venerdì 27 febbraio 2015

La pericolosa indulgenza verso l'evasione



È difficile trovare argomenti che mettano d’accordo non solo gli eletti delle varie forze politiche, ma anche i loro elettori e molto spesso persino i principali mezzi di comunicazione. L’evasione fiscale è uno di questi: vige una tacita sottovalutazione del problema, lo s’inscrive unicamente come pratica di sopravvivenza, si finge di considerarlo un male minore, lo si scavalca agevolmente smuovendo la sempreverde predica contro i membri del Parlamento («sono loro gli unici a rubare!») e in fin dei conti si finisce per ritenerlo un vezzo di cui giustamente usufruisce chi, a meno che non sia un politico, se lo può permettere.
La soluzione, comunque la si pensi e in qualsiasi versante ci si trovi, è una sola: ridurre le tasse, in modo tale che pagarle diverrebbe una pratica piacevole. «Soltanto una riduzione della pressione fiscale», questo un passaggio dell’editoriale di Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera» del 22 luglio 2012, «può spingere l’evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell’evasione», e tendenzialmente gli italiani la pensano come lui. Ma è davvero così? Alessandro Santoro, docente universitario a Milano Bicocca che vanta tra i suoi trascorsi una consulenza al ministero delle Finanze, in un saggio appositamente intitolato «L’evasione fiscale» arriva ad una conclusione assai diversa: «Il confronto internazionale indica che i paesi dove il livello delle aliquote è da sempre più elevato del nostro sono invece caratterizzati da livelli di evasione molto più ridotti. Ad esempio, secondo i dati riportati in uno studio di qualche anno fa da Alesina e Marè, alla metà degli anni Novanta l’evasione in Norvegia o in Svezia era pari o di poco superiore al 10 per cento del Pil, un livello inferiore alla metà di quello italiano, a fronte di una pressione tributaria ben superiore». Si prosegue con un'affermazione interessante: «L’evasione non sembra un fenomeno recente in Italia: sempre Alesina e Marè ricordano che gli italiani evadevano molto anche quando le aliquote, e la pressione tributaria complessiva, erano ben al di sotto della media europea.» Ed effettivamente si rimane non poco stupiti nel notare come, secondo una ricerca redatta nel 2011 da Contribuenti.it, la Svezia pur godendo di una pressione fiscale monstre del 56,4% conosca un’evasione fiscale che l’Italia se la sogna di notte, ossia del 7,6%.
Evidentemente non è l’ammontare del carico di tasse la causa scatenante dell’insanabile dissapore di una quota non indifferente di cittadini nei riguardi dei propri adempimenti fiscali. La radice del problema va ricercata altrove, e a tal proposito di grande ausilio risulta un rapporto del 2012 redatto dalla Confcommercio, «Una nota sulle determinanti dell’economia sommersa». Adoperando dati della Banca Mondiale del World Economic Forum, vengono presi in esame i quattro fattori ritenuti più determinanti nel diffondersi anomalo dell’evasione fiscale: il rapporto con lo Stato (ossia la percezione che si ha sul modo in cui vengono impiegati i proventi delle tasse), la difficoltà negli adempimenti fiscali (oneri burocratici, repentini cambiamenti di regole, scadenze ballerine etc.), il carico fiscale e la capacità delle amministrazioni (soprattutto giudiziarie) nello sgominare le attività illecite.
Partendo dal primo punto, se la fiducia che gli italiani hanno dello Stato (assai scarsa, visto che siamo al terz’ultimo posto su ventisei e all’ottantesimo posto su 142 nella classifica del Wef) divenisse paragonabile a quella dei belgi risparmieremmo 38 miliardi di euro di sommerso, facendo calare questo tipo di economia al 17,5% del Pil.
Dal punto di vista delle normative fiscali, se queste raggiungessero la fluidità e la chiarezza che contraddistinguono l’amministrazione della Danimarca, il sommerso subirebbe una riduzione tale da farlo arrivare al 13,9% con un risparmio per le casse dello Stato di ben 14 miliardi.
Se il sistema giudiziario possedesse l’efficienza e la rapidità di un paese come gli Stati Uniti, il sommerso non supererebbe il 12,2% con un guadagno per le casse del fisco di 56 miliardi.
Invece, se le aliquote fiscali venissero portate al livello della Spagna, il sommerso raggiungerebbe il 16% del Pil con un incasso per lo Stato di 16 miliardi. Attenzione, però, in tal caso il rapporto avverte che come effetto collaterale «si avrebbe una riduzione cospicua di gettito effettivo, perché la diretta riduzione delle aliquote legali sui contribuenti in regole farebbe calare l’imposta pagata da questi ultimi. E tale riduzione supererebbe il maggior gettito derivante dalla minor imposta evasa».
Dando una rapida scorsa a questi dati balza subito agli occhi come la prima causa dell’evasione sia dovuta alla ben riposta convinzione dell’evasore che, ben lungi dal venir punito, le amministrazioni pubbliche e l’apparato statale sono quasi liete del suo comportamento. È la certezza dell’impunità, è la sicurezza nell’avere le spalle coperte, è la conclusione che nessuno oserà torcergli un capello a convincere un cittadino che ne possiede i mezzi e le possibilità a comportarsi da ladro nei confronti delle casse pubbliche, e tutto ciò condito da un’insopportabile vulgata che punta il dito contro una spesa pubblica ritenuta fonte di spreco e di inutile assistenzialismo.
Del resto, chi propone come priorità assoluta la riduzione delle tasse solitamente esibisce come copertura finanziaria una disinvolta e consistente riduzione della spesa pubblica (individuata il più delle volte nelle nefandezze della politica) senza probabilmente avere ben chiaro che da un lato i margini di spreco della spesa, che ci sono ed è quasi doveroso denunciarli, da soli ammontano a una quota tutto sommato trascurabile in confronto al totale degli esborsi pubblici, e dall’altro lato che in sé la spesa pubblica italiana, se depurata dagli interessi pagati sul debito pubblico, è la più bassa del continente (il 45,2% del Pil contro una media dell’Eurozona del 46,8%) e finisce in gran parte a finanziare pensioni e protezioni sociali che finirebbero senza ombra di dubbio per venir profondamente intaccate se si desiderasse far scendere la pressione fiscale di parecchi punti percentuali. Quel che è peggio, è che probabilmente la fetta d’italiani che desidera morbosamente una cospicua riduzione fiscale come risoluzione a tutti i mali (si combatterebbe l’evasione ma, soprattutto, si farebbe dimagrire uno Stato considerato inopportunamente dispendioso) sa benissimo che una manovra del genere minerebbe probabilmente in maniera irreparabile ogni forma di solidarietà collettiva, facendo venir meno quel concetto di Stato assistenziale che nei cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975) ha reso l’Europa un continente prospero e all’avanguardia.
Al giorno d’oggi, come scrive l’economista Innocenzo Cipolletta, non solo «una parte della popolazione con reddito medio relativamente più elevato si sta progressivamente allontanando da chi è veramente povero», ma la nostra società è finita per diventare «una società “dei due terzi”, nel senso che circa i due terzi della popolazione stanno relativamente bene, possono pensare a se stessi e costituiscono una maggioranza assoluta che rifiuta la solidarietà che potrebbe derivare da un aumento delle tasse e della spesa pubblica». Una maggioranza che «disprezza l’intervento pubblico come fonte di spreco, è rosa dall’invidia nei confronti di chi ha di più e pensa che se fosse liberata da tanti impacci sarebbe in grado di risolvere da sola i suoi problemi, salvo poi lagnarsi in continuazione per il degrado della vita civile, l’abbandono dei beni culturali, la crescente insicurezza e così via» facendo in questo modo un grossissimo regalo ai pezzi grossi del mondo finanziario sovranazionale che dalla privatizzazione dei servizi e dal minor fiato sul collo delle istituzioni pubbliche ha solo di che guadagnarci.
E se provassimo a cambiare la prospettiva? E se non fosse l’eccessivo carico fiscale ad aver prodotto l’evasione fiscale ma fosse stata l’evasione fiscale a provocare l’inaccettabile fardello delle tasse? E se non fosse l’eccessiva presenza dello Stato in sé la causa dei nostri mali ma fosse la sua cattiva gestione? E se invece lo smodato indietreggiare dello Stato a favore della speculazione privata fosse stata quella la causa del dissesto economico in corso? E se i partiti politici della Seconda Repubblica fossero stati un completo fallimento perché hanno fatto proprie le pulsioni provenienti dalla massa popolare, in maggioranza indulgente verso l’evasione? Domande che, se venissero elaborate, cambierebbero nettamente il corso della politica. Se venissero elaborate.

martedì 24 febbraio 2015

No Tav, le ragioni di una battaglia



I cortei No Tav (l’ultimo pochi giorni fa) ormai non fanno nemmeno più notizia. Pare che ci abbiamo fatto il callo a quest’organizzazione di cittadini rappresentata come qualcosa di assimilabile o ad una tradizione folkloristica o, più spesso, ad una specie di criminalità dedita al teppismo.

