Sembravano tramontate da almeno
un paio di decenni le voci su generose elargizioni di denaro in partenza dal
Cremlino e dirette a qualche forza politica italiana. Ha fatto ora a crollare
il Muro di Berlino, a salire sulla ribalta internazionale la figura di Putin, a
comparire un’Ucraina in guerra ed ecco ricapitati gli stessi traffici, a metà tra
la geopolitica e l’esigenza di un po’ d’ossigeno per le casse dei partiti, con
la sostanziale differenza del colore esposto sulle bandiere dei destinatari: dal
rosso vermiglio del compagno Secchia al nero goffamente celato di madame Le
Pen. Fino al verde, quello dei padan-nazionalisti (grottesco paradosso) della
Lega Nord che a malincuore si addice pure alla situazione patrimoniale dei suoi
bilanci, più al verde che mai. Un verde tendente, quale blasfemia!, ad un rosso
sempre più marcato se si va a considerare che al momento dell’ascesa di Matteo
Salvini alla segreteria il saldo era di meno 14,5 milioni di euro, risultato
fra gli ultimi eventi (meglio stendere un velo pietoso su diamanti, lingotti,
lauree e forzieri vari) dell’arrembante campagna elettorale di Bobo Maroni per
la presidenza della Regione Lombardia costata, almeno secondo quanto riportato
dal «Fatto Quotidiano», la bellezza di sei milioni.
L’abolizione di ogni
finanziamento pubblico ai partiti sarà pur raffazzonata e ricca di molte controverse
opacità, ma rappresenta una grana non indifferente per le formazioni politiche,
peraltro assai traumatizzante se si ricorda l’aspetto di paradisiaca cascata
che il «rimborso elettorale» alle formazioni politiche ha assunto fino a
qualche mese fa. Complice un referendum, dai tratti peraltro fortemente
demagogici, l’unico modo che le formazioni politiche hanno per disporre di un
budget che sopperisca quantomeno alle più basilari necessità di coordinamento è
quello di girare umilmente con la tazza della questua nella speranza che
qualche facoltosa istituzione si degni di aprire il portafoglio. Attività
tortuosa e inevitabilmente foriera di pesanti mutazioni genetiche: come se già
la situazione attuale non fosse abbastanza scandalosa, ci toccherà assistere al
degradante spettacolo di forze politiche sempre più modellate ad immagine e
somiglianza dell’ente finanziatore, unico depositario della possibilità di
decretare la stessa esistenza della formazione in questione. L’attività di
finanziamento assumerà di conseguenza una rilevanza sempre più ingombrante all’interno
della vita dei partiti, andando anche a decidere le sorti dei suoi programmi e
dei suoi vertici. In realtà non ha senso esprimere queste perplessità guardando
al futuro, visto che il presente della Lega Nord offre di per sé un caso di
scuola per quanto riguarda la prepotenza della disponibilità finanziaria su
ogni altra considerazione politica.
Flavio Tosi, infatti, sindaco di
Verona e da un po’ di tempo volto istituzionale di una Lega ipoteticamente «di
governo» (contro la Lega «di lotta» di Salvini) si è trovato recentemente fuori
dal partito. A Tosi non garbava la linea estremista del segretario, è vero.
Tosi non gradiva che tutte le attività del partito venissero fatte piovere
unilateralmente dalla segreteria milanese, è vero. Ma l’aspetto più
determinante della vicenda è stato tenuto accuratamente nascosto, almeno fino a
quando i giornalisti Paolo Madron e Luigi Bisignani in un volume ancora fresco
di stampa («I potenti al tempo di Renzi», Chiarelettere editore) non hanno
strappato il sipario ampliando lo sguardo e concentrandosi sul vero campo di
battaglia, che non è la casa di Giulietta, che non è la politica nazionale, ma
bensì la ben più vasta tensione strategica tra Europa e Russia, dove quest’ultima
pare disposta a giocare ogni carta pur di veder indebolite le istituzioni
comunitarie. L’asso nella manica è il lauto finanziamento delle forze politiche
anti-europeiste con più possibilità di far tremare i palazzi del potere. Tra
queste la Lega nostrana, specie dopo la svolta profondamente radicale imposta
da Salvini, il quale però si è ritrovato nella scomoda situazione di voler
accaparrarsi una posizione privilegiata nel rapporto con Mosca senza però l’appoggio
di un pezzo da novanta come Antonio Fallico, decisamente più legato a Flavio
Tosi.
