Ci voleva una bella dose di
sforzo per far passare il nostro Paese dal 49esimo al 73esimo posto (su 180) nella
classifica sulla libertà di stampa redatta da Reporters sans frontières, eppure
a forza di dai e dai ce l’abbiamo fatta. Non poteva passare inosservata la
telefonata in cui i più spregevoli burattinai di Mafia Capitale, Massimo
Carminati e Salvatore Buzzi, tributavano al direttore de «Il Tempo» Gian Marco
Chiocci il vezzeggiativo di «amico nostro» dettandogli fra l’altro, col tramite
del sindaco Alemanno, articoli che favorissero le cooperative di Buzzi nella
concessione dell’appalto per il Centro d’accoglienza di Castelnuovo di Porto
(agghiacciante l’sms spedito da Buzzi ad Alemanno il giorno della
pubblicazione: «Buongiorno Gianni e uscito un ottimo articolo su il Tempo
ringrazia per noi il Direttore e ancora grazie per la tua disponibilità Un
abbraccio S. Buzzi»). Né sono passate inosservate le minacce, talvolta seguite
da concreti atti intimidatori, che troppo spesso la criminalità organizzata riserva
a giornalisti intenti a fare il proprio mestiere. Chi lo sa? Forse non è
passata nemmeno inosservata l’arroganza con cui i leader politici si
approcciano al circuito mediatico (memorabili i toni marcatamente craxiani che
Matteo Renzi riservò ai giornalisti durante la conferenza stampa a qualche ora
dalla vittoria alle primarie del Pd: «A questo ho già risposto, prego»; «questo
lo avete già chiesto, avanti il prossimo»; «la profondità delle risposte
dipende dalla profondità delle domande» etc.). Eppure, continuando di questo
passo, la deriva giornalistica potrebbe consegnarci nelle future graduatorie
risultati addirittura più umilianti. Le Camere, infatti, stanno discutendo una
legge sulla diffamazione il cui testo, in cambio di una (lodevole) eliminazione
della pena carceraria per i giornalisti, pare avere il preciso proposito di
fare strame di ciò che resta della libertà d’informazione. Il carcere, infatti,
si trasforma in una pena pecuniaria il cui limite massimo, a prescindere se si
tratti de «La Stampa» o di un blog sui problemi di Spinaceto, è fissato a
10mila euro.
La multa si può evitare, questo sì,
ma a patto che si pubblichi una rettifica in testa di pagina, senza titolo,
senza commento, senza risposta e con tanto d’indicazione del giornalista
responsabile dell’articolo diffamante. Nulla di strano, viene da pensare.
Difatti il problema è un altro: la rettifica deve avvenire anche nel caso il
giornalista avesse soltanto riportato la verità e, nel caso non gli fosse
sufficiente né la rettifica e nemmeno l’aggiornamento dell’articolo, qualunque
cittadino coinvolto nel circuito mediatico (anche il più balordo, anche il più
meritevole di una sonora deplorazione pubblica) grazie ai nuovi dispositivi
potrebbe addirittura chiedere a sua discrezione, con tanto di possibilità di
rivolgersi a un magistrato in caso di mancato adempimento, l’eliminazione
completa dal web e dagli archivi di ogni informazione a suo riguardo.
Non solo: il direttore delle
testate vede gravare su di sé una responsabilità sempre più pesante. Da 8mila a
16mila euro di multa (più l’automatico deferimento all’organo disciplinare e la
possibilità di denuncia) in caso di rifiuto di pubblicazione delle rettifiche e
responsabilità di controllo capillare per ogni articolo pubblicato (firmato e
non) anche in casi di contenuti in perenne aggiornamento come può esserlo una
testata online.
Una miscela esplosiva che sembra
studiata apposta per far incorrere il giornalista, di questi tempi sempre più
indifeso e malpagato, nel peggiore tra gli incubi dell’Italia attuale: non il
carcere, bensì la dispendiosissima e massacrante trafila giudiziaria di
processi e controprocessi in cui, anche se si arriva alla conclusione e si
accerti la buona fede del giornalista, il gioco non vale mai la candela. Oltre
al fondato rischio che l’editore, nel frattempo, abbia trovato altre
professionalità a cui rivolgersi, l’assoluzione perché il fatto non costituisce
reato impedisce in qualsiasi situazione un risarcimento, seppur simbolico, nei
confronti del giornalista innocente.