***

Nemmeno lo sconcertante scandalo relativo al Mose è servito a smuovere la sensibilità verso un tema, la costruzione di alcune Grandi Opere, che col passare del tempo assume sempre di più i connotati di un luculliano banchetto per amministratori, criminalità ed esponenti politici di ogni colore. Eppure, sulla costruzione della linea ad Alta Velocità (poi divenuta, in un disinvolto quanto sospetto cambio di destinazione, Alta Capacità) fra Torino e Lione non sono mancate tracce di opacità e odori d’interessi illegali: Benedetto Lazzaro, ad esempio, titolare dell’Italcoge fornitrice delle ruspe nel cantiere di Chiomonte, fu prima inquisito nel 1989 per «un giro di fatture false per tre miliardi», poi venne rinviato a giudizio per frode ed evasione fiscale, successivamente usufruì del condono finché, nel 1993, la Guardia di Finanza non lo perquisì con il sospetto di false fatturazioni e di aver dato vita ad un «cartello» finalizzato alla spartizione delle gare d’appalto per le opere pubbliche (quando era rappresentante legale dell’Italcoge, il nipote Ferdinando Lazzaro venne arrestato nel 2002 con l’accusa non solo di aver dato luogo ad un analogo «cartello», ma anche di aver corrotto un funzionario della Magistratura del Po pur di ottenere appalti per altri lavori in Val Susa). Come se non bastasse, tra i dipendenti della famiglia Lazzaro (citata, fra l’altro, anche in una storia di documenti falsi all’interno di una truffa aggravata in cui era coinvolta anche la Casa di Riposo di Agliè) spiccava tra il 2006 e il 2007 Bruno Iaria, capo della ‘ndrina di Cuorgné appena uscito di galera grazie all’indulto (tornerà alla ribalta delle cronache giudiziarie nel 2012, in quanto esponente di spicco nella gestione della ‘ndrangheta in Piemonte rivelata dall’Operazione Minotauro; Operazione che metteva la pulce nell’orecchio anche, parole del rapporto dei Carabinieri, sulla «commessa aggiudicata da LTF (Lyon Turin Ferroviarie) per realizzare la recinzione nel cantiere di Chiomonte»). Non si sa se gioire o rattristarsi di fronte alla notizia che nell’agosto 2011 l’Italcoge andrà incontro al fallimento, lasciando in eredità anche un danno erariale di circa cinque milioni di euro. La politica locale non tardò ad esprimere il suo rammarico, sia da parte dell’on.Ghiglia del Pdl («La scelta coraggiosa di Italcoge nel cantiere Tav ne avvalora, anche simbolicamente, l’impegno professionale») sia da parte dell’on.Esposito del Pd («Esprimo la mia vicinanza umana e politica ai lavoratori dell’Italcoge e alle loro famiglie, che in questi mesi hanno lavorato in condizioni ambientali difficilissime»).
L’altra ditta coinvolta nell’appalto del cantiere, quella dei fratelli Martina, non ha nulla da invidiare: nella stessa estate del 2011 era immersa in una procedura fallimentare che di lì a qualche mese darà luogo a incriminazioni per bancarotta fraudolenta.
Ben lungi da suscitare quantomeno diffidenza nei confronti di queste figure, LTF (la società pubblica italo-francese che gestisce progettazione, sondaggi e realizzazione di una parte dell’opera) nel giro di pochissimo tempo restituì l’appalto sia alla famiglia Lazzaro (ora titolare di Italservizi) che alla famiglia Martina (ora titolare di Martina Service).
Solo per motivi di spazio si è scelto di non soffermarsi su altre aziende coinvolte nella costruzione del tunnel (come la romagnola Bentini Spa, la quale, emanazione della cooperativa rossa Cmc di Ravenna, nel 2005 affidò un subappalto ad un’azienda che gli inquirenti ritengono proprietà della ‘ndrangheta di Gioia Tauro), per una sommaria descrizione della situazione in Val Susa si legga quanto scriveva nel 2012 il giornalista Giovanni Tizian: «Che la Tav possa trasformarsi in “’ndrangheTav” è un rischio concreto…L’area della Val Susa è nota per la presenza delle ‘ndrine. Nel 1996 sono riuscite a entrare nell’Amministrazione di Bardonecchia, passata alla storia come il primo Comune del nord sciolto per mafia».

***

Come spesso si asserisce, effettivamente la presenza della criminalità non può rappresentare da sola una ragione valida per impedire la costruzione di Grandi Opere necessarie alla competitività economica del nostro Paese. Giustissimo. Appunto per questo è doveroso affrontare un altro aspetto: la Tav Torino-Lione si può annoverare tra le infrastrutture indispensabili per l’Italia? Può un progetto ideato quasi trent’anni fa, in un frangente economico per molti aspetti opposto rispetto a quello attuale, essere valido nel 2015? Quando ancora si parlava di una linea Alta Velocità per i passeggeri, nei primi anni Novanta la Fondazione Agnelli sovvenzionò uno studio in cui si presagiva per il 2002 un aumento del quintuplo per quanto riguarda il numero degli avventori della linea Torino-Parigi. Cifre totalmente irrazionali, smentite alla prova dei fatti solo alla fine di quel decennio, quando le Ferrovie dello Stato furono costrette ad ammettere che il numero dei passeggeri sulla linea esistente, ben lungi dall’aver subito un brusco incremento, era addirittura calato fin sotto il milione tanto da rendere l’utilizzo della tratta non superiore al 54% della propria capacità.
Al posto di optare per un abbandono dell’opera (tanto più che la Val Susa ha già offerto molto in termini d’infrastrutture visto che ospita due strade nazionali, la diga internazionale del Moncenisio, il tunnel autostradale, l’autostrada del Fréjus, una ferrovia, l’impianto e la centrale idroelettrica di Pont Ventoux), si decise di mutarne la finalità: non più Alta Velocità per i passeggeri bensì Alta Capacità per il trasporto di merci prevedendo che entro il 2030 fosse necessaria una linea dotata di una capacità di transito non inferiore alle 40 milioni di tonnellate. La realtà, ancora una volta, deluse di gran lunga le aspettative visto che dal 1997 in poi si assistette, al contrario, ad uno spettacolare calo sulla linea esistente: vennero trasportate non più di 8,6 milioni di tonnellate nel 2000, divenute 4,6 nel 2008 e 3,4 nel 2010 (anno in cui, secondo le previsioni, si sarebbe dovuta raggiungere la quasi completa saturazione di 20 milioni di tonnellate) tant’è vero che anche ai giorni attuali la linea viene sfruttata soltanto per un quinto delle sue potenzialità.
A rendere ancora più cocente la disfatta delle stime iniziale, provvede un organo istituzionale, la Direzione trasporti, infrastrutture, mobilità e logistica della Regione Piemonte, la quale stimava qualche anno fa che il «Traffico delle merci attraverso l’arco alpino occidentale» è aumentato tra il 2000 e il 2008 soltanto dell’1%, mentre se nello stesso rapporto ci si concentra sui traffici con la Francia si scopre una diminuzione del 6% (e parliamo del periodo antecedente la crisi economica: secondo i dati Alpinfo 2010 lo scambio tra Italia e Francia, escluso il valico di Ventimiglia, ammontava a 26,3 milioni di tonnellate contro le 33,8 di dieci anni prima) mentre a livello globale l’economia non solo si sta imperniando attorno all’informatizzazione, ma sta privilegiando sempre di più i traffici provenienti dal  cosiddetto sud del mondo, Estremo Oriente in primis (ricordiamo inoltre che la Tav prima di entrare in funzione deve aspettare almeno altri quindici anni).
Un traffico esiguo che da un lato rende l’opera assolutamente evitabile e dall’altro comporta un costo da cui difficilmente si riuscirebbe a ottenere un ritorno in tempi brevi e nel protrarsi dell’attuale congiuntura: un calcolo prudenziale della società costruttrice, la LTF, parlava fino a qualche tempo fa di 20 miliardi di euro a carico dell’Italia (esclusi gli interessi sul debito contratto ed esclusi eventuali contrattempi), una cifra che secondo lo studio condotto da A. Tartaglia («Valutazione della convenienza economico/sociale della ipotizzata nuova linea ferroviaria Torino-Lione a standard AV») necessiterebbe dal primo anno di linea al fine del solo equilibrio economico «un flusso minimo compreso tra 28,4 milioni di tonnellate all’anno (nel caso ci si limiti ai soli costi d’esercizio) e 121,0 milioni di tonnellate (nel caso si calcoli anche il recupero del capitale investito). Cioè su volumi di traffico tra le 9,8 e le 41,7 volte superiori a quelli registrati nel 2010! Mentre per i passeggeri il punto di equilibrio si registrerebbe su valori tra le 5,5 e le 26 volte superiori agli attuali».
Venti miliardi di soldi pubblici in tempo di crisi, dove per raggiungere i conti in ordine si attaccano a man bassa pensioni e protezioni sociali, sono una somma difficilmente comprensibile agli occhi dei cittadini, di conseguenza l’«austero» governo Monti decise a suo tempo si proporre una soluzione «low cost»: a carico dell’Italia spetteranno soltanto 2,7 miliardi di euro, senza specificare come verranno ripartiti in un’opera che, tra le altre cose, solo per lo scavo della galleria di milioni ne richiede 8,2 (parliamo infatti, prudenzialmente, di almeno 140 milioni al chilometro).
Tutto ciò ovviamente senza contare il fatto che in Italia il costo delle grandi opere ha sempre (dicasi sempre) superato di gran lunga le previsioni iniziali (secondo l’analista Ivan Cicconi, il costo dell’Alta Velocità Torino-Napoli è ad esempio cresciuto tra il 1991 e il 2010 del 547%).

