venerdì 10 aprile 2015

Voce del verbo reprimere



Da qualche giorno abbiamo scoperto di vivere in un Paese non solo di santi, poeti o navigatori. Tra i vari attributi che contribuiscono all’unicità della nostra essenza nazionale c’è anche quella di torturatori. Impuniti, per giunta.
La constatazione che non ci troviamo al cospetto di una dote innata o del frutto di una casuale coincidenza di eventi non dev’essere motivo di sollievo, dal momento che a renderci torturatori è stata una precisa scelta politica, o meglio, come fin troppe volte abbiamo assistito a livello globale nell’ultimo quarantennio, una non-scelta politica. In piena consapevolezza e ponderazione, infatti, le classi politiche hanno scelto di non affrontare in prima persona i conflitti sociali che naturalmente (e fortunatamente, oserei dire) emergono di quando in quando in ogni società democratica, cercando al contrario di sopprimerli in ogni modo o tramite precisi dispositivi di legge, oppure attraverso una semplice delega in bianco ai propri apparati di sicurezza, in certe circostanze lasciati completamente soli ad affrontare situazioni di profonda connotazione politica. Soli, e di conseguenza con la possibilità di non dover rendere conto a nessuno delle proprie azioni. Una situazione comprensibilmente dotata di enormi potenzialità esplosive, al punto tale che in taluni casi sono stati gli stessi organi militari a far notare la pericolosità di una delega simile: un esempio su tutti la lettera spedita al Capo di Stato maggiore della difesa e al Comandante della Brigata alpina taurinense il 26 luglio 2011 da parte di un gruppo di ufficiali, sottufficiali e alpini in congedo domiciliati nella Val Susa. Di fronte al dispiego massiccio di forze militari, parliamo di centocinquanta alpini, spediti nella valle col fine di rendere possibile con ogni mezzo la realizzazione dei lavori per la contestatissima linea ferroviaria, sono stati questi cittadini a segnalare dapprima l’allarmante fatto che «la popolazione locale ha percepito da subito la presenza delle Truppe Alpine a difesa di un’opera che vede la contrarietà della stragrande maggioranza dei valligiani come una vera e propria occupazione militare della propria terra», per poi sottolineare come sia da considerarsi «inconcepibile che l’Esercito venga utilizzato per regolare questioni che la politica ha originato e poi, per via della sua incapacità, non riesce più a controllare». Il nocciolo della questione è tutto qui: una politica che rifugge al proprio ruolo di mediazione e confronto con le istanze dei cittadini preferendo una comoda sudditanza verso gli interessi di quei pochissimi in cui si trova concentrata una fetta scandalosamente consistente di ricchezza globale e lasciando che ogni sussulto, che ogni anelito di reazione popolare venga semplicemente soffocato con ogni mezzo a disposizione, spesso lasciando che il lavoro sporco venga compiuto da forze dell’ordine e organi militari. In questo contesto si riesce a spiegare l’orrendo pestaggio, una stima assai riduttiva parla di 560 ricoverati, compiuto dalle forze dell’ordine nel luglio 2001 all’interno sia delle strutture scolastiche Diaz e Pertini (adibite momentaneamente a dormitori per manifestanti) sia della caserma di Bolzaneto. Le vittime sono loro, i manifestanti, meritevoli di contusioni, ferite e fratture per il solo fatto di opporsi alle politiche globali condotte dai membri del G8 in riunione a Genova (il conduttore Emilio Fede, dai microfoni del Tg4 di quei giorni lo diceva senza mezzi termini: «Quelli che stanno protestando sono drogati, pezzenti, bande di delinquenti che dovrebbero essere arrestati e tenuti in galera a vita»).
Un evento, quello di Genova, da un lato frutto di un terreno che si andava dissodando e preparando con cura da almeno una decina d’anni («in tutte le democrazie, gli anni Novanta hanno visto la creazione, e l’uso nel corso di proteste politiche e sociali, di squadre speciali dotate di nuove armi, costituite per il controllo di altri problemi di ordine pubblico o anche di criminalità organizzata», D. della Porta e H. Reiter su «Questione Giustizia», n.4/2006, pag.717) ma dall’altro embrione di un modo sempre più spietato di affrontare le proteste sociali, amplificatosi notevolmente con il protrarsi della crisi economica. Dalla Val Susa, emblema obbligatorio in tema di tensioni sociali, dove con particolare accanimento il Pd, per bocca del parlamentare Stefano Esposito, già all’inizio del 2011 invocava a gran voce che il punto dello scavo del tunnel geognostico della Tav presso la Maddalena di Chiomonte venisse definito «sito d’interesse strategico o militare» con tanto di presidio dell’Esercito in assetto di guerra (seguito dal presidente di Regione, il leghista Cota, che nel marzo 2012 asserì che «se le cose non si sistemano serve l’Esercito»), alla Campania violentata dal nauseabondo traffico di rifiuti. Dinnanzi alle veementi proteste seguite alla decisione di risolvere l’atroce problema aprendo nuovi inceneritori e nuove discariche, il governo Berlusconi diede il via ad una raffica di disposizioni legislative, contenute nel decreto legge 23 maggio 2008 n.90, finalizzate appositamente a sedare l’indignazione (i commi 4 e 5 dell’art.2 del testo recitano, con preoccupante vaghezza di contenuti: «I siti, le sedi degli uffici [!] e gli impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono aree di interesse strategico nazionale…fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale ovvero impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale»).
