Da qualche giorno abbiamo
scoperto di vivere in un Paese non solo di santi, poeti o navigatori. Tra i
vari attributi che contribuiscono all’unicità della nostra essenza nazionale
c’è anche quella di torturatori. Impuniti, per giunta.
La constatazione che non ci
troviamo al cospetto di una dote innata o del frutto di una casuale coincidenza
di eventi non dev’essere motivo di sollievo, dal momento che a renderci
torturatori è stata una precisa scelta politica, o meglio, come fin troppe
volte abbiamo assistito a livello globale nell’ultimo quarantennio, una
non-scelta politica. In piena consapevolezza e ponderazione, infatti, le classi
politiche hanno scelto di non affrontare in prima persona i conflitti sociali
che naturalmente (e fortunatamente, oserei dire) emergono di quando in quando
in ogni società democratica, cercando al contrario di sopprimerli in ogni modo o
tramite precisi dispositivi di legge, oppure attraverso una semplice delega in
bianco ai propri apparati di sicurezza, in certe circostanze lasciati
completamente soli ad affrontare situazioni di profonda connotazione politica.
Soli, e di conseguenza con la possibilità di non dover rendere conto a nessuno
delle proprie azioni. Una situazione comprensibilmente dotata di enormi
potenzialità esplosive, al punto tale che in taluni casi sono stati gli stessi
organi militari a far notare la pericolosità di una delega simile: un esempio
su tutti la lettera spedita al Capo di Stato maggiore della difesa e al
Comandante della Brigata alpina taurinense il 26 luglio 2011 da parte di un
gruppo di ufficiali, sottufficiali e alpini in congedo domiciliati nella Val
Susa. Di fronte al dispiego massiccio di forze militari, parliamo di
centocinquanta alpini, spediti nella valle col fine di rendere possibile con
ogni mezzo la realizzazione dei lavori per la contestatissima linea
ferroviaria, sono stati questi cittadini a segnalare dapprima l’allarmante
fatto che «la popolazione locale ha percepito da subito la presenza delle
Truppe Alpine a difesa di un’opera che vede la contrarietà della stragrande
maggioranza dei valligiani come una vera e propria occupazione militare della
propria terra», per poi sottolineare come sia da considerarsi «inconcepibile
che l’Esercito venga utilizzato per regolare questioni che la politica ha
originato e poi, per via della sua incapacità, non riesce più a controllare».
Il nocciolo della questione è tutto qui: una politica che
rifugge al proprio ruolo di mediazione e confronto con le istanze dei cittadini
preferendo una comoda sudditanza verso gli interessi di quei pochissimi in cui
si trova concentrata una fetta scandalosamente consistente di ricchezza globale
e lasciando che ogni sussulto, che ogni anelito di reazione popolare venga
semplicemente soffocato con ogni mezzo a disposizione, spesso lasciando che il
lavoro sporco venga compiuto da forze dell’ordine e organi militari. In questo
contesto si riesce a spiegare l’orrendo pestaggio, una stima assai riduttiva
parla di 560 ricoverati, compiuto dalle forze dell’ordine nel luglio 2001
all’interno sia delle strutture scolastiche Diaz e Pertini (adibite
momentaneamente a dormitori per manifestanti) sia della caserma di Bolzaneto. Le
vittime sono loro, i manifestanti, meritevoli di contusioni, ferite e fratture
per il solo fatto di opporsi alle politiche globali condotte dai membri del G8
in riunione a Genova (il conduttore Emilio Fede, dai microfoni del Tg4 di quei
giorni lo diceva senza mezzi termini: «Quelli che stanno protestando sono
drogati, pezzenti, bande di delinquenti che dovrebbero essere arrestati e
tenuti in galera a vita»).
Un evento, quello di Genova, da
un lato frutto di un terreno che si andava dissodando e preparando con cura da
almeno una decina d’anni («in tutte le democrazie, gli anni Novanta hanno visto
la creazione, e l’uso nel corso di proteste politiche e sociali, di squadre
speciali dotate di nuove armi, costituite per il controllo di altri problemi di
ordine pubblico o anche di criminalità organizzata», D. della Porta e H. Reiter
su «Questione Giustizia», n.4/2006, pag.717) ma dall’altro embrione di un modo
sempre più spietato di affrontare le proteste sociali, amplificatosi
notevolmente con il protrarsi della crisi economica. Dalla Val Susa, emblema
obbligatorio in tema di tensioni sociali, dove con particolare accanimento il
Pd, per bocca del parlamentare Stefano Esposito, già all’inizio del 2011
invocava a gran voce che il punto dello scavo del tunnel geognostico della Tav
presso la Maddalena di Chiomonte venisse definito «sito d’interesse strategico
o militare» con tanto di presidio dell’Esercito in assetto di guerra (seguito
dal presidente di Regione, il leghista Cota, che nel marzo 2012 asserì che «se
le cose non si sistemano serve l’Esercito»), alla Campania violentata dal
nauseabondo traffico di rifiuti. Dinnanzi alle veementi proteste seguite alla
decisione di risolvere l’atroce problema aprendo nuovi inceneritori e nuove
discariche, il governo Berlusconi diede il via ad una raffica di disposizioni
legislative, contenute nel decreto legge 23 maggio 2008 n.90, finalizzate appositamente a sedare l’indignazione (i commi 4 e 5 dell’art.2 del testo recitano, con
preoccupante vaghezza di contenuti: «I siti, le sedi degli uffici [!] e gli
impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono
aree di interesse strategico nazionale…fatta salva l’ipotesi di più grave
reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico
nazionale ovvero impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle
aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale»).