***

Inoltre, non si può tacere di fronte a quella che è probabilmente la questione più grave del Tav in Val Susa, ossia la fragilità ambientale della zona. Parliamo di un ambiente ricco di amianto, di uranio (nell’ottobre 2006 il rappresentante della Asl 5 di Susa sottolineava che già ora il tasso di mortalità per problemi respiratori è superiore del 17% rispetto alla media regionale) e destinato, negli anni dei lavori, a produrre non solo tra i 10 e i 15 milioni di metri cubi di «smarino» (il materiale di scarto derivante dalla perforazione della montagna) e un notevole inquinamento acustico, ma anche, stando allo studio della Valutazione d’Impatto Ambientale presentata dalla LTF, si calcola per la tratta internazionale «ipotesi di impatto sulla salute pubblica di significativa rilevanza soprattutto per le fasce di popolazione ipersuscettibili a patologie cardiocircolatorie del 10%» solo per le polveri prodotte nel cantiere, a cui si aggiunge «un aumento delle affezioni respiratorie intorno al 10-15%». A tutto ciò va sommato anche il drenaggio: usando le parole adoperate dalla stessa LTF nel progetto del 2003, si prevede l’utilizzo di «un flusso cumulativo di acque sotterranee compreso tra i 60 e i 125 milioni di metri cubi all’anno», ossia l’equivalente della fornitura idrica di una città da un milione di abitanti con evidenti conseguenze (parole della Direzione generale Trasporti ed Energia della Commissione Europea) «sull’alimentazione idrica di paesi e città, sull’agricoltura, sui deflussi minimi dei fiumi e sulla produzione di energia idroelettrica. Inoltre, le falde intercettate avrebbero potenzialmente pressioni e temperature elevate, con problemi sia durante il cantiere che successivamente alla chiusura dei lavori in ragione del riversamento di acque calde nei fiumi a valle». Come se non bastasse, permane anche il rischio del prosciugamento di torrenti e fonti a monte degli scavi.

***


I sostenitori dell’infrastruttura non conoscono dubbi o perplessità: l’opera va fatta a tutti i costi, inseguendo l’illusione di una competitività che non guarda in faccia a nessuno, rincorrendo smodatamente e ciecamente una crescita economica che, se arriverà veramente, avrà connotati ben diversi rispetto al passato. Se l’economia mondiale vuole davvero sopravvivere, non è più concepibile il dogma fondato sulla perfezione del mercato, sulla totale assenza di solidarietà, sul menefreghismo più assoluto verso il benessere collettivo, sulla strafottenza al cospetto dell’arte, della bellezza, della cultura, dell’ambiente e della natura. Opporsi alla Tav significa proprio questo: ricercare una nuova strada di crescita economica fondata prima di tutto sul rispetto. La risposta, finora, non poteva essere più brusca: l’opera non è mai stata messa in discussione, né di fronte alle analisi più disparate, né di fronte alle pressanti richieste praticamente unanimi dell’intera comunità della Val Susa (si pensi alla massiccia presenza dei cittadini che le manifestazioni No Tav richiamano costantemente, oppure al fatto che ben 25 Comuni della valle hanno finora emesso delibere contrarie all’infrastruttura e al fatto che comunque nessun Comune della zona ha mai espresso appoggio incondizionato all’opera). Le istituzioni, comprese la magistratura, l’esercito, le forze dell’ordine e quasi tutte le forze politiche di maggior rilievo, hanno preferito lo scontro diretto (si pensi a Bruno Manghi, consigliere di Prodi escluso dalla lista unitaria della Camera in vista delle elezioni politiche del 2006 dopo aver criticato pubblicamente l’opera) che non poteva non provocare pesanti e intollerabili radicalizzazioni violente in alcune frange del movimento No Tav. Perché nell’impari confronto che avviene nell’incantevole confine boscoso della Val Susa il nodo del contendere non riguarda solo un treno: la posta in gioco è ben più alta.

mercoledì 18 febbraio 2015

I bavagli che ci aspettano



Ci voleva una bella dose di sforzo per far passare il nostro Paese dal 49esimo al 73esimo posto (su 180) nella classifica sulla libertà di stampa redatta da Reporters sans frontières, eppure a forza di dai e dai ce l’abbiamo fatta. Non poteva passare inosservata la telefonata in cui i più spregevoli burattinai di Mafia Capitale, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, tributavano al direttore de «Il Tempo» Gian Marco Chiocci il vezzeggiativo di «amico nostro» dettandogli fra l’altro, col tramite del sindaco Alemanno, articoli che favorissero le cooperative di Buzzi nella concessione dell’appalto per il Centro d’accoglienza di Castelnuovo di Porto (agghiacciante l’sms spedito da Buzzi ad Alemanno il giorno della pubblicazione: «Buongiorno Gianni e uscito un ottimo articolo su il Tempo ringrazia per noi il Direttore e ancora grazie per la tua disponibilità Un abbraccio S. Buzzi»). Né sono passate inosservate le minacce, talvolta seguite da concreti atti intimidatori, che troppo spesso la criminalità organizzata riserva a giornalisti intenti a fare il proprio mestiere. Chi lo sa? Forse non è passata nemmeno inosservata l’arroganza con cui i leader politici si approcciano al circuito mediatico (memorabili i toni marcatamente craxiani che Matteo Renzi riservò ai giornalisti durante la conferenza stampa a qualche ora dalla vittoria alle primarie del Pd: «A questo ho già risposto, prego»; «questo lo avete già chiesto, avanti il prossimo»; «la profondità delle risposte dipende dalla profondità delle domande» etc.). Eppure, continuando di questo passo, la deriva giornalistica potrebbe consegnarci nelle future graduatorie risultati addirittura più umilianti. Le Camere, infatti, stanno discutendo una legge sulla diffamazione il cui testo, in cambio di una (lodevole) eliminazione della pena carceraria per i giornalisti, pare avere il preciso proposito di fare strame di ciò che resta della libertà d’informazione. Il carcere, infatti, si trasforma in una pena pecuniaria il cui limite massimo, a prescindere se si tratti de «La Stampa» o di un blog sui problemi di Spinaceto, è fissato a 10mila euro.
La multa si può evitare, questo sì, ma a patto che si pubblichi una rettifica in testa di pagina, senza titolo, senza commento, senza risposta e con tanto d’indicazione del giornalista responsabile dell’articolo diffamante. Nulla di strano, viene da pensare. Difatti il problema è un altro: la rettifica deve avvenire anche nel caso il giornalista avesse soltanto riportato la verità e, nel caso non gli fosse sufficiente né la rettifica e nemmeno l’aggiornamento dell’articolo, qualunque cittadino coinvolto nel circuito mediatico (anche il più balordo, anche il più meritevole di una sonora deplorazione pubblica) grazie ai nuovi dispositivi potrebbe addirittura chiedere a sua discrezione, con tanto di possibilità di rivolgersi a un magistrato in caso di mancato adempimento, l’eliminazione completa dal web e dagli archivi di ogni informazione a suo riguardo.
Non solo: il direttore delle testate vede gravare su di sé una responsabilità sempre più pesante. Da 8mila a 16mila euro di multa (più l’automatico deferimento all’organo disciplinare e la possibilità di denuncia) in caso di rifiuto di pubblicazione delle rettifiche e responsabilità di controllo capillare per ogni articolo pubblicato (firmato e non) anche in casi di contenuti in perenne aggiornamento come può esserlo una testata online.
Una miscela esplosiva che sembra studiata apposta per far incorrere il giornalista, di questi tempi sempre più indifeso e malpagato, nel peggiore tra gli incubi dell’Italia attuale: non il carcere, bensì la dispendiosissima e massacrante trafila giudiziaria di processi e controprocessi in cui, anche se si arriva alla conclusione e si accerti la buona fede del giornalista, il gioco non vale mai la candela. Oltre al fondato rischio che l’editore, nel frattempo, abbia trovato altre professionalità a cui rivolgersi, l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato impedisce in qualsiasi situazione un risarcimento, seppur simbolico, nei confronti del giornalista innocente.
Ricorrere al processo per diffamazione, o semplicemente minacciarlo, finisce per rappresentare indubbiamente una potentissima arma di minaccia (e soprattutto dissuasione) nei confronti di un giornalista, magari da parte di una personalità politica che di solito, al contrario, gode di un’«insindacabilità parlamentare» che gli permette di divulgare ogni scemenza che gli passi per la mente senza correre alcun pericolo.
Accade sovente che qualche personaggio nominato negli articoli si senta in dovere di minacciare strali di ogni genere e di pretendere rettifiche anche in caso di verità accertate dalla magistratura. Rimanendo nei casi capitati al «Corriere della Sera» (un quotidiano né sprovvisto di mezzi, né tantomeno dalle tendenze sovversive), quando venne dedicato un articolo alla sconcertante vicenda del direttore della biblioteca dei Girolamini Massimo Marino De Caro- che di giorno si spacciava truffaldinamente per nobile, laureato e docente universitario mentre di notte rubava letteralmente alla biblioteca i volumi più preziosi- nonostante la condanna sia in primo che in secondo grado secondo la legge avrebbe il pieno diritto di farsi pubblicare una lettera senza risposta atta a confermare tutte le menzogne raccontate da quest’uomo.
Chi non ci ha pensato due volte a sporgere querela è stato un ex-membro della Camera appartenente alla Lega Nord, Claudio Regis, al quale venne fatta notare la strana usanza di firmarsi e definirsi «ingegnere» non solo non disponendo di tale qualifica, ma ammettendo senza mezzi termini (in un’intervista a «Economy») la natura di questa frottola.
Sebbene di fronte a verità accertate, nemmeno Paolo Bonaccorsi ha rinunciato a brandire l’arma giudiziaria dopo che, divenuto assessore regionale all’urbanistica calabrese nei giorni in cui giravano insistentemente le voci sulla costruzione del ponte sullo stretto, passò alle cronache per un curriculum menzognero (con tanto di documenti taroccati finalizzati a millantare iscrizioni all’albo degli avvocati) spedito alle Ferrovie dello Stato. E come dimenticare il giudice Diego Cutrò, inorridito perché gli venne attribuita una condanna in appello per corruzione in atti giudiziari invece di una condanna in appello per corruzione semplice? E come farsi passare dalla memoria Alberto Monaci, esponente di spicco della Dc toscana imbufalito dopo che la stampa rese noto che approfittò della fine della prima repubblica per svendere per pochi spiccioli alla sua compagna un’incantevole dimora nel cuore di Siena di proprietà del partito? E come non sorprendersi di fronte a Totò Cuffaro, che sporse denuncia dopo che un giornalista osò appioppargli l’epiteto di «clientelare»?
Le querele vennero vinte dal giornale, ma la spesa processuale non fu indifferente nemmeno per un quotidiano importante come quello di via Solferino, figurarsi cosa può significare una cosa del genere per una testata dagli scarsi mezzi.
Soluzioni per arginare questa soverchieria sono poche e assolutamente semplici. Come scrive l’avvocato Caterina Malavenda: «Basterebbe, ad esempio, imporre al querelante che perde di pagare le spese processuali sostenute dall’imputato assolto con qualunque formula e di risarcire adeguatamente il danno arrecatogli, per averlo fatto processare ingiustamente; rendere obbligatoria la condanna di risarcimento, in sede civile, nei confronti di chi ha agito con colpa grave o, peggio, con dolo; porre a carico di chi inizia una causa civile una sorta di cauzione, una somma di denaro, proporzionata al danno richiesto, che garantisca il pagamento delle spese all’avversario se vince e che adesso si tenta spesso inutilmente di recuperare. Pochi e calibrati interventi su norme già esistenti, dunque: e l’effetto deflattivo, anche quando la “vittima” è un giornalista, sarebbe immediato». Ma evidentemente il fine che il legislatore si propone ha ben poco a che vedere con il buon senso e la difesa dei diritti dell’informazione. L’importante è far dormire sonni tranquilli a chi rischia di veder sfigurata la propria immagine sugli organi mediatici, anche a scapito di una libertà di stampa che di anno in anno ci consegna risultati sempre più imbarazzanti.