Fallico è uno di quei personaggi
tanto sconosciuti quanto indispensabili, specie in periodi ove la politica si è
dimostrata irreparabilmente inetta e incompetente. Fallico ci ha passato
praticamente una vita in Russia, visto che da circa quarant’anni ricopre l’incarico
di plenipotenziario di Banca Intesa in quel paese. Una specie di pioniere,
arrivato fra i primi nel paese sovietico con il preciso proposito di creare una
rete di credito, all’epoca sotto le dipendenze della Banca cattolica del
Veneto, poi risucchiato nel Banco Ambrosiano e poi in Banca Intesa, finendo per
ricoprire l’incarico di presidente della Zao Bank, nonché di console onorario
di Russia (onorificenza ottenuta a seguito della buona riuscita degli affari italo-russi
su Gazprom, di cui Fallico era immancabilmente il rappresentante in Italia),
nonché ex-coordinatore del Comitato italo-russo per il disarmo dei sottomarini,
nonché docente all’Università di Verona. Carriera invidiabile, al punto tale
che oggigiorno praticamente ogni uomo politico intento ad ottenere qualche
contatto con Mosca (anche strategico, anche industriale, anche politico e
finanche religioso dato che in passato ha persino mediato l’incontro tra il
patriarcato ortodosso e l’ordine francescano) deve prima o poi fare i conti con
lui, l’uomo-camaleonte a cui la fede comunista (ha militato per lungo tempo nel
Pci e ancora un paio d’anni fa, intervistato da «Sette-Corriere della Sera»,
non esitava a dichiararsi «comunista convinto») non impedisce una solida
amicizia col conterraneo Marcello Dell’Utri. Amicizia nata sui banchi di scuola
(ambedue sono siciliani), ma coadiuvata probabilmente dai favori che Fallico
elargì nei confronti dell’imprenditore Silvio Berlusconi, quando mosse tutti i
canali a sua disposizione affinché Publitalia, siamo verso la fine degli anni
Ottanta, disponesse della concessionaria esclusiva per la pubblicità di tutte
le imprese europee sugli schermi televisivi statali dell’intera Unione
Sovietica.
Alla luce di questo curriculum,
si può ben capire il dramma che Salvini prova ogniqualvolta deve constatare che
Fallico sta nell’orbita del suo (ex) principale avversario nel partito. Il
segretario ha compreso quanto sia importante portare Fallico sotto le sue
insegne, è ben a conoscenza dei tentativi di questi di accreditare agli occhi
dei vertici russi Flavio Tosi come unico interlocutore leghista col Cremlino,
probabilmente gli è anche giunta voce del fatto che Fallico non esita a
spargere zizzania contro Salvini ed è probabilmente grazie alle influenze del
banchiere plenipotenziario se continua a venir rimandato un bramato prestito da
parte di una banca russa nei confronti del partito.
Queste sono le premesse della
guerra tra Salvini e Tosi. Non è da poco tempo che il segretario, non riuscendo
(almeno per ora) ad accaparrarsi Fallico, tenta in ogni modo di arginare lo
strapotere di quest’ultimo erigendo un alternativo gruppo di pressione nei
confronti della Russia, alla cui testa è stato collocato Gianluca «Gianlu» Savoini,
partito con la lancia in resta nel corso del 2014 con la promozione di un
appello a favore di Putin. Ma procediamo con calma. Savoini non ha nulla in
comune con Fallico, non ne possiede gli agganci, non ne possiede l’esperienza e
non ne condivide per nulla le fedeltà ideologiche: se Fallico è comunista,
Savoini espone orgogliosamente sulla sua scrivania un busto di Benito
Mussolini. Appassionato di storia del nazismo, giunge per la prima volta alle
cronache quando viene nominato capo ufficio stampa della Regione Lombardia
guidata da Maroni. La carriera sembrava definitivamente compromessa quando il
governatore decise di sostituirlo con la più fidata, e più avvenente,
assistente Isabella Votino relegando il povero Savoini dentro una società
vicina alla Regione, Europolis. Fino a quando, appunto, Salvini non gli
conferisce il delicato incarico di creare un cordone ombelicale tra Mosca e via
Bellerio.
Tenere testa a Fallico è impresa
assai ardua, di conseguenza Savoini si fa sostenere da un lato da una ciurma
eterogenea di artigiani e piccoli commercianti succubi della guerra di sanzioni
tra Occidente e Russia (riunitisi a Milano sotto le bandiere della
neo-costituita associazione Lombardia Russia) e dall’altro dall’eurodeputato
veronese Lorenzo Fontana, figura di sempre maggior rilievo nella Lega di Salvini
(gli è sempre a fianco durante i soggiorni all’estero), accanito appassionato dell’Hellas
Verona, della Nutella e di Vittorio Feltri, responsabile del primo incontro tra
il segretario (ancor prima che divenisse tale) e Marine Le Pen ma
particolarmente apprezzato soprattutto per il pronto voltafaccia riservato a
Flavio Tosi, a cui teoricamente era debitore in virtù di una mansione
garantitagli alla Fiera di Verona.
Quest’armata Brancaleone, con
pochi mezzi ma un obbiettivo consistente, ha se non altro concepito il più
formidabile tra gli stratagemmi in grado di attirare l’attenzione del manipolo
di oligarchi russi: una donna, bionda per giunta. Stiamo parlando di Irina
Osipova, laureata in Scienze politiche a Roma, ben inserita nell’ambiente nell’ambasciata
russa in Italia e guida del Rim, movimento di giovani italo russi, il suo nome
sui media è legato per lo più alle dichiarazioni di estasiato fervore putiniano
che rilascia ad ogni giornalista che le capita nei paraggi. Tanto più con l’incarico
delicatissimo affidatole dalla Lega, la sua vita ormai si svolge per metà in
Italia e per metà nei più influenti circoli della capitale russa (arriva
addirittura ad accompagnare gli esponenti della Lega durante i loro viaggi in
Russia e in Crimea).
Salvini-Savoini contro
Tosi-Fallico. Lo scontro è in pieno svolgimento e potrebbe dar luogo ad
insospettabili sbocchi. La posta in palio è bella grossa: innanzitutto l’oro
del Cremlino, succulento boccone, ma anche la conseguente intestazione della
battaglia politica filorussa nel Belpaese.
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