I cortei No Tav (l’ultimo pochi
giorni fa) ormai non fanno nemmeno più notizia. Pare che ci abbiamo fatto il
callo a quest’organizzazione di cittadini rappresentata come qualcosa di
assimilabile o ad una tradizione folkloristica o, più spesso, ad una specie di
criminalità dedita al teppismo.
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Nemmeno lo sconcertante scandalo
relativo al Mose è servito a smuovere la sensibilità verso un tema, la
costruzione di alcune Grandi Opere, che col passare del tempo assume sempre di
più i connotati di un luculliano banchetto per amministratori, criminalità ed
esponenti politici di ogni colore. Eppure, sulla costruzione della linea ad
Alta Velocità (poi divenuta, in un disinvolto quanto sospetto cambio di
destinazione, Alta Capacità) fra Torino e Lione non sono mancate tracce di
opacità e odori d’interessi illegali: Benedetto Lazzaro, ad esempio, titolare
dell’Italcoge fornitrice delle ruspe nel cantiere di Chiomonte, fu prima
inquisito nel 1989 per «un giro di fatture false per tre miliardi», poi venne
rinviato a giudizio per frode ed evasione fiscale, successivamente usufruì del
condono finché, nel 1993, la Guardia di Finanza non lo perquisì con il sospetto
di false fatturazioni e di aver dato vita ad un «cartello» finalizzato alla spartizione
delle gare d’appalto per le opere pubbliche (quando era rappresentante legale
dell’Italcoge, il nipote Ferdinando Lazzaro venne arrestato nel 2002 con
l’accusa non solo di aver dato luogo ad un analogo «cartello», ma anche di aver
corrotto un funzionario della Magistratura del Po pur di ottenere appalti per
altri lavori in Val Susa). Come se non bastasse, tra i dipendenti della
famiglia Lazzaro (citata, fra l’altro, anche in una storia di documenti falsi
all’interno di una truffa aggravata in cui era coinvolta anche la Casa di
Riposo di Agliè) spiccava tra il 2006 e il 2007 Bruno Iaria, capo della ‘ndrina
di Cuorgné appena uscito di galera grazie all’indulto (tornerà alla ribalta
delle cronache giudiziarie nel 2012, in quanto esponente di spicco nella
gestione della ‘ndrangheta in Piemonte rivelata dall’Operazione Minotauro;
Operazione che metteva la pulce nell’orecchio anche, parole del rapporto dei
Carabinieri, sulla «commessa aggiudicata da LTF (Lyon Turin Ferroviarie) per
realizzare la recinzione nel cantiere di Chiomonte»). Non si sa se gioire o
rattristarsi di fronte alla notizia che nell’agosto 2011 l’Italcoge andrà
incontro al fallimento, lasciando in eredità anche un danno erariale di circa
cinque milioni di euro. La politica locale non tardò ad esprimere il suo
rammarico, sia da parte dell’on.Ghiglia del Pdl («La scelta coraggiosa di
Italcoge nel cantiere Tav ne avvalora, anche simbolicamente, l’impegno
professionale») sia da parte dell’on.Esposito del Pd («Esprimo la mia vicinanza
umana e politica ai lavoratori dell’Italcoge e alle loro famiglie, che in
questi mesi hanno lavorato in condizioni ambientali difficilissime»).
L’altra ditta coinvolta
nell’appalto del cantiere, quella dei fratelli Martina, non ha nulla da
invidiare: nella stessa estate del 2011 era immersa in una procedura
fallimentare che di lì a qualche mese darà luogo a incriminazioni per
bancarotta fraudolenta.
Ben lungi da suscitare quantomeno
diffidenza nei confronti di queste figure, LTF (la società pubblica
italo-francese che gestisce progettazione, sondaggi e realizzazione di una
parte dell’opera) nel giro di pochissimo tempo restituì l’appalto sia alla
famiglia Lazzaro (ora titolare di Italservizi) che alla famiglia Martina (ora
titolare di Martina Service).
Solo per motivi di spazio si è
scelto di non soffermarsi su altre aziende coinvolte nella costruzione del
tunnel (come la romagnola Bentini Spa, la quale, emanazione della cooperativa
rossa Cmc di Ravenna, nel 2005 affidò un subappalto ad un’azienda che gli
inquirenti ritengono proprietà della ‘ndrangheta di Gioia Tauro), per una
sommaria descrizione della situazione in Val Susa si legga quanto scriveva nel
2012 il giornalista Giovanni Tizian: «Che la Tav possa trasformarsi in
“’ndrangheTav” è un rischio concreto…L’area della Val Susa è nota per la
presenza delle ‘ndrine. Nel 1996 sono riuscite a entrare nell’Amministrazione
di Bardonecchia, passata alla storia come il primo Comune del nord sciolto per
mafia».