venerdì 13 febbraio 2015

Profughi

Da quando sono state posate le armi del secondo conflitto mondiale, mai il pianeta ha vissuto turbolenze, disperazioni e crudeltà come in questi ultimi mesi. Secondo l’Oim, organizzazione intergovernativa che si occupa di migranti, corrisponde a circa 17 milioni il numero di essere umani che ha cercato una via di fuga dalla fame, dalla guerra e dalle condizioni politiche del proprio paese d’origine per gettarsi nell’estremo azzardo di formarsi una nuova vita in una nuova nazione. Un rapporto Global trends dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite ha stimato in 51,2 milioni l’immane compagine di migranti forzati nel mondo per il solo anno 2013, in una dinamica perennemente in crescita (si stima un aumento di 6 milioni in un solo anno). Gli apolidi, questa la stima, sono circa 10 milioni, di cui solo un terzo legalmente censiti.
Sempre più ampie zone del mondo conoscono escalation d’inaudita violenza, rendendosi atrocemente inospitali per chi si tiene alla larga dall’orrido intrecciarsi di fanatismi e interessi criminali: ad esempio, nell’ultimo anno il pianeta ha assistito a qualcosa come 592 attacchi suicidi (un incremento del 94%) che hanno provocato oltre 4mila vittime. Come al solito, l’Africa è la zona che più risente le ingiustizie del mondo tanto che il Cnel, in uno studio redatto nel 2011, stimava che da qui al 2050 ogni anno tra 1,5 e 2 milioni di persone lasceranno il continente alla volta di un’esistenza dignitosa in Europa. Una fuga sofferta la quale, come se non fosse sufficiente lo strazio provocato dallo sradicamento dai proprio affetti e dalle proprie culture, viene quasi sempre insidiata da atrocità e sempre nuove incognite. «Sono migliaia i profughi intrappolati nella guerra in Libia», dichiara don Mussie Zerai, sacerdote presidente dell’agenzia Habeshia, «arrivano dal Corno d’Africa o dall’Africa Subsahariana e spesso finiscono nelle mani dei miliziani delle varie fazioni in lotta, vengono costretti a trasportare in battaglia armi e rifornimenti. Come schiavi».
Spesso rappresenta già un’iridata conquista raggiungere illesi, privi di malattie e non troppo affamati il confine meridionale della Libia come l’oasi di Kufrah, dove i profughi provenienti da ogni angolo dell’Africa vengono arrestati e scaraventati in un campo di raccolta, uno di quelli a cui, in nome dell’«aiutiamoli a casa loro», il governo Berlusconi aveva dato la delega affinché si ponesse una forma di controllo al flusso verso l’Europa, anche se il più delle volte le persone rinchiuse lì dentro hanno il sacrosanto diritto di ottenere l’asilo politico. Poco importa, le milizie tribali che gestiscono il campo non conosco né diritti, né umanità; e a farne le maggiori spese sono, come di consueto, le donne. Il rapporto dell’Osservatorio sulle vittime delle migrazioni di Fortress Europe ha raccolto innumerevoli testimonianze, tra cui quella di Fatawhit: «Ho visto mille donne violentate nel centro di detenzione di Kufrah. I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti. Non facevano alcuna distinzione tra donne sposate e donne sole. Molte di loro sono rimaste incinte e molte di loro sono state obbligate a subire un aborto, fatto nella clandestinità, mettendo a forte rischio la propria vita…». La Chiesa ha addirittura stimato che l’85% delle donne subisce violenza sessuale nel tragitto tra il proprio luogo d’origine e la destinazione europea. Nell’ottobre 2013 si stimava che in questi lager sperduti nel deserto ci fossero almeno tra i 10 e i 12mila esseri umani, più altri 10mila imprigionati nei campi clandestini, dove lì più che altrove sevizie e torture sono all’ordine del giorno, soprattutto ora che l’unica autorità presente in Libia è costituita da un nugolo inestricabile costituito da bande di predoni, criminali, fondamentalisti islamici o tribù di ogni genere. Solo dalla discrezione di queste genti dipende la sorte dei disperati: se salperanno per compiere la traversata del Mediterraneo, quando lo faranno, da dove lo faranno, su quale mezzo e in quali condizioni. L’attesa può essere lunga o breve, l’unica certezza sono la disumanità che accompagna questa tratta e il fatto che c’è un prezzo letterale da pagare, accumulato con estrema fatica e chissà quali patimenti dai profughi che sognano le coste europee come l’unica possibilità di salvezza. Le bande che presidiano le coste godono di vasti e intrecciati interessi criminali (un business di circa 6 miliardi), che spaziano in tutti i rami del commercio e del contrabbando, dalle armi alla benzine, dalle droghe sintetiche per arrivare fino a loro, i profughi. Un giro d’affari che si stima arrivi a toccare i 3-4 miliardi di dollari l’anno, qualcosa che assomiglia al 10% di una ricchezza, quella libica, fondata ancora in larga parte sulle riserve petrolifere.


