L’antipolitica va marciando
spavaldamente in trionfo su un Paese distrutto a cui è bastata solo una spinta
per ridurlo in un grumo informe di macerie.
Polverizzato il Parlamento,
espressione della volontà popolare, prepotentemente occupato dalle sagaci truppe
di un potere esecutivo che ha solo di che guadagnarci dallo spettacolo di una
ciurma di parlamentari troppo pigri, o troppo ingordi, per opporsi all’invasione
con ferma recalcitranza.
Nebulizzati i partiti politici, e
con essi la partecipazione della cittadinanza alla vita istituzionale, in una
sorta di eutanasia fondata sulla scintillante illusione che la rappresentanza
possa fornire una delega totalmente in bianco alla rappresentazione (più
tragica che comica) condotta da un capo-popolo repellente ad ogni spessore
morale ed intellettuale.
Carbonizzata la condivisione
pubblica, immolata nella funzione di un rito religioso monoteista, ove il
Mercato (ufficiosamente tradotto nelle grandi imprese finanziarie) diventa
oggetto d’irremovibile venerazione; un dio insaziabile a cui il dogma
neoliberale impone di sacrificare tutto, riducendo ogni relazione ed ogni
aspetto della vita umana (dal lavoro alla bellezza artistica, dalla biosfera
all’istruzione) ad un effimero scambio monetario.
A questo fetido vortice
antipolitico abbiamo affidato la distruzione di tutto ciò che fosse attinente
ad una logica di valori, ad una tradizione storica o, più semplicemente, ad una
deliberazione che prendesse spunto dai bisogni dell’uomo.
Da un lato la «competitività», la
«meritocrazia», l’«equilibrio del bilancio pubblico» e «la crescita del Pil»
hanno fornito la seducente (ma truffaldina) giustificazione ideologica, dall’altro
la leadership populista ha fornito il consenso dell’elettorato ed ecco che ha
potuto concretizzarsi senza ostacolo alcuno un’autorità assoluta monopolizzata
da quell’eterogeneo circuito di abnormi società finanziarie e da grandi banche
commerciali preposte ormai non solo al classico deposito e prestito, ma anche
all’emissione di titoli, alla gestione del patrimonio, alle assicurazioni, ai
piani di fusione e acquisizioni di altre società (talvolta industriali), ai
piani pensionistici e via discorrendo il cui unico obbiettivo è la crescente
remunerazione degli azionisti.
La democrazia rimane per lo più
un hobby che inizia e finisce nell’illusione che porre saltuariamente una croce
sul simbolo più gradito all’elettore possa scaturire in un’attività di governo
veramente alternativa rispetto a quella in auge («le misure di aggiustamento
finanziario», ha assicurato Draghi un paio d’anni fa, procedono in ogni caso «col
pilota automatico»). Al fine di chiarire ancor di più l’ineluttabilità delle «riforme»
provvedono per ora i trattati, i vincoli, gli articoli e le cavillosità redatte
dall’Unione Europea, coadiuvati talvolta dai brutali scossoni degli interessi
sul debito pubblico che facendo balenare il tangibile rischio del fallimento
spronano ancor di più verso l’esproprio della partecipazione popolare.
Ma ciò che sta avvenendo in
Italia in questi giorni va oltre, arrivando alla forzosa imposizione di un
pesante stravolgimento degli assetti istituzionali (come in effetti richiesto
espressamente dalla JP Morgan, si legga «The Euro Area Adjustment: about
Halfway there», Europe Economic Research, 28 maggio 2013), compiuto a suon di
prepotenze, minacce ed epurazioni. Il tutto in nome di un ricorso semantico
alla «governabilità» che cela dietro il suo ridicolo paravento l’esigenza di
ridurre gli spazi democratici mediante una serie di congetture che vedono l’apoteosi
nella perpetuazione del «premio di maggioranza», marchingegno elettorale
finalizzato fin dal nome all’alterazione del, già di per sé soltanto formale,
verdetto elettorale (il cui riferimento alla «maggioranza», fra l’altro, suona
quasi beffardo). Insomma, il già flebile alito della democrazia sugli organi
decisionali si cerca con ogni mezzo a disposizione di soffocarlo al fine di
rendere pienamente divincolata e agibile la messa in opera della totale
concentrazione della ricchezza nelle poche mani degli oligarchi globali.
