francese», a cura di W. Mauro, pag.247).
«Non si poteva sottrarre a questa comune atmosfera il timore, che tutti in qualche modo dovevamo essere complici o perseguitati» scrive, sempre ricordando i giorni della scelta resistenziale, il partigiano Roberto Battaglia (da R. Battaglia, «Un Uomo», pagg.48-49), lo stesso che qualche pagina prima (pag.20) aveva anche espresso la sensazione di essersi sentito per la prima volta «con le spalle al muro», rendendo palpabile pur a tanti anni di distanza la gravosità di una scelta così determinante. Una scelta che, una volta compiuta pur sapendo dei pericolosi rischi a cui si andava incontro, per il suo valore sia sociale sia di formazione personale procurava un’inaspettata «gioia sfrenata» (da R. Battaglia, «Un Uomo», pag.50), una sensazione singolarmente diffusa lungo i molti racconti dell’esperienza resistenziale: Ada Gobetti nel «Diario Partigiano» (pag.258 e pag.57) parla di «un’infanzia nuova, libera e avventurosa» (di «giorni beati» e «nuova infanzia» aveva parlato anche Battaglia) evocando «attimi di serenità più perfetta- appagamento, completezza armonia» e lasciandosi pervadere talvolta da uno «zampillo di gioia improvviso». Antonio Bellina, pur costretto successivamente ad una deportazione in lager, ricordò: «Si andava su in montagna così…sembrava una cosa così allegra, per dire» (da «La vita offesa», a cura di Bravo e Jalla, pag.84). Un altro partigiano, tal De Gaudio, rimembrò «momenti felici- e furono i più belli della mia vita» (relazione sui fatti attorno alla Liberazione di Firenze, Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Anpi Firenze). Un altro resistente, nome di battaglia «Stella», ancora decenni dopo ammetteva di sentire «la nostalgia di quei momenti quasi spensierati» (relazione finale del commissario politico della divisione Garibaldi Ponente, Isrt, Cvl, «Comando militare toscano»). Di analogo tenore le esperienze femminili: «Per me è stato il periodo più bello della vita…Si rischiava la morte, però talmente c’era la gioia di vivere! Delle volte io leggo che i compagni erano tetri. Non è vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici, perché sapevamo che facevamo una cosa molto importante» (da «La Resistenza taciuta», a cura di Bruzzone e Farina, pagg.44, 81-82, 85).
Cosa dobbiamo ancora attendere, noi italiani di oggi, per riscoprire questa piacevole gioia di condivisione e battaglia sociale?

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