Schema apparso sul Corriere della Sera del 04/01/2015

Attualmente il prezzo medio per garantirsi la traversata del Mediterraneo è di ottocento dollari a persona, notevolmente di meno (circa la metà) rispetto al 2013. La situazione è peggiore nei porti della Turchia, dove i trafficanti acquistano per 200mila euro i cargo destinati alla rottamazione, li imbottiscono di profughi provenienti dalla Siria richiedendo a ciascuno di loro una somma oscillante intorno ai cinquemila dollari e alla fine riescono a racimolare, per ogni viaggio, circa due milioni.
Solo ora il viaggio può avere inizio. Stipati per ore e guidati prima dalla misera riserva di carburante di cui è provvista la fragile imbarcazione, e poi dai semplici capricci delle condizioni atmosferiche. Quando va bene le chiamate satellitari o gli avvistamenti possono porre una provvidenziale conclusione prematura alla traversata, meglio ancora se gli uomini preposti al salvataggio godono (come nel caso di Mare Nostrum) di un’ampia possibilità d’intervento lungo tutta l’area del Mediterraneo. Ma la buona sorte non è garantita a tutti. Quelle ore di galleggiamento hanno visto le tragedie più spietate del nostro tempo, soprattutto in estate, quando la bella stagione consente un flusso quasi ininterrotto di esseri umani. A fine agosto Fortress Europe denunciava che nell’attraversamento del Canale di Sicilia si era passati repentinamente da una media di due a una media di tre morti al giorno. Ma sono solo stime: nessuno conosce realmente quanto sia capiente il cimitero del Mediterraneo. Negli ultimi dieci anni si stimano 7mila morti, che diventano più di 20mila se si fa cominciare il macabro conteggio dal 1988. Quando l’imbarcazione naufraga, l’annegamento è una dura sorte per svariati profughi, ma non è quella l’unica causa di morte. Questa l’agghiacciante cronaca di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti pubblicata su «La Repubblica» del 25 agosto: «I profughi che annaspavano senza salvagente, li hanno salvati quasi tutti ma sul fondo del gommone c’erano 18 corpi, tutti uomini, tutti dell’Africa sub sahariana, morti forse disidratati, visto che non avevano un goccio d’acqua e molti di loro avevano bevuto acqua di mare, o forse- ed è stata la prima ipotesi del capitano Marco Bilardi, comandante della nave Sirio che li ha poi presi a bordo sbarcandoli ieri pomeriggio a Pozzallo- intossicati dall’esalazione o dall’ingestione di idrocarburi che spesso i trafficanti di uomini mettono in bottiglie d’acqua». Dopo un naufragio si può morire anche di freddo, come successo negli ultimi giorni, oppure di soffocamento, come la scorsa estate, per lo scriteriato ammasso di esseri umani che viene concentrato in ogni imbarcazione. Nel solo periodo tra gennaio e agosto 2014, l’agenzia Habeshia faceva ammontare a duemila le vittime delle traversate. Una stima analoga a quella dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, secondo cui le vittime sarebbero state 1889, di cui 1600 nel solo periodo tra giugno e agosto. Una somma inaudita, se si considera che il record di 1800 vittime era stato registrato nell’intero arco del 2011. A fine anno, il bilancio dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, Onu) sarebbe stato di 3.224 esseri umani deceduti nel Mediterraneo nei dodici mesi del 2014, il quadruplo rispetto all’anno precedente. Secondo questo stesso rapporto, i morti in questa lingua di mare rappresentano il 66% dei decessi a cui hanno incorso i profughi a livello planetario. Poteva andare molto peggio, se non fossero entrate in azione missioni come Mare Nostrum: a fine agosto Giuseppe De Giorgi, Capo di stato maggiore della Marina, rivelava che grazie a questa operazione 113mila esseri umani sono stati strappati da una morte certa.


Confronto tra migranti sbarcati e decessi avvenuti nel Canale di Sicilia tra il 2001 e il 2012. Dal Corriere della Sera del 04/10/2013

Non è il mare ad essere più crudele rispetto agli altri anni; è il numero di disperati disposto ad imbarcarsi che in questi mesi ha raggiunto livelli inimmaginabili. Alcuni numeri possono dare un’idea delle proporzioni del fenomeno: nei primi sei mesi del 2013 sono sbarcati 7.916 profughi, mentre nello stesso periodo del 2014 sono stati 61.500 (in tutto il 2011, considerato annus horribilis per le traversate, non vennero superati i 63mila). Ad agosto questo numero era già vigorosamente aumentato superando la soglia, tra mare e terra, di 103mila arrivi nel solo periodo tra gennaio e agosto (i dati sono forniti dal Dipartimento immigrazione), cinque volte di più rispetto a quanto verificatosi l’anno precedente e il doppio rispetto a quelli accolti nel periodo caotico delle primavere arabe. Il 31 ottobre il numero era arrivato a 153.389 (di cui 106.732 nella sola Sicilia), facendo ammontare a 316.155 gli stranieri giunti irregolarmente in Italia da cinque anni a questa parte. Gli ultimi giorni di dicembre Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, annunciava l’ultimo agghiacciante bollettino: «Nel 2014 hanno attraversato il Mediterraneo 208mila persone: di queste 170mila sono approdate in Italia». E aggiunge: «Temiamo che il flusso aumenti, soprattutto dalla Siria. Ci sono 9 milioni di persone in fuga dalla Siria». Nel solo Canale di Sicilia, dal primo gennaio al 28 dicembre 2014, i mercantili delle Capitanerie di porto e della Marina militare hanno eroicamente soccorso 42mila migranti, quattro volte di più rispetto all’anno precedente. Nei soli primi sette mesi del 2014 sono stati inoltre 14mila i minori arrivati in Italia, e di questi ben 8.600 separati (talvolta forzosamente) dalla propria famiglia.
Se consideriamo il numero degli sbarchi, possiamo stimarli in 1.109 nel 2014 contro i 483 del 2013.


Schema apparso sul Corriere della Sera dell'01/07/2014

È quasi sicuramente un falso mito la teoria che vedrebbe nelle capillari operazioni umanitarie un incentivo alle partenze, visto che da quando è stata dismessa l’operazione Mare Nostrum gli sbarchi, ben lungi dal calare, hanno proseguito la loro crescita: secondo l’Alto commissariato per i rifugiati, nel gennaio 2015 gli arrivi via mare sono stati del 60% superiori a quelli del gennaio 2014.
Inutile dire che l’accoglienza di questi disperati raggiunge livelli d’inadeguatezza disumana: la struttura di Lampedusa originariamente contava 850 posti letto garantiti, dopo un incendio dell’autunno 2011 sono divenuti 254. Nell’ottobre 2013 lì dentro vivevano 1055 esseri umani, con un tempo di permanenza medio di una settimana.


Schema apparso sul Corriere della Sera del 28/12/2014

La Sicilia è la regione che più di tutte deve sobbarcarsi l’onere di questa tragedia: l’81% dei migranti sbarcano in quest’isola (al secondo posto c’è la Puglia, con una percentuale dell’8%), e lì (i numeri sono aggiornati al 31 luglio 2014) vengono provvisoriamente accolti nelle strutture temporanee e nei centri governativi il 28% dei profughi, mentre il 13% finisce nel Lazio e l’11% in Puglia. La situazione è comunque fuori da ogni previsione. Quest’estate i tecnici del ministero dell’Interno ammonivano: «In base alle risorse del bilancio di assestamento l’accoglienza è demansionata su un numero massimo di 90mila, al più 100mila, arrivi. Ma il tetto è già stato superato e le nostre previsioni aggiornate parlano di almeno 140mila arrivi nel 2014» (previsione ottimista, come abbiamo visto).