Con l’acuirsi della crisi e i
gravi scontri avvenuti a Roma nell’ottobre 2011, si assiste ad un nuovo
rigurgito di proposte liberticide (caso esemplare il ministro degli Interni
Maroni il quale, appoggiato dal suo partito, propone da un lato di concedere il
permesso di manifestare solo a fronte del pagamento di una quota, e dall’altro
di estendere il DASPO anche alle manifestazioni politiche), che trova
sconcertante concretezza nell’ordinanza del sindaco di Roma Alemanno di vietare
i cortei nella città per un intero mese e di subordinare le manifestazioni alle
esigenze del traffico. Tempo pochi giorni e il 20 ottobre un’ordinanza
prefettizia, in vista di una nuova manifestazione No Tav, non solo vieta per
due giorni la «circolazione di persone e mezzi» in buona parte del territorio
dei Comuni valsusini di Chiomonte e Giaglione, ma impedisce «l’accesso a
chiunque a tutti i sentieri ed alle aree prative e silvestri» dei suddetti
Comuni (ordinanza preceduta, per la verità, da una ricca sequela di ordinanze
prefettizie che già dall’estate 2011 impedivano «fino al venir meno delle
preminenti esigenze di ordine pubblico, l’ingresso e lo stazionamento di
persone, mezzi e cose estranei allo svolgimento delle previste attività
connesse con l’apertura del cantiere», disposizioni prolungate per lungo
periodo). A chiarire ancora meglio il concetto, il primo gennaio 2012 entra in
vigore una nuova legge che estende i divieti già predisposti per le discariche
campane anche al cantiere Tav della Maddalena di Chiomonte. Dulcis in fundo, il
3 aprile 2012 l’Ansa dirama un comunicato in cui si comunica l’avvio dell’esame
«in commissione Giustizia della Camera di un testo che prevede l’arresto da uno
a cinque anni per chiunque “impedisca od ostacoli la libera circolazione di
persone e merci, occupando strade ferrate, ordinarie o autostrade, con
qualsiasi mezzo, impedendo la libera circolazione dei mezzi di trasporto”. Il
testo, relatore Manlio Contento (Pdl), primo firmatario Giancarlo Lehner (Pdl),
prevede la stessa pena anche per i blocchi a scuole e università».
A quest’opera di smantellamento dei
diritti alla protesta concorre lo Stato in ogni sua emanazione: non solo il
governo e il Parlamento tramite l’approvazione di nuovi dispositivi di legge,
ma anche la magistratura. A discapito del buon senso e addirittura di precise
normative (ad esempio il decreto luogotenenziale 14 settembre 1944, n.288,
prevede la non punibilità per i reati di violenza e resistenza a pubblico
ufficiale in presenza di «reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale che
abbia agito eccedendo i limiti delle sue attribuzioni»), l’apparato giudiziario
ha provveduto ad una sistematica demonizzazione nei confronti della stessa
espressione politica. Anche in tal senso, il caso della Val Susa fornisce un
ottimo esempio: gli arresti indiscriminati del gennaio 2012, in cui vennero
mescolate senza discernimento persone accusate di «avere afferrato per un
braccio un operatore di polizia» e persone colpevoli di «avere lanciato contro
gli operatori di polizia pietre, estintori, oggetti contundenti, etc.»
testimoniano che a finire sotto accusa non è (come sarebbe corretto) il singolo
cittadino responsabile di vandalismi e violenze, ma la partecipazione stessa
alla manifestazione. Lo dice chiaramente il magistrato quando spavaldamente
afferma che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha
raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come
lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i
partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o
anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si
trovavano». Difficile non notare una singolare ferocia nell’applicare questi
teoremi. Una ferocia che contraddistingue ad esempio anche le ordinanze del
tribunale del riesame (in cui viene definito il trattamento cautelare applicato
ad alcuni indagati come «il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo
adeguato le suddette consistenti ed impellenti esigenze cautelari» e dove il
solo utilizzo di farmaci per proteggersi dagli attacchi della polizia viene
considerato «elemento fortemente indiziante la preordinazione e il
perseguimento di un unico, comune, obiettivo violento»), oppure le condanne che
il Gup di Roma ha inflitto a tre ragazzi coinvolti nella manifestazione
dell’ottobre 2011 (la più lieve corrisponde a quattro anni di carcere,
l’equivalente dei casi di stupro e rapina), oppure il sempre più consueto
utilizzo di fattispecie penali quali la «devastazione e saccheggio» (che
condanna almeno a otto anni di carcere) in luogo di altri reati più appropriati
come il «danneggiamento aggravato» (la cui condanna non supera i tre anni).
Non è difficile concludere come
sia questa costante dichiarazione di guerra da parte degli organi statali ad
inasprire ancor di più le frange più fanatiche dei movimenti di protesta, le
quali, al contrario, da questa situazione hanno solo di che guadagnare dato che
(come sottolineato da M. Bascetta sul «manifesto» proprio in riferimento ai
fatti di Genova) «confondere nella categoria generale della violenza una
vetrina sfasciata con un omicidio, un bastone con un’arma da fuoco, un
temperino con una scimitarra, o anche un agente di polizia con un aguzzino
della Gestapo, finirà inevitabilmente col favorire la serie delle scelte più
estreme ed efferate».
La conclusione più appropriata di
questo intervento (a cui gli scritti del magistrato Livio Pepino hanno offerto
un insostituibile ausilio) la offre forse il passaggio di un libro di J.M.
Coetzee, «Aspettando i barbari»: «Sono loro il nemico che devo temere? È questo
che mi sta dicendo? Lei è il nemico, colonnello. Lei ha cominciato la guerra,
lei ha dato loro tutti i martiri di cui avevano bisogno».
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