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Come spesso si asserisce,
effettivamente la presenza della criminalità non può rappresentare da sola una
ragione valida per impedire la costruzione di Grandi Opere necessarie alla
competitività economica del nostro Paese. Giustissimo. Appunto per questo è
doveroso affrontare un altro aspetto: la Tav Torino-Lione si può annoverare tra
le infrastrutture indispensabili per l’Italia? Può un progetto ideato quasi
trent’anni fa, in un frangente economico per molti aspetti opposto rispetto a
quello attuale, essere valido nel 2015? Quando ancora si parlava di una linea
Alta Velocità per i passeggeri, nei primi anni Novanta la Fondazione Agnelli
sovvenzionò uno studio in cui si presagiva per il 2002 un aumento del quintuplo
per quanto riguarda il numero degli avventori della linea Torino-Parigi. Cifre
totalmente irrazionali, smentite alla prova dei fatti solo alla fine di quel
decennio, quando le Ferrovie dello Stato furono costrette ad ammettere che il
numero dei passeggeri sulla linea esistente, ben lungi dall’aver subito un
brusco incremento, era addirittura calato fin sotto il milione tanto da rendere
l’utilizzo della tratta non superiore al 54% della propria capacità.
Al posto di optare per un
abbandono dell’opera (tanto più che la Val Susa ha già offerto molto in termini
d’infrastrutture visto che ospita due strade nazionali, la diga internazionale
del Moncenisio, il tunnel autostradale, l’autostrada del Fréjus, una ferrovia,
l’impianto e la centrale idroelettrica di Pont Ventoux), si decise di mutarne
la finalità: non più Alta Velocità per i passeggeri bensì Alta Capacità per il
trasporto di merci prevedendo che entro il 2030 fosse necessaria una linea
dotata di una capacità di transito non inferiore alle 40 milioni di tonnellate.
La realtà, ancora una volta, deluse di gran lunga le aspettative visto che dal
1997 in poi si assistette, al contrario, ad uno spettacolare calo sulla linea
esistente: vennero trasportate non più di 8,6 milioni di tonnellate nel 2000,
divenute 4,6 nel 2008 e 3,4 nel 2010 (anno in cui, secondo le previsioni, si
sarebbe dovuta raggiungere la quasi completa saturazione di 20 milioni di
tonnellate) tant’è vero che anche ai giorni attuali la linea viene sfruttata
soltanto per un quinto delle sue potenzialità.
A rendere ancora più cocente la
disfatta delle stime iniziale, provvede un organo istituzionale, la Direzione
trasporti, infrastrutture, mobilità e logistica della Regione Piemonte, la
quale stimava qualche anno fa che il «Traffico delle merci attraverso l’arco
alpino occidentale» è aumentato tra il 2000 e il 2008 soltanto dell’1%, mentre
se nello stesso rapporto ci si concentra sui traffici con la Francia si scopre
una diminuzione del 6% (e parliamo del periodo antecedente la crisi economica:
secondo i dati Alpinfo 2010 lo scambio tra Italia e Francia, escluso il valico
di Ventimiglia, ammontava a 26,3 milioni di tonnellate contro le 33,8 di dieci
anni prima) mentre a livello globale l’economia non solo si sta imperniando
attorno all’informatizzazione, ma sta privilegiando sempre di più i traffici
provenienti dal cosiddetto sud del
mondo, Estremo Oriente in primis (ricordiamo inoltre che la Tav prima di
entrare in funzione deve aspettare almeno altri quindici anni).
Un traffico esiguo che da un lato
rende l’opera assolutamente evitabile e dall’altro comporta un costo da cui
difficilmente si riuscirebbe a ottenere un ritorno in tempi brevi e nel
protrarsi dell’attuale congiuntura: un calcolo prudenziale della società
costruttrice, la LTF, parlava fino a qualche tempo fa di 20 miliardi di euro a
carico dell’Italia (esclusi gli interessi sul debito contratto ed esclusi
eventuali contrattempi), una cifra che secondo lo studio condotto da A.
Tartaglia («Valutazione della convenienza economico/sociale della ipotizzata
nuova linea ferroviaria Torino-Lione a standard AV») necessiterebbe dal primo
anno di linea al fine del solo equilibrio economico «un flusso minimo compreso
tra 28,4 milioni di tonnellate all’anno (nel caso ci si limiti ai soli costi
d’esercizio) e 121,0 milioni di tonnellate (nel caso si calcoli anche il
recupero del capitale investito). Cioè su volumi di traffico tra le 9,8 e le
41,7 volte superiori a quelli registrati nel 2010! Mentre per i passeggeri il
punto di equilibrio si registrerebbe su valori tra le 5,5 e le 26 volte
superiori agli attuali».