Schema apparso su La Repubblica del 25/08/2014

Le espulsioni non sono nemmeno da prendere in considerazione: oltre ad essere costose e poco efficienti, bisogna ricordare che l’80% delle persone sbarcate nel 2014 ha diritto, in base a quanto prescrive anche la nostra Costituzione, a delle forme di protezione. Non sono molti, infatti, i migranti che fuggono unicamente per motivi economici: c’è qualche tunisino e al limite qualche minorenne egiziano, ma nulla di più. Eppure i richiedenti asilo in Italia non sono molti: nel maggio 2014 ammontavano a 10.300 le persone presenti nei centri Cara (centri di accoglienza richiedenti asilo), a 12.500 le persone registrate nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e 10.300 le persone presenti nelle strutture di prima accoglienza. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, tra gennaio e agosto sono state 25.026 le richieste di asilo giunte al nostro Paese (in tutto il 2013 sono state 27.830). Sempre ad agosto, il ministero dell’Interno stimava in 53mila le persone accolte nelle nostre strutture d’accoglienza, aggiungendo che nell’ultimo anno è stato concesso asilo a 24.435 richiedenti su 35.424 domande presentate. In tutto il 2014, a detta del Viminale le richieste d’asilo non hanno superato le 63mila, mentre sono 16mila le richieste di protezione internazionale esaminate dalle Commissioni territoriali.
Numeri che dimostrano chiaramente come l’Italia non sia la mèta predestinata dai profughi che sbarcano sulle nostre coste: si prediligono i paesi del nord Europa, più accoglienti e dotati di migliore assistenza. Ma ecco che le assurdità legislative s’inseriscono prepotentemente nella già disgraziata vicenda di questi disperati. Il regolamento di Dublino II (2003) prevede infatti che l’unico stato competente a valutare la richiesta d’asilo corrisponda al primo Paese dell’area Schengen in cui il migrante ha poggiato il piede, costringendo quindi quest’ultimo a rimanere lì.
Ecco allora che si studia il più semplice degli escamotage: le autorità italiane acconsentono tacitamente a non riconoscere e identificare gli stranieri, abbandonando al proprio destino i profughi, costretti con i propri mezzi e in totale clandestinità a raggiungere lo stato dove eseguire la richiesta. Come sottolineava Gad Lerner su «La Repubblica» del primo luglio, dopo aver concesso il monopolio del traffico di esseri umani alle organizzazioni criminali, «per favorire la loro ripartenza, dopo quello degli scafisti incrementiamo pure il traffico dei passeur», prolungando a dismisura l’odissea di questi poveri cristi i quali sono sovente costretti a viaggiare attraverso l’Europa nascondendosi dentro un camion (come scoperto ad agosto a Ilminster, nell’Inghilterra meridionale) o un container, oppure aggrappandosi sotto il vano di un tir o al semiasse di un pullman turistico, oppure ad appiattirsi in qualche intercapedine di un traghetto.
Alla fine, come dichiarato da Carlotta Sami, «a Milano quest’anno ne sono transitati 50mila, solo una quarantina ha chiesto asilo politico qui. Gli altri hanno preferito il Nord Europa». Più precisa Daniela Pompei, responsabile per gli immigrati nella Comunità di Sant’Egidio: «La maggior parte delle 170mila persone arrivate in Italia ha diritto a chiedere asilo: di queste, poi, qui ne sono rimaste 62mila». A dispetto di quanto dichiarato dagli xenofobi nostrani, la Svezia (paese con 9,5 milioni di abitanti) stando ai dati Unhcr ha ricevuto nel 2013 50mila richieste d’asilo, mentre l’Italia (pur disponendo di 60 milioni di abitanti) ne ha ricevute non più di 25mila. La disparità è lampante nel caso delle domande dei siriani: 14.367 in Svezia contro 677 in Italia. Nel panorama dell’intera Europa, «lavoce.info» stimava per il 2011 571mila rifugiati in Germania, 194mila nel Regno Unito, 210mila per la Francia, 87mila per la Svezia, 75mila per l’Olanda e solo 58mila per l’Italia. Per rendere ancora più chiara l’idea, in Svezia ci sono 9 rifugiati ogni mille abitanti, 7 in Germania, 4,5 in Olanda e solo 1 in Italia.


Schema apparso sul Corriere della Sera del 25/10/2013

Qui si conclude il viaggio verso l’Europa. Quello che viene dopo: la discriminazione, lo sfruttamento, il disagio o la reclusione in centri ben poco consoni a paesi civili come i Cie meriterebbero nuovi approfondimenti.
Di fronte a questa tragedia di portata storica, provoca un effetto disarmante scoprire che l’Europa preferisce trascorrere gran parte del proprio tempo dietro i decimali di bilancio pubblico o appresso a nuovi regolamenti sulla dimensione degli ortaggi: come scriveva Guido Viale sul «manifesto» del primo agosto, sembra di assistere alla riedizione del «dibattito sul sesso degli angeli che impegnava i governanti di Bisanzio mentre i Turchi la stavano espugnando». E non può che suscitare ribrezzo l’atteggiamento dimostrato spavaldamente dai più ferrei antieuropeisti di marca razzista. Si legga ad esempio quanto scriveva Paola Pellai su «La Padania» del 14 maggio 2009: «Se rinasco voglio fare la rifugiata perché così non devo sbattermi a fare un mutuo, né a cercare un lavoro né a mettermi in quelle logoranti file d’attesa che prima che li accontenti tutti è già tempo di cercarti un ospizio…».
La situazione merita interventi risoluti e urgenti. Anche l’invocata Mare Nostrum, pur indispensabile per fermare la mattanza, come scriveva Gad Lerner «è solo un palliativo, là dove andrebbe creato subito un corridoio umanitario, ovvero un servizio civile di traghetti e voli charter per smistare razionalmente i migranti in varie destinazioni europee». Concludendo: «Traghetti subito. Mutuo riconoscimento delle domande d’asilo. Monitoraggio comune e equo smistamento». Un auspicio che esige una risposta.

martedì 10 febbraio 2015

Che fine ha fatto la società civile?

L'utilizzo dell'immagine è stato gentilmente concesso di Mauro Biani (http://maurobiani.it/)

Se domani si tornasse alle urne, il disincanto e la delusione che ormai hanno sopraffatto (comprensibilmente) la coscienza di una fetta considerevole di elettorato molto probabilmente consegnerebbero di fatto le sorti dell’Italia ad una ristretta minoranza di cittadini che si recano alle urne. Considerato il quadro politico, la situazione appare a prima vista paradossale: tutte le forze politiche infatti sembrano più che mai orientate al mito della «società civile» la quale, alla stregua di un guerriero templare, dovrebbe secondo questa narrativa scacciare la tanto aborrita «politica» dai tetri e polverosi palazzi nei quali se ne sta rinchiusa.
Non c’è schieramento politico, ai giorni nostri, che non ponga alla base del suo modo di pensare la contrapposizione tra «la gente» e «la casta», quest’ultima individuata non semplicemente nelle personalità politiche in sé, quanto negli organi che tali personalità hanno inopinatamente occupato. Il problema, di conseguenza, non è più l’azione del semplice parlamentare, bensì l’intera architettura che sta alla base della democrazia parlamentare. Il problema non è più il sindacalista o l’odierna gestione del sindacato, l’oggetto del bersaglio è divenuta l’intera rappresentanza dei lavoratori, senza distinzioni di responsabilità. Il problema non è la conduzione dei partiti, l’insofferenza si espande al concetto stesso di rappresentanza partitica, e via di questo passo (si potrebbero citare infiniti altri casi, tra i quali istituzioni locali, presidenza della Repubblica, informazione giornalistica e spesso anche la magistratura).
A corredo di tale sfacelo, si assiste ad una tragicomica competizione agonistica a chi più fieramente rifiuta i concetti di «destra» e «sinistra». Al diavolo queste ammuffite distinzioni, nel XXI secolo ci tocca assistere all’avvento del «partito della Nazione» o, per meglio dire, di un florilegio di raggruppamenti che non si fanno scrupoli ad ammettere il loro desiderio di riempire tutti gli spazi sociali e di farsi portatori delle istanze più disparate, con la sola condizione che queste da un lato provengano dal cuore pulsante della «Nazione» e dall’altro, in un’insana conseguenza che tanto conseguente non è, abbiano come bersaglio il concetto di corpo intermedio.
La salsa che ne esce non può che risultarne insipida e disgustosa. A furia di voler tenere unite categorie e fasce sociali che unite non ci potranno stare mai, l’unica soluzione è trincerarsi dietro un’assoluta vaghezza programmatica rintuzzata, sovente ma neanche troppo, da qualche progetto dai contorni indefiniti e buono per tutte le stagioni (il ritorno alla lira o la «flat tax», tanto per fare due esempi). Il combinato disposto tra avversità verso i corpi intermedi, a meno che questa non sia da sola sufficiente a toccare la pancia di molti cittadini, e assenza di contenuti di solito portano anche ad un altro risultato di primaria importanza per il conseguimento del consenso: parafrasando un termine coniato dal politologo Mauro Calise siamo al cospetto di una politica «personalizzata». Demolite le strutture portanti che tengono distinto il cittadino dalla sfera dirigente, ci ritroviamo di fronte ad un rapporto tra elettore e leader (a questo punto divenuto incontrastato) della forza politica a metà strada tra il fideismo e l’allegra compagnia del sabato sera. Il leader diventa a questo punto il perno attorno al quale ruota ogni attività della forza politica, talvolta fino ad una completa identificazione grazie alla quale il leader stesso diventa il sinonimo dello schieramento politico.
Questa struttura (nel novecento italiano ideata e modellata sapientemente da tre campioni di antidemocrazia: Mussolini, Craxi e Berlusconi) pare essere l’unica in grado di riscuotere l’appoggio  popolare, e difatti è stata seguita grosso modo da tutti i leader della Seconda Repubblica, caratterizzata quest’ultima proprio dalla metastasi antipolitica come reazione alla deriva partitocratica che ha invece, all’opposto, caratterizzato la Prima Repubblica.
Attualmente però sembrano passate tutte le sbornie: di fronte ad un tangibile e drammaticamente concreto sfacelo del Paese (a cui l’antipolitica della gestione personale ha fornito un contributo non indifferente), esaurita la forza di gridare, delusa ogni effimera speranza di fatuo ottimismo e probabilmente compreso anche che il rapporto im-mediato tra leader ed elettore non porta ad un genuino ascolto delle istanze del cittadino ma, al contrario, serve solo ad accrescere l’autoritarismo del Capo, sembra essersi aperto uno squarcio composto da cittadini restii ad ascoltare l’ennesimo imbonitore di turno, ma pronti a collaborare nella formazione di un partito (vocabolo ben lungi dall’essere una bestemmia) in grado di fare i conti con le nuove forme di partecipazione politica che le novità tecnologiche e la situazione sociale mette in campo ponendosi però a reale ascolto delle istanze di determinate fasce sociali, che adotti una leadership autorevole ma rispettosa (né autoritaria, né succube delle burocrazie interne), che chieda una reale riforma dei corpi intermedi senza per questo volerli macinare sotto il rullo compressore della demagogia, che metta veramente al primo posto la lotta per la legalità e il rispetto dei doveri civici (in primis su un tema come l’evasione fiscale, mai veramente affrontato da alcuna forza politica o per diretta contiguità di certi esponenti con tali pratiche o per il fatto che il voto degli evasori è sempre stato determinante al fine dei risultati elettorali) e, nel caso della sinistra, che sappia rimettere al centro il valore fondamentale dell’intervento pubblico nell’economia, che fornisca una tutela responsabile dei beni collettivi e che, in ambito sovranazionale, chieda a gran voce una reale riforma che regoli il circuito vizioso delle attività finanziarie responsabili della crisi.
La volontà esiste e, al contrario di quanto sostengono gli ex-portavoce del Pd Geloni e Di Traglia, la partecipazione sarebbe tutt’altro che sporadica o dilettantistica. La vigorosa mobilitazione per i referendum del 2011 e i risultati delle elezioni amministrative della primavera dello stesso anno (quelli che hanno premiato Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Cosolini a Trieste e De Magistris a Napoli, per intenderci) sono due esempi eclatanti (ce ne sono molti altri meno sottoposti alla ribalta mediatica: si pensi alle esperienze di Libera o Emergency) tutto sommato recenti che possono fornire degli ottimi punti di partenza nella prospettiva di un partito autenticamente riformista e socialdemocratico fondato su una società civile che però detenga al tempo stesso passione e competenza nei confronti del mondo politico. 

