Il colpo di scena quirinalizio del
premier «last minute», così viene soprannominato in sede di Consiglio dei
ministri, alla fine c’è stato. Non sul nome, che circolava tra i papabili
praticamente da sempre, ma sul metodo che ha portato alla candidatura di
quest’ultimo.
Eravamo in molti a non nutrire
dubbi sul fatto che il Quirinale rientrasse a pieno titolo nell’incessante ed
enigmatica trattativa tra Renzi e Berlusconi, tant’è vero che i giornalisti più
smaliziati ormai non ponevano nemmeno più la questione: «Impera il Nazareno,
vietato sperare», ammoniva il titolo di un commento di Andrea Scanzi pubblicato
sul «Fatto Quotidiano», e il resto dell’articolo proseguiva con il medesimo
tono: «Qualsiasi ipotesi non allineata alla mostruosità del Patto del Nazareno
è […] destinata a morire in partenza». Sullo stesso quotidiano anche Marco
Travaglio sembrava ormai rassegnato: «Può darsi che, come dice Renzi senza
precisare la settimana esatta, “sabato avremo il presidente”. Nel qual caso il
premier avrà vinto la partita, chiunque sia il nome del prescelto. Che,
comunque, sarebbe frutto del Patto del Nazareno, dunque un impresentabile».
Perché alla fine bisogna
ammetterlo. Da ormai un anno a questa parte gran parte delle cronache politiche
italiane finiscono per ruotare sempre intorno a questa misteriosa e mitica
creatura che passa sotto il nome di Patto (con la maiuscola) del Nazareno,
senza però che nessuno, a parte i contraenti e pochi intimi annessi (Lotti e
Verdini), abbia compreso realmente la consistenza, la portata e l’ampiezza di
questo continuo inanellarsi di accordi tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
Ufficialmente si tratta soltanto di una convergenza di vedute sulla
governabilità del Paese (quindi circoscritta a legge elettorale e riforma
costituzionale), ma la sequela di modifiche, tiramolla, strappi e ricuciture
che il testo delle riforme ha subito per decisione unilaterale di Renzi senza
gravi compromissioni nell’accordo tra i due (anche quando iniziavano ad
accumularsi clausole a dir poco nocive per Forza Italia, si pensi al premio
alla lista o alle basse soglie di sbarramento) qualche sospetto che la
trattativa andasse a lambire altre questioni appariva non solo plausibile, ma
praticamente scontata alla gran parte degli osservatori. E quale occasione
migliore per ringraziare l’ex-Cavaliere se non affidandogli un ruolo
insostituibile nella scelta del Presidente della Repubblica? Sorprendentemente le
cose non sono andate come previsto: con l’ennesima mossa inaspettata, vediamo non
solo Berlusconi venir scaraventato senza convenevoli ai margini della scena
politica, ma anche la materializzazione di un’inedita tripla maggioranza (quella
di governo, quella per le riforme e quella per il Quirinale) destinata, salvo
nuovi clamorosi imprevisti, a saldare la premiership di Renzi fino al 2018.
Apparentemente, questa la conclusione di molti osservatori, il premier dispone
di talmente tanti forni da cui attingere per approvare praticamente ogni suo
desiderata che nessun interlocutore diventa indispensabile, con la conseguenza che
tutti i gruppi parlamentari diventano ricattabili e suscettibili di potenziali
scaricamenti spregiudicati. Come nel caso di Berlusconi, appunto. Ex-Cavaliere
il quale, secondo la vulgata di buona parte del Pd, finisce per essere
nient’altro che una specie di volontario (che l’esperienza di Cesano Boscone
abbia suscitato questa sensibilità?) pronto a sorreggere il governo anche a
costo di spaccare il suo partito, perdere consensi e compromettere i rapporti
con i naturali alleati del suo schieramento ottenendo in cambio solo qualche
briciola: il Patto del Nazareno, infatti, ha consentito di avere come ministro
allo Sviluppo Economico (quello competente per le telecomunicazioni) e come
sottosegretari alla Giustizia figure tutt’altro che ostili all’universo
berlusconiano. L’unica altra consolazione che questa alleanza ha finora
riservato a Berlusconi è il fatto di aver consentito a Forza Italia di godere
di una strana forma di rilevanza politica. Una rilevanza che si trasforma in
centralità? Secondo molti, le vicende quirinalizie dimostrano che l’unico vero
padrone del campo sia il segretario del Pd. La mia impressione è diversa: Renzi
non può permettersi di annoverare Berlusconi tra i nemici del suo governo.