Venti miliardi di soldi pubblici
in tempo di crisi, dove per raggiungere i conti in ordine si attaccano a man
bassa pensioni e protezioni sociali, sono una somma difficilmente comprensibile
agli occhi dei cittadini, di conseguenza l’«austero» governo Monti decise a suo
tempo si proporre una soluzione «low cost»: a carico dell’Italia spetteranno
soltanto 2,7 miliardi di euro, senza specificare come verranno ripartiti in
un’opera che, tra le altre cose, solo per lo scavo della galleria di milioni ne
richiede 8,2 (parliamo infatti, prudenzialmente, di almeno 140 milioni al
chilometro).
Tutto ciò ovviamente senza
contare il fatto che in Italia il costo delle grandi opere ha sempre (dicasi
sempre) superato di gran lunga le previsioni iniziali (secondo l’analista Ivan
Cicconi, il costo dell’Alta Velocità Torino-Napoli è ad esempio cresciuto tra
il 1991 e il 2010 del 547%).
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Inoltre, non si può tacere di
fronte a quella che è probabilmente la questione più grave del Tav in Val Susa,
ossia la fragilità ambientale della zona. Parliamo di un ambiente ricco di
amianto, di uranio (nell’ottobre 2006 il rappresentante della Asl 5 di Susa
sottolineava che già ora il tasso di mortalità per problemi respiratori è
superiore del 17% rispetto alla media regionale) e destinato, negli anni dei
lavori, a produrre non solo tra i 10 e i 15 milioni di metri cubi di «smarino»
(il materiale di scarto derivante dalla perforazione della montagna) e un
notevole inquinamento acustico, ma anche, stando allo studio della Valutazione
d’Impatto Ambientale presentata dalla LTF, si calcola per la tratta
internazionale «ipotesi di impatto sulla salute pubblica di significativa
rilevanza soprattutto per le fasce di popolazione ipersuscettibili a patologie
cardiocircolatorie del 10%» solo per le polveri prodotte nel cantiere, a cui si
aggiunge «un aumento delle affezioni respiratorie intorno al 10-15%». A tutto
ciò va sommato anche il drenaggio: usando le parole adoperate dalla stessa LTF
nel progetto del 2003, si prevede l’utilizzo di «un flusso cumulativo di acque
sotterranee compreso tra i 60 e i 125 milioni di metri cubi all’anno», ossia l’equivalente
della fornitura idrica di una città da un milione di abitanti con evidenti
conseguenze (parole della Direzione generale Trasporti ed Energia della
Commissione Europea) «sull’alimentazione idrica di paesi e città, sull’agricoltura,
sui deflussi minimi dei fiumi e sulla produzione di energia idroelettrica.
Inoltre, le falde intercettate avrebbero potenzialmente pressioni e temperature
elevate, con problemi sia durante il cantiere che successivamente alla chiusura
dei lavori in ragione del riversamento di acque calde nei fiumi a valle». Come
se non bastasse, permane anche il rischio del prosciugamento di torrenti e fonti
a monte degli scavi.
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I sostenitori dell’infrastruttura
non conoscono dubbi o perplessità: l’opera va fatta a tutti i costi, inseguendo
l’illusione di una competitività che non guarda in faccia a nessuno,
rincorrendo smodatamente e ciecamente una crescita economica che, se arriverà
veramente, avrà connotati ben diversi rispetto al passato. Se l’economia
mondiale vuole davvero sopravvivere, non è più concepibile il dogma fondato
sulla perfezione del mercato, sulla totale assenza di solidarietà, sul
menefreghismo più assoluto verso il benessere collettivo, sulla strafottenza al
cospetto dell’arte, della bellezza, della cultura, dell’ambiente e della
natura. Opporsi alla Tav significa proprio questo: ricercare una nuova strada
di crescita economica fondata prima di tutto sul rispetto. La risposta, finora,
non poteva essere più brusca: l’opera non è mai stata messa in discussione, né
di fronte alle analisi più disparate, né di fronte alle pressanti richieste
praticamente unanimi dell’intera comunità della Val Susa (si pensi alla
massiccia presenza dei cittadini che le manifestazioni No Tav richiamano
costantemente, oppure al fatto che ben 25 Comuni della valle hanno finora
emesso delibere contrarie all’infrastruttura e al fatto che comunque nessun
Comune della zona ha mai espresso appoggio incondizionato all’opera). Le istituzioni,
comprese la magistratura, l’esercito, le forze dell’ordine e quasi tutte le
forze politiche di maggior rilievo, hanno preferito lo scontro diretto (si
pensi a Bruno Manghi, consigliere di Prodi escluso dalla lista unitaria della
Camera in vista delle elezioni politiche del 2006 dopo aver criticato
pubblicamente l’opera) che non poteva non provocare pesanti e intollerabili radicalizzazioni
violente in alcune frange del movimento No Tav. Perché nell’impari confronto
che avviene nell’incantevole confine boscoso della Val Susa il nodo del
contendere non riguarda solo un treno: la posta in gioco è ben più alta.
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