giovedì 5 febbraio 2015

La vergogna dei ladri (impuniti) di tesori



In uno scrigno di sbalorditive opere storiche, artistiche e culturali come l’Italia, assistere all’immagine di una banda di scellerati che prima s’impossessa illecitamente del monumento funerario dei Gladiatori di Lucus Feroniae, poi lo spacca riducendolo a dodici frammenti difficilmente ricomponibili e infine sotterra il risultato per smerciarlo più disinvoltamente oltreconfine dovrebbe far stringere il cuore. Sono nefandezze che implorano giustizia, invano. Gli autori di questa manovra se ne stanno plausibilmente a gozzovigliare senza aver subito nemmeno una multa simbolica non solo a causa della difficoltà di capire da parte degli investigatori chi abbia effettivamente distrutto l’opera, ma anche a causa di un comma del codice dei Beni culturali redatto nel 2004 tale per cui la pena per i ladri di tesori artistici è talmente infima, massimo tre anni di carcere, che fino ad oggi nessun «predatore dell’arte» (per parafrasare un volume di Fabio Ismam) si è ritrovato dietro le sbarre. Nemmeno uno. Spulciando tra i circa 65mila detenuti costretti in strutture carcerarie imbottite all’inverosimile scoprirete che i tombaroli, i trafugatori, i ladri e chiunque sia connesso al fruttuoso commercio illegale di opere d’arte (spesso esposte in musei di tutto rispetto) stanno tutti a piede libero. Compreso il tombarolo beccato mentre stava in procinto di concludere un affare oltrefrontiera per vendere il Sarcofago delle Muse (nella foto in alto), meravigliosa opera d’arte rinvenuta a Ostia antica nel 2008. Lo ritrovarono appena in tempo, mentre era lì lì per separare rudemente (munito di un semplice crick da carrozziere) le statue ornamentali del sarcofago al fine di poterle trasportare con maggiore facilità.
Compresi i signori beccati mentre erano intenti a trasportare la metà inferiore del trono marmoreo di Caligola rinvenuto a Nemi, nella villa dell’imperatore. Se la cavarono con una semplice denuncia.
Compresi gli infami che, di recente, si sono appropriati di una maestosa (tre metri di altezza) pala d’altare attribuita al Guercino conservata nella chiesa di San Vincenzo, a Modena.
A raccontarle tutte, storie di questo tipo riempirebbero talmente tante pagine in una misura tale che qualche tempo fa «El Mundo» arrivò a sparare un titolo in cui si faceva tornare in auge un termine, «saccheggio», che pareva confinato in qualche oscura pagina di storia medievale. «Italia, saccheggio del paradiso dell’arte», questo il titolo completo che da solo sarebbe sufficiente per far scattare una sentinella d’allarme.
Ma a far rabbrividire contribuiscono i numeri ufficiali: il traffico di tesori culturali è talmente succulento da essere divenuto il quarto a livello mondiale. Solo armi, droga e finanza possiedono un giro d’affari più poderoso. Nel rapporto Ecomafia 2013, stilato da Legambiente adoperando dati forniti dall’arma dei carabinieri, si denunciava che «nel corso del 2012 le forze dell’ordine hanno accertato 1026 furti di opere d’arte». L’anno successivo le cose sono andate leggermente meglio, 872 furti, ma parliamo sempre di una cifra superiore a due opere d’arte derubate ogni giorno. Il rapporto Ecomafia 2014 dice anche che nel corso del 2013 sono state denunciate 1435 persone, si sono verificati 41 arresti e si è provveduto a 184 sequestri. A guidare la classifica regionale ci sono Lazio, Campania, Lombardia e Toscana. In Sicilia, riprendendo il rapporto Legambiente, «la criminalità organizzata movimenterebbe in questo settore, secondo le stime dei carabinieri, un volume d’affari di oltre 157 milioni di euro». Poco più di un anno fa il quotidiano online «linkiesta.it» approfondiva questo aspetto: «Sono circa 11mila i siti controllati dalle forze dell’ordine, ma anche nella dimensione più materiale delle gallerie, stando ai controlli del reparto Tutela patrimonio culturale dei carabinieri su otto opere esaminate tre risultano false. Un piatto ricco quello del mercato nero e del collezionismo dell’arte, che vede otto organizzazioni criminali operanti nel settore, a cui nel solo 2012 sono stati sequestrati poco più di 4mila falsi. Un settore redditizio e adatto per riciclare milioni di denaro sporco, con opere d’arte che escono e rientrano dall’Italia dopo essere state all’estero, mentre, come spiegano gli investigatori “diventano conti correnti, moneta di scambio nei paradisi fiscali, società, attività imprenditoriali e beni”».
È davvero ammirevole lo sforzo compiuto dai militari del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, costretti giorno dopo giorno a riprendere (lo sforzo è enorme, tant’è vero che ultimamente c’è stato un +27% di opere recuperate) e catalogare online l’infinita lista di opere rubate, facendo raggiungere l’ammontare negli ultimi giorni del 2014 (ma il dato è in continuo aggiornamento) a 600 furti, con oltre 10mila pezzi trafugati.
L’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Cnr conclude: «La perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto di Pil, calcolando il solo valore economico e non anche quello culturale che non può essere calcolato».
Eppure, questo autentico scempio non è riuscito a scalfire la strafottenza dei governi succedutisi dal 2004 a oggi: né il governo Berlusconi, né il governo Prodi, né il successivo governo Berlusconi, né il governo Monti, né il governo Letta e nemmeno il governo Renzi hanno mosso un dito per tentare di arginare questo fiume in piena. Basterebbe inserire un comma di poche parole in cui si dispone il raddoppio delle pene in caso di furto di opere artistiche per porre quantomeno un piccolo intralcio a questi criminali. Ad essere sinceri, in realtà, qualche pigro movimento c’è stato: Giancarlo Galan, quando svolgeva l’incarico di ministro dei Beni culturali durante l’ultimo governo Berlusconi, soltanto in seguito ad una nutrita mobilitazione aveva architettato a tal proposito un decreto, destinato però a volatilizzarsi in vista della caduta dell’esecutivo. Il suo successore sotto il governo Monti, Lorenzo Ornaghi, tentò di riproporre la questione, scegliendo però l’improvvida strada di lasciare agire il Parlamento. Alla velocità di un mollusco, soltanto durante gli ultimi mesi di legislatura venne partorito un disegno di legge (contenente anche un paio di disposizioni sui reati ambientali) che riuscì addirittura a raggiungere il vaglio della commissione Giustizia del Senato sotto la relazione del parlamentare pd Felice Casson. Il testo fu approvato all’unanimità, senza distinzioni di colore politico. Ma il micidiale dedalo di passaggi legislativi era destinato a fagocitare anche questo disegno, inghiottito nel nulla (con la probabile complicità di qualche «manina» ostile all’intervento) durante l’esame della commissione Bilancio (avete capito bene: anche le norme prive di qualsivoglia riferimento alle casse dello Stato devono passare per questa commissione) fino a che lo scioglimento anticipato delle Camere non finì per seppellire definitivamente ogni velleità d’interventi in materia.
Non ci resta che continuare ad aspettare, osservando nel frattempo l’indecente spettacolo di un tesoro tanto ineguagliabile quanto esposto ad ogni sorta di trattamento.