In questo paesaggio di macerie,
sotto il peso dei cingolati è finita anche l’autentica opposizione a questo
sistema, un’opposizione bizzarramente incapace di coagularsi e di tradursi in
una concreta unità programmatica. Ma forse, se questa sfacciata eclissi di ogni
rappresentanza popolare può avere un pregio, è proprio quello di rendere non
più rinviabile la scelta del campo su cui compiere la propria battaglia.
Più il disegno neoliberale assume
contorni precisi, più la cittadinanza (anche quella più apatica) sarà costretta
ad assumere una posizione, senza possibilità alcuna di scappatoie o
tentennamenti.
Un processo non inedito nella
storia, che le celebrazioni del 25 aprile contribuiscono a riproporre nella
memoria collettiva e ben riassunto dalla conclusione, solo a prima vista
paradossale, di Jean-Paul Sartre: «Mai siamo stati tanto liberi come sotto l’occupazione
tedesca» («La Repubblica del silenzio», in «La Resistenza nella letteratura
francese», a cura di W. Mauro, pag.247).
«Non si poteva sottrarre a questa
comune atmosfera il timore, che tutti in qualche modo dovevamo essere complici
o perseguitati» scrive, sempre ricordando i giorni della scelta resistenziale,
il partigiano Roberto Battaglia (da R. Battaglia, «Un Uomo», pagg.48-49), lo
stesso che qualche pagina prima (pag.20) aveva anche espresso la sensazione di
essersi sentito per la prima volta «con le spalle al muro», rendendo palpabile
pur a tanti anni di distanza la gravosità di una scelta così determinante. Una
scelta che, una volta compiuta pur sapendo dei pericolosi rischi a cui si
andava incontro, per il suo valore sia sociale sia di formazione personale
procurava un’inaspettata «gioia sfrenata» (da R. Battaglia, «Un Uomo», pag.50),
una sensazione singolarmente diffusa lungo i molti racconti dell’esperienza
resistenziale: Ada Gobetti nel «Diario Partigiano» (pag.258 e pag.57) parla di «un’infanzia
nuova, libera e avventurosa» (di «giorni beati» e «nuova infanzia» aveva
parlato anche Battaglia) evocando «attimi di serenità più perfetta-
appagamento, completezza armonia» e lasciandosi pervadere talvolta da uno «zampillo
di gioia improvviso». Antonio Bellina, pur costretto successivamente ad una
deportazione in lager, ricordò: «Si andava su in montagna così…sembrava una
cosa così allegra, per dire» (da «La vita offesa», a cura di Bravo e Jalla,
pag.84). Un altro partigiano, tal De Gaudio, rimembrò «momenti felici- e furono
i più belli della mia vita» (relazione sui fatti attorno alla Liberazione di
Firenze, Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Anpi Firenze). Un altro
resistente, nome di battaglia «Stella», ancora decenni dopo ammetteva di
sentire «la nostalgia di quei momenti quasi spensierati» (relazione finale del
commissario politico della divisione Garibaldi Ponente, Isrt, Cvl, «Comando
militare toscano»). Di analogo tenore le esperienze femminili: «Per me è stato
il periodo più bello della vita…Si rischiava la morte, però talmente c’era la
gioia di vivere! Delle volte io leggo che i compagni erano tetri. Non è vero.
Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici, perché sapevamo che facevamo una
cosa molto importante» (da «La Resistenza taciuta», a cura di Bruzzone e
Farina, pagg.44, 81-82, 85).
Cosa dobbiamo ancora attendere,
noi italiani di oggi, per riscoprire questa piacevole gioia di condivisione e
battaglia sociale?
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