Ricorrere al processo per
diffamazione, o semplicemente minacciarlo, finisce per rappresentare
indubbiamente una potentissima arma di minaccia (e soprattutto dissuasione) nei
confronti di un giornalista, magari da parte di una personalità politica che di
solito, al contrario, gode di un’«insindacabilità parlamentare» che gli
permette di divulgare ogni scemenza che gli passi per la mente senza correre
alcun pericolo.
Accade sovente che qualche
personaggio nominato negli articoli si senta in dovere di minacciare strali di
ogni genere e di pretendere rettifiche anche in caso di verità accertate dalla
magistratura. Rimanendo nei casi capitati al «Corriere della Sera» (un
quotidiano né sprovvisto di mezzi, né tantomeno dalle tendenze sovversive),
quando venne dedicato un articolo alla sconcertante vicenda del direttore della
biblioteca dei Girolamini Massimo Marino De Caro- che di giorno si spacciava
truffaldinamente per nobile, laureato e docente universitario mentre di notte
rubava letteralmente alla biblioteca i volumi più preziosi- nonostante la
condanna sia in primo che in secondo grado secondo la legge avrebbe il pieno
diritto di farsi pubblicare una lettera senza risposta atta a confermare tutte
le menzogne raccontate da quest’uomo.
Chi non ci ha pensato due volte a
sporgere querela è stato un ex-membro della Camera appartenente alla Lega Nord,
Claudio Regis, al quale venne fatta notare la strana usanza di firmarsi e
definirsi «ingegnere» non solo non disponendo di tale qualifica, ma ammettendo
senza mezzi termini (in un’intervista a «Economy») la natura di questa
frottola.
Sebbene di fronte a verità
accertate, nemmeno Paolo Bonaccorsi ha rinunciato a brandire l’arma giudiziaria
dopo che, divenuto assessore regionale all’urbanistica calabrese nei giorni in
cui giravano insistentemente le voci sulla costruzione del ponte sullo stretto,
passò alle cronache per un curriculum menzognero (con tanto di documenti
taroccati finalizzati a millantare iscrizioni all’albo degli avvocati) spedito
alle Ferrovie dello Stato. E come dimenticare il giudice Diego Cutrò,
inorridito perché gli venne attribuita una condanna in appello per corruzione
in atti giudiziari invece di una condanna in appello per corruzione semplice? E
come farsi passare dalla memoria Alberto Monaci, esponente di spicco della Dc
toscana imbufalito dopo che la stampa rese noto che approfittò della fine della
prima repubblica per svendere per pochi spiccioli alla sua compagna un’incantevole
dimora nel cuore di Siena di proprietà del partito? E come non sorprendersi di
fronte a Totò Cuffaro, che sporse denuncia dopo che un giornalista osò
appioppargli l’epiteto di «clientelare»?
Le querele vennero vinte dal
giornale, ma la spesa processuale non fu indifferente nemmeno per un quotidiano
importante come quello di via Solferino, figurarsi cosa può significare una
cosa del genere per una testata dagli scarsi mezzi.
Soluzioni per arginare questa
soverchieria sono poche e assolutamente semplici. Come scrive l’avvocato
Caterina Malavenda: «Basterebbe, ad esempio, imporre al querelante che perde di
pagare le spese processuali sostenute dall’imputato assolto con qualunque
formula e di risarcire adeguatamente il danno arrecatogli, per averlo fatto
processare ingiustamente; rendere obbligatoria la condanna di risarcimento, in
sede civile, nei confronti di chi ha agito con colpa grave o, peggio, con dolo;
porre a carico di chi inizia una causa civile una sorta di cauzione, una somma
di denaro, proporzionata al danno richiesto, che garantisca il pagamento delle
spese all’avversario se vince e che adesso si tenta spesso inutilmente di
recuperare. Pochi e calibrati interventi su norme già esistenti, dunque: e l’effetto
deflattivo, anche quando la “vittima” è un giornalista, sarebbe immediato». Ma
evidentemente il fine che il legislatore si propone ha ben poco a che vedere
con il buon senso e la difesa dei diritti dell’informazione. L’importante è far
dormire sonni tranquilli a chi rischia di veder sfigurata la propria immagine
sugli organi mediatici, anche a scapito di una libertà di stampa che di anno in
anno ci consegna risultati sempre più imbarazzanti.
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