domenica 1 febbraio 2015

Ma il Nazareno non morirà



Il colpo di scena quirinalizio del premier «last minute», così viene soprannominato in sede di Consiglio dei ministri, alla fine c’è stato. Non sul nome, che circolava tra i papabili praticamente da sempre, ma sul metodo che ha portato alla candidatura di quest’ultimo.
Eravamo in molti a non nutrire dubbi sul fatto che il Quirinale rientrasse a pieno titolo nell’incessante ed enigmatica trattativa tra Renzi e Berlusconi, tant’è vero che i giornalisti più smaliziati ormai non ponevano nemmeno più la questione: «Impera il Nazareno, vietato sperare», ammoniva il titolo di un commento di Andrea Scanzi pubblicato sul «Fatto Quotidiano», e il resto dell’articolo proseguiva con il medesimo tono: «Qualsiasi ipotesi non allineata alla mostruosità del Patto del Nazareno è […] destinata a morire in partenza». Sullo stesso quotidiano anche Marco Travaglio sembrava ormai rassegnato: «Può darsi che, come dice Renzi senza precisare la settimana esatta, “sabato avremo il presidente”. Nel qual caso il premier avrà vinto la partita, chiunque sia il nome del prescelto. Che, comunque, sarebbe frutto del Patto del Nazareno, dunque un impresentabile».
Perché alla fine bisogna ammetterlo. Da ormai un anno a questa parte gran parte delle cronache politiche italiane finiscono per ruotare sempre intorno a questa misteriosa e mitica creatura che passa sotto il nome di Patto (con la maiuscola) del Nazareno, senza però che nessuno, a parte i contraenti e pochi intimi annessi (Lotti e Verdini), abbia compreso realmente la consistenza, la portata e l’ampiezza di questo continuo inanellarsi di accordi tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Ufficialmente si tratta soltanto di una convergenza di vedute sulla governabilità del Paese (quindi circoscritta a legge elettorale e riforma costituzionale), ma la sequela di modifiche, tiramolla, strappi e ricuciture che il testo delle riforme ha subito per decisione unilaterale di Renzi senza gravi compromissioni nell’accordo tra i due (anche quando iniziavano ad accumularsi clausole a dir poco nocive per Forza Italia, si pensi al premio alla lista o alle basse soglie di sbarramento) qualche sospetto che la trattativa andasse a lambire altre questioni appariva non solo plausibile, ma praticamente scontata alla gran parte degli osservatori. E quale occasione migliore per ringraziare l’ex-Cavaliere se non affidandogli un ruolo insostituibile nella scelta del Presidente della Repubblica? Sorprendentemente le cose non sono andate come previsto: con l’ennesima mossa inaspettata, vediamo non solo Berlusconi venir scaraventato senza convenevoli ai margini della scena politica, ma anche la materializzazione di un’inedita tripla maggioranza (quella di governo, quella per le riforme e quella per il Quirinale) destinata, salvo nuovi clamorosi imprevisti, a saldare la premiership di Renzi fino al 2018. Apparentemente, questa la conclusione di molti osservatori, il premier dispone di talmente tanti forni da cui attingere per approvare praticamente ogni suo desiderata che nessun interlocutore diventa indispensabile, con la conseguenza che tutti i gruppi parlamentari diventano ricattabili e suscettibili di potenziali scaricamenti spregiudicati. Come nel caso di Berlusconi, appunto. Ex-Cavaliere il quale, secondo la vulgata di buona parte del Pd, finisce per essere nient’altro che una specie di volontario (che l’esperienza di Cesano Boscone abbia suscitato questa sensibilità?) pronto a sorreggere il governo anche a costo di spaccare il suo partito, perdere consensi e compromettere i rapporti con i naturali alleati del suo schieramento ottenendo in cambio solo qualche briciola: il Patto del Nazareno, infatti, ha consentito di avere come ministro allo Sviluppo Economico (quello competente per le telecomunicazioni) e come sottosegretari alla Giustizia figure tutt’altro che ostili all’universo berlusconiano. L’unica altra consolazione che questa alleanza ha finora riservato a Berlusconi è il fatto di aver consentito a Forza Italia di godere di una strana forma di rilevanza politica. Una rilevanza che si trasforma in centralità? Secondo molti, le vicende quirinalizie dimostrano che l’unico vero padrone del campo sia il segretario del Pd. La mia impressione è diversa: Renzi non può permettersi di annoverare Berlusconi tra i nemici del suo governo.
Facciamo un piccolo passo indietro: a quasi un anno dalla formazione dell’attuale esecutivo, si conclude che una personalità integralmente politica come Matteo Renzi non persegua, causa la totale mancanza di profondità culturale e di bagaglio ideologico, un autentico programma di governo, ma insegua esclusivamente l’ambizione di accumulare in misura via via crescente sempre più potere, anche a costo d’imbarazzanti incoerenze. Per raggiungere tale obiettivo il primo pensiero è quello di cementare il consenso popolare, da qui l’ostentata e disinvolta demolizione dei popolarmente vituperati corpi intermedi (dal Parlamento ai sindacati, passando per il suo partito), la sporadica approvazione di misure di consenso (decreto Irpef), il vergognoso silenzio sui temi concernenti la legalità e una costruzione sfacciatamente menzognera fatta di slogan antipolitici e promesse per lo più rimaste sulla carta (o, più spesso, sul tablet). Il secondo pensiero è quello di rendersi riconoscente nei confronti di coloro che hanno reso tangibile la sua ambizione (il caso più eclatante è la sorte toccata ai finanziatori della Fondazione Open, finiti quasi tutti ai vertici delle principali aziende di Stato). Atteniamoci però al primo punto: nel bramoso desiderio di abbattere frontalmente gli odiosi apparati di potere la semplice maggioranza di governo non gli può bastare. Oltre a sopravvivere a Palazzo Madama grazie a pochissimi voti di scarto, questa si regge per lo più (a livello parlamentare parliamo di una pattuglia tutt’altro che ininfluente) sugli organici della vecchia gestione del Pd i quali (poggiando su concetti conservativi totalmente agli antipodi rispetto a quelli del premier) degli apparati di potere ne rappresentano i più strenui difensori e, molto spesso, i suoi più ferrei rappresentanti. A questo punto, al fine di conseguire gli obiettivi del governo, diventa non solo possibile, ma indispensabile avvalersi di una salda maggioranza parlamentare alternativa a quella ufficiale; e l’unico gruppo in grado di fornirla è quello di Forza Italia, unica formazione politica di discreta consistenza in Aula che fin dalle sue origini e con ostinata convinzione ha fatto della becera demagogia antipolitica e dell’abbattimento dei corpi intermedi il suo solo scopo.
Non ci troviamo, quindi, di fronte ad un Renzi in possesso di una totale libertà di movimento. Al contrario, ci troviamo al cospetto di un Renzi che senza Forza Italia non riuscirà mai a portare a compimento i suoi propositi.
L’unico inconveniente, troppo spesso sottovalutato perché non eccessivamente rumoroso, è costituito dal fatto che i gruppi parlamentari di Forza Italia sono in preda ad una pressoché completa anarchia. Un grave ostacolo al Patto del Nazareno che si è dimostrato in tutto il suo fulgore in uno dei momenti politicamente più determinanti di questi ultimi mesi: la prolungata ed esasperante incapacità del Parlamento di eleggere, a scrutinio segreto, i membri della Consulta. In quella situazione l’ingovernabilità dei berlusconiani si è rivelata talmente sconcertante da costringere Renzi innanzitutto a scendere a patti coi 5 Stelle per eleggere alcuni esponenti della Corte Costituzionale, ma soprattutto lo ha costretto a stravolgere da cima a fondo il testo della legge elettorale pur di garantire a quest’ultima una solida maggioranza che potesse stare in piedi in maniera indipendente dai voti di Berlusconi.
È stato quasi sicuramente il terribile ricordo di questo precedente a convincere Renzi che, in vista dell’elezione al Quirinale, non conviene cercare a tutti i costi l’alleanza con Berlusconi. Si rischia di compromettere seriamente i rapporti interni al Pd senza ottenere (a causa della riottosità interna a Forza Italia) la nomina del candidato proposto. Eppure, come dicevo, nonostante tutto anche la partita per il Colle testimonia l’inossidabile cordone ombelicale che lega il segretario dem al leader di FI. Se veramente fosse stato totalmente libero di muoversi sulla scacchiera politica senza pensieri di riguardo rivolti all’ex-Cavaliere, Matteo Renzi avrebbe potuto proporre un nome come Prodi o Rodotà. Nomi che, a prescindere dal peso e dall’indiscutibile preparazione, avrebbero notevolmente agevolato il leader dem a recuperare i rapporti con il proprio partito, con la fascia sociale più rivolta a sinistra e, chi lo sa, magari con una parte del bacino elettorale dei 5 Stelle.
Ha invece preferito optare per una figura legata sì alla storia del suo partito, ma non particolarmente ostile a Berlusconi, che difatti ha risposto con una tutto sommato benevola scheda bianca. Un altro rospetto da ingoiare per l’ex-premier, non troppo indigesto nella prospettiva luminosa di salvacondotti per sé e per il suo clan familiare. Potere in cambio di favori personali: salvo sorprese, questi sono i termini più probabili che stanno alla base della stipula del Patto del Nazareno. Un’alleanza non solo destinata a sopravvivere a lungo, ma fondata su un rapporto di sostanziale parità tra i contraenti.