Facciamo un piccolo passo
indietro: a quasi un anno dalla formazione dell’attuale esecutivo, si conclude
che una personalità integralmente politica come Matteo Renzi non persegua,
causa la totale mancanza di profondità culturale e di bagaglio ideologico, un
autentico programma di governo, ma insegua esclusivamente l’ambizione di
accumulare in misura via via crescente sempre più potere, anche a costo
d’imbarazzanti incoerenze. Per raggiungere tale obiettivo il primo pensiero è
quello di cementare il consenso popolare, da qui l’ostentata e disinvolta
demolizione dei popolarmente vituperati corpi intermedi (dal Parlamento ai
sindacati, passando per il suo partito), la sporadica approvazione di misure di
consenso (decreto Irpef), il vergognoso silenzio sui temi concernenti la
legalità e una costruzione sfacciatamente menzognera fatta di slogan
antipolitici e promesse per lo più rimaste sulla carta (o, più spesso, sul
tablet). Il secondo pensiero è quello di rendersi riconoscente nei confronti di
coloro che hanno reso tangibile la sua ambizione (il caso più eclatante è la
sorte toccata ai finanziatori della Fondazione Open, finiti quasi tutti ai
vertici delle principali aziende di Stato). Atteniamoci però al primo punto:
nel bramoso desiderio di abbattere frontalmente gli odiosi apparati di potere
la semplice maggioranza di governo non gli può bastare. Oltre a sopravvivere a
Palazzo Madama grazie a pochissimi voti di scarto, questa si regge per lo più
(a livello parlamentare parliamo di una pattuglia tutt’altro che ininfluente) sugli
organici della vecchia gestione del Pd i quali (poggiando su concetti
conservativi totalmente agli antipodi rispetto a quelli del premier) degli
apparati di potere ne rappresentano i più strenui difensori e, molto spesso, i
suoi più ferrei rappresentanti. A questo punto, al fine di conseguire gli
obiettivi del governo, diventa non solo possibile, ma indispensabile avvalersi
di una salda maggioranza parlamentare alternativa a quella ufficiale; e l’unico
gruppo in grado di fornirla è quello di Forza Italia, unica formazione politica
di discreta consistenza in Aula che fin dalle sue origini e con ostinata
convinzione ha fatto della becera demagogia antipolitica e dell’abbattimento
dei corpi intermedi il suo solo scopo.
Non ci troviamo, quindi, di
fronte ad un Renzi in possesso di una totale libertà di movimento. Al
contrario, ci troviamo al cospetto di un Renzi che senza Forza Italia non riuscirà
mai a portare a compimento i suoi propositi.
L’unico inconveniente, troppo
spesso sottovalutato perché non eccessivamente rumoroso, è costituito dal fatto
che i gruppi parlamentari di Forza Italia sono in preda ad una pressoché
completa anarchia. Un grave ostacolo al Patto del Nazareno che si è dimostrato
in tutto il suo fulgore in uno dei momenti politicamente più determinanti di
questi ultimi mesi: la prolungata ed esasperante incapacità del Parlamento di
eleggere, a scrutinio segreto, i membri della Consulta. In quella situazione
l’ingovernabilità dei berlusconiani si è rivelata talmente sconcertante da
costringere Renzi innanzitutto a scendere a patti coi 5 Stelle per eleggere
alcuni esponenti della Corte Costituzionale, ma soprattutto lo ha costretto a
stravolgere da cima a fondo il testo della legge elettorale pur di garantire a
quest’ultima una solida maggioranza che potesse stare in piedi in maniera
indipendente dai voti di Berlusconi.
È stato quasi sicuramente il
terribile ricordo di questo precedente a convincere Renzi che, in vista
dell’elezione al Quirinale, non conviene cercare a tutti i costi l’alleanza con
Berlusconi. Si rischia di compromettere seriamente i rapporti interni al Pd
senza ottenere (a causa della riottosità interna a Forza Italia) la nomina del
candidato proposto. Eppure, come dicevo, nonostante tutto anche la partita per
il Colle testimonia l’inossidabile cordone ombelicale che lega il segretario
dem al leader di FI. Se veramente fosse stato totalmente libero di muoversi
sulla scacchiera politica senza pensieri di riguardo rivolti all’ex-Cavaliere,
Matteo Renzi avrebbe potuto proporre un nome come Prodi o Rodotà. Nomi che, a
prescindere dal peso e dall’indiscutibile preparazione, avrebbero notevolmente
agevolato il leader dem a recuperare i rapporti con il proprio partito, con la
fascia sociale più rivolta a sinistra e, chi lo sa, magari con una parte del
bacino elettorale dei 5 Stelle.
Ha invece preferito optare per
una figura legata sì alla storia del suo partito, ma non particolarmente ostile
a Berlusconi, che difatti ha risposto con una tutto sommato benevola scheda
bianca. Un altro rospetto da ingoiare per l’ex-premier, non troppo indigesto
nella prospettiva luminosa di salvacondotti per sé e per il suo clan familiare.
Potere in cambio di favori personali: salvo sorprese, questi sono i termini più
probabili che stanno alla base della stipula del Patto del Nazareno.
Un’alleanza non solo destinata a sopravvivere a lungo, ma fondata su un rapporto di sostanziale parità tra i contraenti.
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