Con l’acuirsi della crisi e i gravi scontri avvenuti a Roma nell’ottobre 2011, si assiste ad un nuovo rigurgito di proposte liberticide (caso esemplare il ministro degli Interni Maroni il quale, appoggiato dal suo partito, propone da un lato di concedere il permesso di manifestare solo a fronte del pagamento di una quota, e dall’altro di estendere il DASPO anche alle manifestazioni politiche), che trova sconcertante concretezza nell’ordinanza del sindaco di Roma Alemanno di vietare i cortei nella città per un intero mese e di subordinare le manifestazioni alle esigenze del traffico. Tempo pochi giorni e il 20 ottobre un’ordinanza prefettizia, in vista di una nuova manifestazione No Tav, non solo vieta per due giorni la «circolazione di persone e mezzi» in buona parte del territorio dei Comuni valsusini di Chiomonte e Giaglione, ma impedisce «l’accesso a chiunque a tutti i sentieri ed alle aree prative e silvestri» dei suddetti Comuni (ordinanza preceduta, per la verità, da una ricca sequela di ordinanze prefettizie che già dall’estate 2011 impedivano «fino al venir meno delle preminenti esigenze di ordine pubblico, l’ingresso e lo stazionamento di persone, mezzi e cose estranei allo svolgimento delle previste attività connesse con l’apertura del cantiere», disposizioni prolungate per lungo periodo). A chiarire ancora meglio il concetto, il primo gennaio 2012 entra in vigore una nuova legge che estende i divieti già predisposti per le discariche campane anche al cantiere Tav della Maddalena di Chiomonte. Dulcis in fundo, il 3 aprile 2012 l’Ansa dirama un comunicato in cui si comunica l’avvio dell’esame «in commissione Giustizia della Camera di un testo che prevede l’arresto da uno a cinque anni per chiunque “impedisca od ostacoli la libera circolazione di persone e merci, occupando strade ferrate, ordinarie o autostrade, con qualsiasi mezzo, impedendo la libera circolazione dei mezzi di trasporto”. Il testo, relatore Manlio Contento (Pdl), primo firmatario Giancarlo Lehner (Pdl), prevede la stessa pena anche per i blocchi a scuole e università».
A quest’opera di smantellamento dei diritti alla protesta concorre lo Stato in ogni sua emanazione: non solo il governo e il Parlamento tramite l’approvazione di nuovi dispositivi di legge, ma anche la magistratura. A discapito del buon senso e addirittura di precise normative (ad esempio il decreto luogotenenziale 14 settembre 1944, n.288, prevede la non punibilità per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale in presenza di «reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale che abbia agito eccedendo i limiti delle sue attribuzioni»), l’apparato giudiziario ha provveduto ad una sistematica demonizzazione nei confronti della stessa espressione politica. Anche in tal senso, il caso della Val Susa fornisce un ottimo esempio: gli arresti indiscriminati del gennaio 2012, in cui vennero mescolate senza discernimento persone accusate di «avere afferrato per un braccio un operatore di polizia» e persone colpevoli di «avere lanciato contro gli operatori di polizia pietre, estintori, oggetti contundenti, etc.» testimoniano che a finire sotto accusa non è (come sarebbe corretto) il singolo cittadino responsabile di vandalismi e violenze, ma la partecipazione stessa alla manifestazione. Lo dice chiaramente il magistrato quando spavaldamente afferma che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano». Difficile non notare una singolare ferocia nell’applicare questi teoremi. Una ferocia che contraddistingue ad esempio anche le ordinanze del tribunale del riesame (in cui viene definito il trattamento cautelare applicato ad alcuni indagati come «il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le suddette consistenti ed impellenti esigenze cautelari» e dove il solo utilizzo di farmaci per proteggersi dagli attacchi della polizia viene considerato «elemento fortemente indiziante la preordinazione e il perseguimento di un unico, comune, obiettivo violento»), oppure le condanne che il Gup di Roma ha inflitto a tre ragazzi coinvolti nella manifestazione dell’ottobre 2011 (la più lieve corrisponde a quattro anni di carcere, l’equivalente dei casi di stupro e rapina), oppure il sempre più consueto utilizzo di fattispecie penali quali la «devastazione e saccheggio» (che condanna almeno a otto anni di carcere) in luogo di altri reati più appropriati come il «danneggiamento aggravato» (la cui condanna non supera i tre anni).
Non è difficile concludere come sia questa costante dichiarazione di guerra da parte degli organi statali ad inasprire ancor di più le frange più fanatiche dei movimenti di protesta, le quali, al contrario, da questa situazione hanno solo di che guadagnare dato che (come sottolineato da M. Bascetta sul «manifesto» proprio in riferimento ai fatti di Genova) «confondere nella categoria generale della violenza una vetrina sfasciata con un omicidio, un bastone con un’arma da fuoco, un temperino con una scimitarra, o anche un agente di polizia con un aguzzino della Gestapo, finirà inevitabilmente col favorire la serie delle scelte più estreme ed efferate».
La conclusione più appropriata di questo intervento (a cui gli scritti del magistrato Livio Pepino hanno offerto un insostituibile ausilio) la offre forse il passaggio di un libro di J.M. Coetzee, «Aspettando i barbari»: «Sono loro il nemico che devo temere? È questo che mi sta dicendo? Lei è il nemico, colonnello. Lei ha cominciato la guerra, lei ha dato loro tutti i martiri di cui avevano bisogno».

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